L'evidenza empirica sul salario orario minimo

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Cerchiamo di riassumere l'evidenza empirica che abbiamo a disposizione riguardo agli effetti del salario orario minimo su occupazione, disoccupazione e partecipazione al mercato del lavoro. Tutto sommato, i dati sembrano dire che l'imposizione di un salario minimo tende ad avere effetti negativi proprio per i lavoratori che si vorrebbero maggiormente aiutare, ovvero quelli con bassi salari.

Chiariamo subito che stiamo parlando di salario orario minimo, ovvero di una legislazione che stipuli un salario minimo che dev'essere pagato da qualsiasi datore di lavoro per ogni ora lavorata. Negli Stati Uniti, il salario orario minimo esiste da molto tempo ed è fissato a livello federale: si parla appunto di Federal minimum wage. A questo si possono aggiungere ulteriori legislazioni a livello dei singoli stati, che innalzano ulteriormente il salario orario minimo. Altra cosa è invece l'idea di un reddito minimo (mensile) di cui si discute a volte a fini redistributivi. Come dice giustamente Michele, il modo migliore di effettuare redistribuzione è attraverso la negative income tax, implementata negli Stati Uniti sotto forma di Earned Income Tax Credit (EITC). Ma di questo parleremo magari in un altro post. Per adesso ci limitiamo a considerare il salario orario minimo, e in quanto segue, per semplicità, lo chiamerò salario minimo.

La serie di studi forse più famosa riguardo agli effetti di un aumento del salario minimo è quella di David Card e Alan Krueger e coautori (Card 1992a,b; Card e Krueger 1994; Katz e Krueger 1992). Essi studiano l'effetto di due aumenti successivi del salario minimo avvenuti nel 1990-1991 sull'occupazione giovanile in un'industria molto specifica, ovvero quella del fast-food. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, all'aumento del salario minimo, a detta di questi studi, è corrisposto un leggero aumento dell'occupazione in queste imprese. Gli autori giungono a questa conclusione dopo una serie di test che paragonano l'andamento dei salari e dell'occupazione in stati confinanti che hanno avuto aumenti diversi del salario minimo, a causa di differenze nella legislazione statale. Il risultato principale di questi studi, sull'assenza di effetti negativi sull'occupazione derivanti da un aumento del salario minimo, è confermato anche da uno studio che usa dati britannici, di Machin e Manning 1994.

Purtroppo questa evidenza empirica non sembra essere corroborata da studi successivi. Ad esempio, Deere, Murphy & Welch 1995 trovano che quando aumenta il salario minimo, l'occupazione dei gruppi maggiormente interessati da questo aumento diminuisce. In particolare, lavoratori che non hanno terminato le scuole superiori, donne, e neri. Questo studio ha valenza più generale di quelli di Card, Krueger e compagnia, in quanto usa dati che coprono l'intero territorio degli Stati Uniti e per un insieme generale di industrie. Un riassunto dei loro risultati può essere trovato qui: questo pezzo contiene anche serie e fondate critiche alla metodologia impiegata da Card e Krueger.

In una serie di studi pubblicati nel 2000, Burkhauser, Couch & Wittenburg portano ulteriori prove empiriche a sostegno dell'idea che un aumento del salario minimo provoca, effettivamente, una diminuzione dell'occupazione per i segmenti del mercato del lavoro direttamente interessati da tale aumento. Questi autori trovano un'elasticità dell'occupazione rispetto al salario minimo che va da -0.41 a -0.45. Deere, Murphy & Welch avevano trovato elasticità dal -0.12 a -0.56. Ovvero, un aumento del salario minimo del 10% provoca una riduzione dell'occupazione che va da uno a quasi sei punti percentuali.

In uno studio successivo (2001), gli stessi Couch e Wittenburg trovano che oltre agli effetti avversi sull'occupazione, un aumento del salario minimo provoca anche una riduzione delle ore lavorate, soprattutto - di nuovo - per uno dei gruppi maggiormente interessati da tale aumento, ovvero lavoratori giovani. L'elasticità di ore lavorate rispetto al salario minimo è, come ci si potrebbe aspettare, ancora maggiore (in valore assoluto) di quella dell'occupazione: è infatti più facile per un datore di lavoro ridurre le ore lavorate da un impiegato che si trova a dover pagare di più, piuttosto che licenziarlo.

Risultati simili vengono riportati da una serie di studi di David Neumark e coautori. In particolare, in uno studio del 2004, Neumark trova che gli effetti di un aumento del salario minimo sono concentrati intorno alla zona della distribuzione dei redditi che è direttamente interessate da tale aumento; gli effetti sono invece praticamente nulli in altre zone della distribuzione. Per i lavoratori direttamente colpiti da tale aumento, gli effetti sono simili a quelli riportati dagli studi riportati più sopra: l'elasticità di ore lavorate è intorno allo -0.3, mentre quella dell'occupazione e' tra -0.1 e -0.2.

Vale la pena infine di citare un lavoro recente di Chris Flinn (2006) che studia gli effetti dell'imposizione di un salario minimo nel contesto di un modello di "search" e "matching", ovvero di ricerca di lavoro da parte dei lavoratori e di contemporanea decisione da parte dei datori di lavoro riguardo a quanti annunci pubblicare. Il lavoro di Flinn è davvero notevole in quanto, a differenza dei lavori empirici citati qui sopra, sviluppa un modello teorico di equilibrio generale del mercato del lavoro, in cui vengono studiati gli effetti del salario minimo non solo su salari, occupazione e disoccupazione, ma anche sul benessere complessivo dei lavoratori. I parametri del modello vengono poi stimati usando dati di diversa provenienza, e vengono utilizzati per calcolare un livello "ottimo" del salario minimo.

Come spiegato altrove su questo sito, le argomentazioni che spiegano come il salario minimo possa aumentare il benessere dei lavoratori si basano su qualche inefficienza di mercato. "Attriti" vari nella ricerca di lavoro, efficiency wages, informazione asimmetrica rispetto alla qualità dei lavoratori... Un'altra argomentazione usa l'idea che il salario minimo provoca l'uscita dal mercato del lavoro di imprese non particolarmente profittevoli. Il risultato è sì un aumento dei salari, ma anche la riduzione dell'occupazione. Stime olandesi (van der Berg e Ridder 1998) trovano che il salario minimo in Olanda ha cacciato dal mercato del lavoro imprese meno profittevoli, e reso non-occupabili ampie fasce di lavoratori, provocando un forte effetto della disoccupazione strutturale.

Nel modello di Flinn, a seguito di un aumento del salario minimo la disoccupazione generalmente aumenta (ma non necessariamente), ma può aumentare anche il tasso di occupazione, perché un aumento del salario minimo può far crescere gli incentivi alla ricerca di lavoro da parte dei lavoratori. Il punto centrale di questo studio è che l'introduzione di un salario minimo può aumentare il benessere dei lavoratori se aumenta il potere negoziale dei lavoratori portandolo più vicino a quello "ottimo" in un modello di matching fra imprese e lavoratori. In genere, se il potere negoziale dei lavoratori è molto basso in partenza, è piu' probabile che un aumento del salario minimo accresca il benessere dei lavoratori.

Il lavoro di Flinn chiarisce anche che, se uno studia gli effetti del salario minimo in equilibrio parziale, senza tenere conto di come le imprese reagiscono all'imposizione del salario minimo, allora le stime possono suggerire livelli ottimi del salario minimo anche superiori a quelli attuali. Se però si considerano esplicitamente le decisioni delle imprese riguardo alla creazione di nuovi posti di lavoro, allora il salario minimo ottimo (usando dati USA) è inferiore a quello attuale, e un aumento del salario minimo induce maggiore disoccupazione, minore occupazione, e minore benessere per i lavoratori.

Riassumendo, direi che l'evidenza empirica tende a confermare l'idea che l'imposizione di un salario minimo in Italia avrebbe probabilmente effetti avversi su occupazione e ore lavorate. Soprattutto per quelle fasce di lavoratori - giovani, donne, lavoratori con bassi livelli educativi - che si vorrebbero maggiormente aiutare. Davvero non una buona idea.

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PS: raccolgo qui qualche ulteriore riferimento, che ho gia' menzionato nei commenti:

- Un lavoro di John Abowd, Francis Kramarz e David Margolis (1999), citato da David Neumark e da Greg Mankiw, confronta l'esperienza di Francia e Stati Uniti negli anni ottanta: il confronto e' interessante perche' in Francia il salario minimo reale e' aumentato nel periodo in considerazione, mentre negli Stati Uniti e' diminuito. Abowd e compagnia trovano forti effetti di disoccupazione derivanti dal salario minimo in entrambi i paesi, proprio per i lavoratori colpiti dal salario minimo. Purtroppo non ho ancora l'articolo di Abowd sotto mano, ma appena lo trovo aggiungero' i dettagli. (Qui pero' trovate il riferimento alla versione working paper, con il riassunto dei risultati empirici).

- Aggiungo invece qualche dettaglio sui risultati del lavoro di van der Berg e Ridder 2003, che usano dati longitudinali olandesi dal 1985 al 1990. Nelle loro simulazioni sull'effetto del salario minimo, trovano che un aumento del 25% del salario minimo rende il 16% dei lavoratori permanentemente disoccupati, in quanto rende quei segmenti di imprese non-profittevoli. La maggior parte degli individui colpiti sono lavoratori giovani, fra i 22 e i 30 anni. Inoltre, questo studio trova che il potere di monopsonio delle imprese e' debole, specialmente per quelle maggiormente colpite dal salario minimo.

- un recente lavoro di Neumark e Nizalova (2004), riportato qui (cercate il Discussion Paper no. 1428, sotto "Publications"), suggerisce che gli effetti avversi del salario minimo persistano anche nel lungo periodo: in altre parole, essere esposti, da giovani, ad un salario minimo relativamente alto non solo riduce ore lavorate e occupazione al momento, ma induce una riduzione dei guadagni da lavoro anche successivamente, nell'arco della propria esperienza lavorativa. L'ipotesi avanzata da Neumark e Nizalova e' che gli effetti immediati si traducono in una minore accumulazione di esperienza lavorativa e di abilita' specifiche per il mercato del lavoro.

- Altri due lavori (di Laroque e Salanie) considerano l'esperienza francese. Entrambi gli studi usano dati su donne sposate in Francia dai 25 ai 49 anni di eta', nel 1997. Il salario minimo in Francia all'epoca era di circa $5 all'ora (simile ai livelli americani). Il primo, che si puo' trovare qui, analizza un modello di contrattazione collettiva in presenza di salario minimo. Gli effetti del salario minimo sono i soliti: l'occupazione decresce mentre i salari aumentano. Ma dalle simulazioni basate sulle stime del modello, risulta che il benessere massimo dei lavoratori sarebbe raggiunto ad un livello di salario minimo molto inferiore (di circa un terzo) a quello vigente in Francia nel 97. Il secondo, pubblicato sul Journal of Applied Econometrics 2002, trova che circa il 15% della non-occupazione femminile in Francia e' spiegato dalla presenza del salario minimo. Questo lavoro e' degno di nota perche' modella esplicitamente e in modo abbastanza dettagliato tutto il sistema di tassazione del reddito da lavoro, contributi sociali, e - attenzione - reddito minimo garantito vigenti in Francia.

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Una precisazione su Card e Krueger

L'evidenza empirica addotta da CK e' davvero poco credibile. Basta rileggere con attenzione il loro lavoro sui ristoranti del New Jersey e della Pennsylvania per rendersene conto. Riassumendo brevemente:

1) L"esperienza di 400 ristoranti fast-food (sostanzialmente un case-study) non e' assolutamente generalizzabile, e difatti e' confutata da tutti gli studi che usano campioni nazionali rappresentativi.

2) Lo studio in questione, sui fast-food del New Jersey, e' fatto male perche' confronta l'occupazione prima e dopo l'aumento del salario minimo in una finestra temporale troppo ristretta: pochi mesi intorno all'aprile del 1992, data dell'entrata in vigore del nuovo livello del salario minimo. Ma l'aumento era gia' stato decretato ai primi del 1990, in modo pubblico, per cui le imprese avevano avuto tutto il tempo di reagire. Infatti, se si allarga la finestra temporale fino ad includere la data in cui il provvedimento era stato approvato, si ottiene un effetto sull'occupazione negativo.

3) E' perfettamente possibile che l'aumento del salario minimo abbia reso i ristoranti fast-food piu' competitivi rispetto ad altri ristoranti "low-cost" che operavano sotto i nuovi livelli salariali. Di nuovo, l'esperienza dei fast-food non e' generalizzabile all'intera economia.

Queste ed altre argomentazioni sono anche raccolte nel lavoro di Deere Murphy e Welch citato sopra.

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Riferimenti bibliografici (ancora incompleti)

Abowd, John M., Francis Kramarz, Thomas Lemieux, and David N. Margolis (1999), "Minimum Wages and Youth Employment in France and the United States", in Youth Unemployment and Employment in Advanced Countries, ed. David Blanchflower and Richard Freeman, 427-72. Chicago: University of Chicago Press.

Burkhauser, Richard V., Kenneth A. Couch, and David Wittenburg (2000a), "A reassessment of the new economics of the minimum wage literature using monthly data from the current population survey", Journal of Labor Economics, Vol. 18:653-80.

Burkhauser, Richard V., Kenneth A. Couch, and David Wittenburg, (2000b), "Who minimum wage increases bite: Results from the current population survey and survey of income and program participation", Southern Economic Journal, Vol. 67:16-40.

Card, David (1992a), "Using Regional Variation in Wages to Measure the Effects of the Federal Minimum Wage", Industrial and Labor Relations Review, Vol. 46 (1), pp. 22-37.

Card, David (1992b), "Do Minimum Wages Reduce Employment? A Case Study of California", Industrial and Labor Relations Review, Vol. 46 (1), pp. 38-54.

Card, David and Krueger, Alan B, (1994), "Minimum Wages and Employment: A Case Study of the Fast-Food Industry in New Jersey and Pennsylvania", American Economic Review, Vol. 84 (4), pp. 772-93.

Deere, Donald, Kevin M. Murphy, and Finis Welch (1995), "Employment and the 1990-1991 Minimum-Wage Hike", American Economic Review, Vol. 85 (2), Papers and Proceedings, 232-237.

Flinn, Christopher J. (2006), "Minimum Wage Effects on Labor Market Outcomes under Search, Matching, and Endogenous Contact Rates", Econometrica, Vol. 74 (4) , 1013–1062.

Katz, Lawrence F. and Krueger, Alan B. (1992), "The Effect of the Minimum Wage on the Fast-Food Industry", Industrial and LaborRelations Review, Vol. 46 (1), pp. 6-21.

Neumark, David, Mark Schweitzer and William Wascher (2004), "Minimum Wage Effects throughout the Wage Distribution", Journal of Human Resources, Vol. 39 (2), 425-450.

Van der Berg, G., and G. Ridder (1998): “An Empirical Equilibrium Search Model of the Labor Market,” Econometrica, Vol. 66, 1183–1221.
 

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Commenti

Ci sono 42 commenti

 

Riassumendo, direi che l'evidenza empirica tende a confermare l'idea che l'imposizione di un salario minimo in Italia avrebbe probabilmente effetti avversi su occupazione e ore lavorate. Soprattutto per quelle fasce di lavoratori - giovani, donne, lavoratori con bassi livelli educativi - che si vorrebbero maggiormente aiutare. Davvero non una buona idea.

 

Non capisco come le argomentazioni portate nell'articolo ti facciano arrivare ad una conclusione così netta. Mi pare che il quadro che disegni sia più complesso. Se ho ben capito, quasi tutti gli studi empirici che citi sono su dati USA. Queste analisi porterebbero alla conclusione che il salario minimo attuale negli USA è troppo alto (con qualche se e qualche ma, vedi i lavori di Krueger e Card). La stessa conclusione si ottiene guardando al paper teorico di Flinn. Bene. A questo punto però ho un paio di domande:

1) Questo cosa c'entra con l'Italia? Qualcuno ha considerato le caratteristiche specifiche del nostro Paese? Ad esempio che il nostro mercato del lavoro è spaccato in 2, e che quindi gli effetti del salario minimo sulle "categorie deboli" potrebbero essere molto diversi? Qualcuno ha effettuato studi empirici o simulazioni basate sui nostri (bassi) livelli salariali?

2) Non mi pare che nel tuo articolo ci siano forti argomentazioni contrarie all'inserimento di un salario minimo per se. Gli elementi più forti (e cmq, mi sembra, non conclusivi) sono contro l'aumento dello stesso negli USA (e, in un caso, in UK).

Dico idiozie?  ;)

 

Nessuna idiozia. Fammi rispondere innanzitutto fornendo qualche ulteriore risultato basato su dati europei:

- Un lavoro di John Abowd e coautori, citato da David Neumark, confronta l'esperienza di Francia e Stati Uniti negli anni ottanta: il confronto e' interessante perche' in Francia il salario minimo reale e' aumentato nel priodo in considerazione, mentre negli Stati Uniti e' diminuito. Abowd e compagnia trovano forti effetti di disoccupazione derivanti dal salario minimo in entrambi i paesi, proprio per i lavoratori colpiti dal salario minimo. Purtroppo non ho ancora l'articolo di Abowd sotto mano, ma appena lo trovo aggiungero' i dettagli.

- Aggiungo qualche dettaglio sui risultati del lavoro di van der Berg e Ridder, che usano dati longitudinali olandesi dal 1985 al 1990. Nelle loro simulazioni sull'effetto del salario minimo, trovano che un aumento del 25% del salario minimo rende il 16% dei lavoratori permanentemente disoccupati, in quanto rende quei segmenti di imprese non-profittevoli. La maggior parte degli individui colpiti sono lavoratori giovani, fra i 22 e i 30 anni. Inoltre, questo studio trova che il potere di monopsonio delle imprese e' debole, specialmente per quelle maggiormente colpite dal salario minimo.

E' vero, non ho trovato studi che usano dati italiani. E sicuramente gli effetti specifici dipenderebbero dal livello del salario minimo stesso e da altri dettagli. La mia congettura sui probabili effetti di un salario minimo in Italia si basa sull'evidenza empirica riportata qui sopra, basata sull'esperienza francese e olandese. Inoltre, i lavori di Flinn e di van der Berg e Ridder esplicitano un possibile effetto di equilibrio generale sul comportamento delle imprese, che possono ridurre le vacancies da loro annunciate o addirittura essere costrette ad uscire dal mercato. In Italia, poi, ritengo probabile che l'introduzione di un salario minimo possa indurre, al margine, la fuoriuscita di un certo numero di imprese nel sommerso. Di nuovo, l'entita' di quest'effetto dovrebbe essere quantificata usando dati italiani.

 

 

Giorgio mi pare porti evidenza non solo per US, ma anche per UK e per Olanda 

 

Grazie a Giorgio per la review sull’evidenza empirica sul salario orario minimo. Devo dire che mi ha sempre lasciato perplesso il contrasto così forte tra i primi lavori di Card e Krueger e quelli più recenti. Immagino che parte della storia vada ricercata nelle caratteristiche specifiche dei diversi mercati del lavoro analizzati.

 

E poi mi chiedo: ci interessa davvero solo l’effetto sull’occupazione (premesso comunque che resta centrale). A questo proposito vorrei far presente che forse l’analisi e il dibattito dovrebbero guardare anche ai criteri di ottimalità del salario minimo legale, nel senso che qualunque discussione sul tema non può prescindere: 1) dall’analisi delle elasticità della domanda e dell’offerta di lavoro nel segmento/segmenti di mercato interessati dall’introduzione e/o dall’aumento; 2) dall’obiettivo di redistribuzione del policy maker in un contesto di second best.

Segnalo un working paper di Saez e Lee che potete trovare cliccando sul titolo (Optimal Minimum Wage in Competitive Labor Markets ) dello scorso Dicembre che affronta proprio questi temi e giunge alla conclusione che l’introduzione/aumento del salario minimo può essere ottimale in un’ottica di second best, concesso che i risvolti sull’optimal employment dei lavoratori low skilled siano tutt’altro che scontati. Ecco l'abstract:

 

This paper presents a theoretical analysis of optimal minimum wage policy in a perfectly competitive labor market. Introducing a minimum wage is desirable if the government values redistribution toward low wage workers. This result remains true in the presence of optimal nonlinear taxes and transfers. In that context, a minimum wage effectively rations low skilled labor which is subsidized by the optimal tax/transfer system, and improves upon the second-best tax/transfer optimum. We derive formulas for the optimal minimum wage (with or without optimal taxes) as a function of the elasticities of labor supply and demand and the redistributive tastes of the government. The optimal minimum wage decreases with the demand elasticity for low skilled labor but increases with the supply elasticity of low skilled labor. The optimal minimum wage follows an inverted U-shape as a function of the strength of the redistributive tastes of the government. We present a number of numerical simulations to illustrate those results. When labor supply is along the extensive margin, a minimum wage should always be associated with in-work subsidies [tipo EITC, ndr.] the co-existence of minimum wages with high participation tax rates for low skilled workers is (second-best) Pareto inefficient.

 

Una nota anche sul cosiddetto “modo migliore di effettuare redistribuzione” citato da Giorgio. Innanzitutto non confonderei la NIT con l’EITC; non mi sembra infatti corretto dire che EITC sia una forma di applicazione della NIT. I due strumenti hanno filosofia sostanzialmente diversa. Il problema sta nella risposta degli individui in termini di labor supply.

La NIT è uno strumento efficace di redistribuzione a favore dei redditi bassi se non c’è un problema di scarsa partecipazione al mercato del lavoro (ovvero quando la risposta degli agenti si concentra prevalentemente sul margine intensivo). La NIT, infatti, tende ad avere effetti disincentivanti sulla partecipazione al mercato del lavoro.

L’EITC, invece, agisce in modo pieno proprio sulle scelte degli agenti lungo il margine estensivo (decidere o meno se partecipare al mercato del lavoro). Siccome fornisce un sussidio a chi lavora (ma guadagna poco) essa costituisce un forte incentivo a partecipare attivamente (lavorando) al mercato del lavoro.

Negli USA il sistema è estremamente complesso visto che oltre alla NIT e all’EITC sono in vigore molti programmi di welfare e, pertanto, una valutazione degli effetti complessivi è difficile da fare. In Italia, invece, non abbiamo nulla (ma qualcosa serve).

Nel decidere cosa sia ottimale occorre analizzare di nuovo le elasticità dell’offerta di lavoro. La mia sensazione è che troppa gente (tipo le donne) stiano fuori dal mercato del lavoro perché scoraggiate da salari d’ingresso troppo bassi che non giustificano la perdita della “produzione domestica alternativa”. In questo senso la EITC sarebbe auspicabile. Per contro, se riteniamo che i redditi di alcuni lavoratori (quindi, già sul mercato) siano troppi bassi, si potrebbe studiare un sistema doppio NIT+EITC.

Per dettagli potete vedere Saez (2002) e Moffitt (2003).

 

 

 

se questo è quello che intendi per cut and paste fico, basta usare il bottone

che trovi sulla prima riga della finestra usata x scrivere i commenti.

Per quanto riguarda i link "ben fatti", non lo so: personalmente mi limito a copia-incollare l'url...

 

 

(non ho ancora capito come si inseriscono i link e come si fa il cut and past in modo “fico” come lo fanno gli altri):

 

Usa il cursore per evidenziare le parole che vuoi associare al link.

Clicca il simbolo catenina nel menu (quella intera, quella rotta e' per togliere un link)

Si apre finestra di lavoro, inserisci URL del link in linea apposita. Click Insert.

Finestra di lavoro si chiude. Save, done.


Visto

che ci siamo: usa il modulo contrassegnato dalla W di Word (sempre nel

menu' sopra) o quello contrassegnato dalla T di Text per inserire,

rispettivamente, cut and paste da file in Word (ed anche PDF) e Text.

Questo tende ad eliminare i comandi tipo ecc.

Se

questo non funziona, clicca HTML, nel menu, e ti esce il testo in

versione html, dove puoi togliere manualmente comandi indesiderati.

Visto che commento "fico" ti ho fatto? Tips in euros greatly appreciated, thanks. I links li metti tu, pero' ... cosi' fai pratica! :-)

 

 

Messa apposta la forma, veniamo alla sostanza.

Anzitutto, interessante questo paper di Saez&Lee che citi. Sembra quasi uguale, anche nel titolo, ad un paper parecchio più vecchio, scritto da un mio ex studente di MN quando era alla Fed di Atlanta (ora sta a Duke). Il loro (Gorostiaga&Rubio-Ramirez) abstract dice

 

This paper studies the use of a minimum wage law to implement the

optimal redistribution policy when a distorting tax-transfer scheme is

also available. The authors build a static general equilibrium model

with a Ramsey planner making decisions on taxes, transfers, and minimum

wage levels. Workers are assumed to differ only in their productivity.

The authors find that optimal redistribution may imply the use of only

taxes and transfers, only a minimum wage, or the proper combination of

both policies. The key factor driving their results is the reaction of

the demand for low-skilled labor to the minimum wage law. Hence, an

optimal minimum wage appears to be most likely when low-skilled

households are scarce, the complementarity between the two types of

workers is large, or the difference in productivity is small.

 

Interessante l'analogia, no? Non ho letto con attenzione il paper di Saez&Lee (che trovate qui) ma son curioso di farlo per vedere dove stanno le novità. Sai com'è, ho dato un'occhiata di corsa e Gorostiaga&Rubio-Ramirez ci sono in bibliografia ma non sono proprio menzionati nel testo ... Spero che la cena con Faruk non porti con sé troppo vino rosso ...

Un rapido esame delle conclusioni e dell'introduzione suggeriscono che il punto di L&S dipende dall'uso di "efficient rationing", che in italiano corrente si traduce in "disoccupazione efficiente". Ossia: quelli che non sanno fare molto, paghiamoli un po' più di quanto sanno produrre, ma facciamoli lavorare poco. Se riteniamo che redistribuire reddito PER SE sia una buona cosa (indipendentemente da efficienza economica ed incentivi a darsi da fare per lavorare e diventare produttivi) questo metodo (della disoccupazione efficiente accompagnata dal salario minimo più alto di quello di mercato) è teoricamente utile. Nota, teoricamente. Nessuna base empirica, solo un'affermazione teorica.

Qui veniamo all'ultimo punto, poi passo e chiudo sino a dopo lettura del paper. Gli argomenti teorici, teorici sono. Una volta ero bravo a farli, e mi divertivo a provare, teoricamente, che cose stranissime erano possibili (per i curiosi, qui trovate parecchi esempi) se certe particolari ipotesi erano soddisfatte. Il trucco sta nella rilevanza empirica delle ipotesi e, in particolare, delle loro implicazioni ai valori dei parametri che hanno qualcosa a che fare con il pianeta Terra su cui viviamo. Finché non si passa questo fondamentale test, le teorie in cui tutto è possibile vanno trattate con molti grani di sale ...

Quindi, se qualcuno ha evidenza empirica da portare, la porti. Ma l'argomento ipotetico che dice "SE mi interessa fondamentalmente la redistribuzione E SE non mi interessa ridurre l'occupazione E SE non mi interessa ridurre il PIL, ALLORA i salari minimi sono una buona cosa", beh, capisci, io su quell'argomento ipotetico starei molto attento a scriverci delle leggi che poi occorre applicare a gente concreta in un mondo concreto, in questo caso l'Italia del 2008.

 

 

scusate ma a me non è chiaro qual'è l'obiettivo di questo cosiddetto salario minimo:

rilanciare la domanda interna (keynes,modestamente me ne intendo)?

residtribuire il reddito da ricchi a poveri (robin hood)?

misura sociale a prescindere?

se è quello di rilanciare la domanda ripongo la questione che non ho sviluppato l'altra volta. Secondo me non si tiene conto della variabile mercato comune, ovvero unione europea. In un mercato nazionale protetto l'aumento della domanda dovrebbe riverberarsi sui prodotti delle aziende di tale mercato. In un mercato UE libero e, con l'euro, più trasparente, ciò non è detto. Faccio un esempio dalla mia vita privata (sono un economista empirico). 4 anni fa volevo prenotare una vacanza in un villaggio italiano. L'agenzia mi sparò un preventivo di € 5000,00. Quando dissi all'impiegata che stavo per aprire un procedimento per estorsione nei suoi confronti lei mi disse che "L'Italia è cara", così mi feci dare un catalogo per la Grecia dove trovai un villaggio con maggiori servizi ad un prezzo di € 4000,00. Indovinate dove sono andato. Partendo dal presupposto che i greci non siano filantropi e gli italiani non siano ladri (facciamo finta), evidentemente il villaggio italiano ha costi troppo alti, ed allora, a rigor di logica, dovrò agire sulla competitività di quel villaggio, facendo in modo che i suoi costi calino, o no? Se io guardo alla struttura dei miei consumi, sinceramente, io, a parte gli spaghetti ed i servizi, non so più che cosa compero di italiano. Ora, il mio è un reddito medio alto ed i miei consumi medio alti. Potrebbe darsi che se aumento il salario minimo, esso si orienterà comunque su beni di produzione italiana (bene primario spaghetti, e non vacanze nel villaggio estero, appunto). Non esistono studi di questo tipo, per sapere dove andrebbero a finire questi soldi? Se sì, che cosa dicono? Non sarebbe meglio fare in modo che calino i costi di quelle imprese e trovare altri meccanismi per fare in modo che certi lavoratori dipendenti (quelli con famiglia soprattutto) riescano a sbarcare il lunario? Qualcuno potrebbe spiegarlo ad Epifani, così si sta zitto e non mi fa girare... scusate, provocare in me l'orticaria?

Queste mie tesi hanno, tuttavia, un grande difetto: che voi potreste dire che sono tesi di un liberista che si crede un keynesiano ed allora J.M. si rivolterebbe nella tomba ed il mio professore mi darebbe un 4 retroattivo, per cui mi rimangio tutto e vi chiedo se non conoscete un buon psicanalista....  

 

 

 

Lascia stare lo psicanalista, ... e anche il tuo vecchio professore (direi anche lascia stare JM che non ha mai capito nulla, ma non lo dico che poi ti offendi); invece parla con Veltroni se ti da udienza (prova a minacciare un procedimento di estorsione anche contro di lui, .. magari funziona)  che ne avrebbe bisogno: l'Italia e' cara, perche' ci sono rendite di potere di mercato ovunque, perche' il mecato del lavoro e' inflessibile, e perche' le tasse sono fuori controllo.  Il salario minimo, se anche prendessimo le  stime piu' favorevoli, va nella direzione opposta alla soluzione dei problemi.

 

Non capisco dove tutto questo si applica al caso Italiano. In Italia i lavoratori che hanno un contratto nazionale il salario minimo ce l'hanno gia', cosi' come hanno la "protezione" sindacale dei loro diritti. Quindi stan bene cosi'. C'e' poi una categoria che e' quella dei cosiddetti precari che non ha ne' l'uno ne' l'altra e si trova effettivamente in condizioni di contrattazione singola sfavorevole. Un cocopro, ad esempio, e' pagato a progetto in teoria ma lavore ad ore in pratica; probabilmente sulla carta il loro salario orario e' anche buono e non ha certo bisogno di ritocchi. 

Ho sentito di tanti amici che son finiti a fare contratti a progetto: la legge prevede che tu non possa assumere la stessa persona con due o piu' contratti precari di fila. In teoria dovrebbe essere un incentivo a usare il cococo come contratto di prova per poi passare a qualcosa di piu' conveniente. Di fatto quello che succede e' che tutti vengono costretti a lavorare in nero (e spesso non pagati) per un mese dopo la fine del contratto; in questo modo passati i 30 giorni minimi possono essere riassunti cococo e tutto ricomincia. E cosi' nei secoli dei secoli.

Io la vedo cosi': in Italia e' difficile premiare o licenziare un

lavoratore dipendendente perche' il lavoratore ha troppe cautele che

immobilizzano la sua posizione; alla lunga questa diventa una

situazione sfavorevole per il datore di lavoro. Per ovviare a questa

situazione arriva la legge biagi che non tocca il rapporto gia'

esistente ma ne introduce un altro che sbilanciato dall'altra

parte. Cosi' ora abbiamo una categoria di gente che vaga in un limbo

che non ha ne' protezione sindacale ne' salario minimo orario. 

E diciamoci la verita': se ci sono tanti lavori da call center la colpa non e' della legge biagi ma del fatto che l'economia quello offe. Tanto che sarebbe anche opportuno che qualcuno spiegasse ai giovani che se quello che piu' sta loro a cuore e' la stabilita' allora anche a parita' di contratto e' piu' conveniente per un ragazzo prendere un posto da operaio che non al call center perche' le necessita di un personale di call center sono molto piu' volatili.

 

Siamo d'accordo - infatti qui abbiamo parlato di quello che si potrebbe fare in Italia per migliorare il funzionamento del mercato del lavoro.

Lo scopo della mia rassegna era molto piu' modesto, ovvero commentare sullo stato della ricerca empirica a proposito di salari minimi. Dire che il salario minimo non ha effetti avversi mi sembra francamente troppo ottimista.

Fra l'altro, un recente lavoro di Neumark e Nizalova, riportato qui (cercate il Discussion Paper no. 1428), suggerisce che gli effetti avversi del salario minimo persistano anche nel lungo periodo: in altre parole, essere esposti, da giovani, ad un salario minimo relativamente alto non solo riduce ore lavorate e occupazione al momento, ma induce una riduzione dei guadagni da lavoro anche successivamente, nell'arco della propria esperienza lavorativa. L'ipotesi avanzata da Neumark e Nizalova e' che gli effetti immediati si traducono in una minore accumulazione di esperienza lavorativa e di abilita' specifiche per il mercato del lavoro.

Per quanto riguarda il mercato del lavoro segmentato in Italia, direi che la situazione dei precari e' la piu' vicina a quella dei giovani cui si rifersice la maggior parte degli studi citati qui sopra. 

 

Grazie della bella review Giorgio. Rileggendo la proposta Boeri mi sembra che un fine primario della proposta (quasi piu' rilevante della sua finalita' redistributiva) sia (fosse?) quello di agevolare la differenziazione salariale, e in particolare correggere la "pratica giurisprudenziale di considerare come riferimento nella determinazione del "salario equo" in caso di contenzioso proprio il salario più basso stabilito dalla contrattazione collettiva del settore" (riporto da un vecchio articolo su laVoce). In questo senso Boeri proponeva di fissare un salario minimo estremamente basso, basato sui salari nel Mezzogiorno. Letto cosi' mi sembra un effetto che potenzialmente andrebbe nella direzione di favorire l'occupazione, ma vedo che non lo citi nella tua review quindi ho l'impressione che non lo consideri (considerate) un effetto di first order.

Apro un altro fronte: ho un feeling positivo circa la proposta Boeri-Guiso di "detassare parzialmente o totalmente i guadagni di produttività futuri (misurati in termini di crescita del valore aggiunto, al netto dell’inflazione) per un periodo di tempo prestabilito e significativo, noto in anticipo, ad esempio i prossimi cinque-otto anni". Avete opinioni?   

 

Io sono molto dubbioso su una proposta simile ma vorrei capire meglio i dettagli prima di dire alcunché. La mia preoccupazione principale è che non mi pare così semplice separare le componenti di reddito che derivano da "guadagni di produttività". Se stiamo parlando di qualunque aumento dei redditi, sia da lavoro sia da capitale, allora la proposta è equivalente a una tax schedule regressiva e contingente ai redditi passati. Per intenderci, prendiamo due lavoratori, uno che guadagna 100 nel 2008 e uno che guadagna 80. Ipotizziamo zero inflazione, quindi tutti gli aumenti sono in termini reali e dovuti, presumibilmente, a guadagni di produttività. Supponiamo che il salario aumenti del 10% ciascuno nel 2009, così i due lavoratori guadagnano 110 e 88 rispettivamente. Se la proposta dice di non tassare i guadagni di produttività del 2009 allora il primo lavoratore paga le tasse normalmente fino a 100 e zero sul reddito tra 100 e 110, mentre il secondo paga le tasse fino a 80 e zero tra 80 e 88. Quindi , se ho interpretato correttamente la proposta, si ottiene tassazione regressiva e differenziata a seconda del salario storico. Non sono sicuro che una cosa del genere (la differenziazione della tax schedule ad personam) sia costituzionale. Abbassare le aliquote marginali sui redditi alti può essere magari una buona idea, non lo so, ma allora è meglio chiamare le cose con il proprio nome, evitando fancy names come "detassazione dei guadagni di produttività".

Ci sono anche altre difficoltà di carattere pratico. Cosa mi succede se nel 2008 cambio lavoro e ottengo un salario più alto? Se detassiamo l'incremento allora rischiamo di favorire mobilità inefficiente, se non lo detassiamo allora rischiamo di bloccare mobilità efficiente. Cosa succede se gli "incrementi di produttività" sono dovuti esclusivamente a cambiamenti esogeni dei prezzi relativi? In tal caso non forniamo alcun incentivo al miglioramento dell'efficienza.

Insomma, a me pare che la proposta sia complicata assai da attuare praticamente e gli effetti dubbi. Aspetto però di conoscere i dettagli, può essere che abbia capito male. Ma cosa ci sarebbe di male a ridurre semplicemente le aliquote dell'imposta sul reddito per tutti quanti?  Abbiamo veramente bisogno di altri schemi arzigogolati e barocchi?

 

che ne pensate? E' così folle proporre di implementare una politica in modo da poterne valutare l'efficacia? A mio parere l'evidenza attuale non è sufficiente, primo non ci dice molto sull'italia e secondo mi risulta difficile ignorare paper scritti da card-krueger-katz, mi sembra chiaro che i loro risultati suggeriscono che non si può generalizzare come fa giorgio alla fine del suo articolo. Forse mi faccio troppo suggestionare dalla moda attuale però mi sembrerebbe più saggio suggerire a un politico di implentare la sua idea in modo intelligente piuttosto che prendere una posizione netta basata su un'evidenza empirica corposa ma allo stesso tempo di discutibile applicazione alla realtà italiana.

 

ma scusa come fai a fare un randomized experiment? scegli random le imprese a cui il salario minimo si applica? mica si puo' fare, questo non e' un programma di welfare, e' un vincolo che imponi alla libera contrattazione tra le parti.

 

Forse non si puo' generalizzare, ma la mia lettura della letteratura e' che il peso dell'evidenza empirica stia dalla parte dell'esistenza di effetti avversi, su ore lavorate, occupazione e disoccupazione.

Per quanto riguarda Card-Krueger-Katz, non voglio entrare nel merito di un dibattito che fra economisti del lavoro e' stato (ed e' tuttora) molto acceso. Noto solo che e' lecito avanzare dei dubbi sulla robustezza e valenza generale dei loro risultati. Ad esempio, lo studio di Burkhauser, Couch & Wittenburg 2000 citato nella mia rassegna spiega che l'effetto identificato da Card e compagnia si fonda sulla variazione dei salari minimi statali rispetto a quelli federali. Questa variazione nei dati e' piuttosto scarsa, di qui la mia scarsa fiducia nella robustezza di questo genere di risultati.

 

 

Ho appena scritto una dettagliata critica su CK, ma l'ho persa per i soliti casini di internet. Amen (inteso nel senso italico, ahime'!)

Comunque, riassumo: l'evidenza empirica apportata da CK e' davvero poco credibile. Basta rileggere con attenzione il loro lavoro sui ristoranti del NJ e della Pennsylvania per rendersene conto. Brevemente:

1) L"esperienza di 400 ristoranti fast-food (un case-study) non e' assolutamente generalizzabile, e difatti e' confutata da tutti gli studi che usano campioni nazionali rappresentativi.

2) Lo studio in questione, sui fast-food del NJ, e' fatto male perche' confronta l'occupazione prima e dopo l'aumento del salario minimo in una finestra temporale troppo ristretta: pochi mesi intorno all'aprile del 1992, data dell'entrata in vigore del nuovo livello del salario minimo. Ma l'aumento era gia' stato decretato ai primi del 1990, in modo pubblico, per cui le imprese avevano avuto tutto il tempo di reagire. Infatti, se si allarga la finestra temporale fino ad includere la data in cui il provvedimento era stato approvato, si ottiene un effetto sull'occupazione negativo.

3) E' perfettamente possibile che l'aumento del salario minimo abbia reso i ristoranti fast-food piu' competitivi rispetto ad altri ristoranti "low-cost" che operavano sotto i nuovi livelli salariali. Di nuovo, l'esperienza dei fast-food non e' generalizzabile all'intera economia.

Queste ed altre argomentazioni sono anche raccolte nel lavoro di Deere Murphy e Welch citato nel testo del post. 

 

Mi inserisco nel dibattito propenendovi questo OECD working paper di Bassanini-Duval usato come base di lavoro per il re-assesment della job strategy proposta ai member countries nel 2006. Oltre ad analizzare il ruolo di diverse istituzioni (employment protection legislation, tax wedge, unemployment benefits, corporatism) e all'interazione fra di esse sul tasso di disoccupazione (macro panel data per tutti i paesi membri), si occupa anche di minimum wages. Lo cito perché nella review non mi è parso di vedere alcun lavoro cross-country, mentre questo lo è. Ebbene secondo loro il minimum wage non ha alcun effetto significativo sul tasso di disoccupazione, ma risulta invece altamente deleterio in interazione con un alto tax wedge sui salari (guarda un pò proprio il caso dell'Italia). Precauzioni: usano come definizione di mimimum wage lo statutory minimum wages (fissati per legge) mentre è ben noto che in molti paesi OCSE i minimum effettivi sono fissati tramite collective bargaining. Anche questo aspetto (non citato da Tito Boeri) gioca a sfavore di salari minimi fissati per legge: e se poi risultassero di fatto non binding perché inferiori a quelli contrattati fra sindacati? Più ancora: fissare un mimino uguale across occupations? O diverso per ogni occupation (con costi informativi e probelmi connessi)? Insomma dove la si rigiri mi pare che la proposta abbia più contro che pro.

 

Ciao Giorgio,

vi leggo spesso ma mi ero ripromesso di non scrivere più; ieri però ho visto Fassino da Porta a Porta (Aimè sono incappato su quello schifo) e letto il tuo articolo sullo stesso argomento (i famosi 1000 euro garantiti ai precari...) e allora non resisto.

Vi scrivo dalla mia esperienza di risorse umane, non da evidenze empiriche che comunque rimangono staccate dalla realtà "vermanete empirica".

Ci sono argomenti sui quali legiferare per risolvere tali problemi sembra sia controproducente. Gli esempio sono tanti (prostituzione, divieto di licenziamento, locazioni...) e mi sembra che anche in questo caso ci rientriamo. Ricordate la legge sull'equo canone? Che risultati ha ottenuto? Nonostante l'intento fosse buono ha distrutto un mercato. Credo che succederà lo stesso con il salario minimo garantito. Magari, aumenterà solo il lavoro nero.

Inoltre anche l'intento mi sembra più propagandistico che meritevole di tutela.

La ns costituzione sancisce che tutti hanno diritto ha una retribuzione dignitosa. La giusrisprudenza ha inteso applicare questo principio stabilendo che in caso di ricorso di un lavoratore per "paga non dignitosa" si debba verificare se siano rispettati i cotratti comparativamente più rappresentativi (cgil, cisl, uil). In caso di mancato rispetto si viene condannati al risarcimentod ei danni. Quindi? Quindi, esiste già un salario minimo garantito definito dalla contrattazione collettiva che probabilmente funziona meglio di una leggina propagandistica.

Allora invece di legiferare perchè non far funzionare i tribunali, il proceso del lavoro, e gli ispettorati. In pratica, perchè non rispettare le leggi già esistenti e mandare gli ispettori a verificare se veramente l'inquadramento dei lavoratori è fatto in maniera genuina?

Ciao

p.s. Vi chiedo di scrivere articoli più corti; guardate anche gli altri giornali on line: gi articoli sono in sintesi perchè non si può leegere troppo al pc.

Inoltre neanche a me è piaciuto il pessimo articolo del sole 24 ore, però forse, non è che il blog sia un po' "autoreferenzale"?

 

 

 

 

 

 

Non credo che l'obiettivo del contratto nazionale sia il perseguimento di una esistenza "libera e dignitosa". Penso che per avere una vita "dignitosa" (concetto peraltro assai vago), occorra un reddito diverso se si vive a Milano piuttosto che ad Enna. Se il contratto nazionale specifica salari da vita dignitosa a Milano, ad Enna si sta più che bene. 

Inoltre, anche se il costo della vita fosse geograficamente omogeneo, proprio come con il concetto di salario minimo, l'evidenza illustrata sopra suggerisce che misure del genere, se hanno efficacia, riducono l'occupazione, o non l'aumentano. Nel primo caso, non favoriscono certamente l'esistenza dignitosa di chi il lavoro non ce l'ha o lo perde a causa di esse. Va chiarito infatti che quando si discute del fatto che il salario minimo riduce la disuguaglianza, come viene fatto in qualche commento sopra, si intende la disuguaglianza fra quelli che lavorano, senza tener conto del salario zero di chi perde il posto.

 

 

 

 

Ma l'argomento ipotetico che dice "SE mi interessa fondamentalmente la redistribuzione E SE non mi interessa ridurre l'occupazione E SE non mi interessa ridurre il PIL, ALLORA i salari minimi sono una buona cosa", beh, capisci, io su quell'argomento ipotetico starei molto attento a scriverci delle leggi che poi occorre applicare a gente concreta in un mondo concreto, in questo caso l'Italia del 2008.

 

Pienamente d'accordo. Anche io ci starei molto attento. Tuttavia, data l'evidenza empirica sull'effetto di MW su occupazione (di cui Giorgio ci ha già spiegato tutto), il passaggio successivo è perché lo facciamo? se è per redistribuire, quel paper offre una base per riflettere (la cosa che mi sembrava interessante di quel paper era che il MW di fatto funge da strumento aggiuntivo per il policy maker allentando l'incentive constraint fronteggiato dal Governo - sebbene introducendo nuove e diverse fonti di distorsione).

L'altro paper che citi tu, non lo conoscevo (ma perché non lo pubblicano? mi sembra buono, no?). effettivamente sembra molto simile. l'ho letto velocemente e onestamente non saprei dire su due piedi se Saez e Lee abbiamo significantly improved. a prima vista mi sembra di capire che la sostanza in entrambi sia la stessa: MW può avere una giustificazione TEORICA sotto certe condizioni/valori dei parametri strutturali. insomma può servire a fare redistribuzione nello spirito di Mirrleess e Diamond. è questo che ha in mente WV? Non credo proprio! e mi pare neanche Boeri.

 

Ho trovato due lavori di Laroque e Salanie che considerano l'esperienza francese. Entrambi gli studi usano dati su donne sposate in Francia dai 25 ai 49 anni di eta', nel 1997. Il salario minimo in Francia all'epoca era di circa $5 all'ora (simile ai livelli americani).

Il primo, che si puo' trovare qui, analizza un modello di contrattazione collettiva in presenza di salario minimo. Gli effetti del salario minimo sono i soliti: l'occupazione decresce mentre i salari aumentano. Ma dalle simulazioni basate sulle stime del modello, risulta che il benessere massimo dei lavoratori sarebbe raggiunto ad un livello di salario minimo molto inferiore (di circa un terzo) a quello vigente in Francia nel 97.

Il secondo, pubblicato sul Journal of Applied Econometrics 2002, trova che circa il 15% della non-occupazione femminile in Francia e' spiegato dalla presenza del salario minimo. Questo lavoro e' degno di nota perche' incorpora esplicitamente e in modo abbastanza dettagliato tutto il sistema di tassazione del reddito da lavoro, contributi sociali, e - attenzione - reddito minimo familiare (una sorta di Negative Income Tax) vigenti in Francia.

Mi sembrano dati che si commentano da soli.

 

 

C'è un argomento contro il salario minimo che non si prende spesso in considerazione. Il livello del minimum wage viene quasi sempre fissato a livello nazionale, senza tener conto del fatto che il costo della vita varia da una regione all'altra. Il risultato quindi è di aumentare la disoccupazione nelle zone in cui la vita è meno cara, che in genere sono anche le più povere.

Un esempio: qui a Londra il minimum wage è come se non ci fosse, perché il costo della vita è così alto che anche i lavori più umili spesso pagano di più. Nella zona in cui abitavo prima (contea di Durham) potevi affittare un appartamento e vivere comodamente col minimum wage, a Londra al massimo ci affitti una stanza con molta difficoltà.

 

Come dice giustamente

Michele, il modo migliore di effettuare redistribuzione è attraverso la

negative income tax, implementata negli Stati Uniti sotto forma di

Earned Income Tax Credit (EITC).

 

La beneficenza è ancora meglio :-)

 

Giusta osservazione, grazie (quella sulla variazione regionale in costo della vita). In realta', ad essere precisi, non e' la variazione del costo della vita che importa, quanto quella dei salari di equilibrio in ciascun mercato locale. Ovvero, il salario che si viene a stabilire per il gioco di domanda e offerta in quel mercato, con quel mix di imprese e quella produttivita' marginale del lavoro. (Ma dire questo vuol dire andare contro il Verbo che santifica la contrattazione nazionale, e quindi non si puo' dire perche' puzza troppo di flessibilita').

Il costo della vita invece riflette tante cose, fra cui il valore delle "amenities" di cui uno gode in posti diversi. In altri termini, a Londra il costo della vita e' piu' alto che a Durham perche' a Londra ci sono i teatri, i cinema, i clubs, la musica, eccetera. E la gente e' disposta a pagare di piu' per godersi queste cose.

In economia urbana queste cose sono note. C'e' un bellissimo articolo di Jennifer Roback, ad esempio, "Wages, Rents and the Quality of Life", Journal of political Economy 1982 che spiega tutto per bene.

L'altra osservazione, sulla beneficenza, in realta' e' molto azzeccata. E' da tempo che vorrei scrivere un post su beneficenza pubblica vs. privata. Vedremo.