'<h' . (('2') + 1) . '>'Come agirebbe il mercato '</h' . (('2') + 1) . '>'
L’idea alla base di questa soluzione (si veda ad esempio questo articolo) è che una volta abolito il valore legale dei titoli di studio, la qualità degli studi e la loro spendibilità nel mercato motiverebbero le scelte degli studenti, i quali farebbero la fila per iscriversi alle migliori università, che sarebbero così premiate da una maggiore affluenza di studenti paganti. La competizione per aumentare gli studenti, e per attrarre gli studenti migliori, porterebbe tutto il sistema universitario a migliorare la propria offerta didattica, rendendola più vicina alle esigenze del mercato del lavoro. Il mercato, rappresentato dalla domanda di istruzione degli studenti, sarebbe anche in grado di stimolare un miglioramento del livello della ricerca, costringendo le università a scegliere i più meritevoli tra gli aspiranti ad una posizione di docente.
Il modello di riferimento per questa ricetta sarebbe il sistema universitario americano. Lasciamo da parte, per il momento, l’ipotesi di “abolire il valore legale dei titoli di studio”, sulla quale si sono già espressi su questo sito Andrea Moro ed i commenti che il suo articolo ha suscitato. Cerchiamo invece di capire quali effetti si avrebbero se l’istruzione universitaria fosse pagata per intero dagli studenti e le loro famiglie e non dai contribuenti.
'<h' . (('2') + 1) . '>'Il paradigma americano
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Osserviamo intanto che il paradigma americano non si applica perfettamente all’ipotesi di università finanziate attraverso i contributi degli studenti.In tutte le grandi università di stato americane, i cittadini residenti possono ottenere un’ottima istruzione universitaria ad una frazione del suo costo.
Un esempio è l’Università di California a Berkeley, che è finanziata solo per il 13% dai contributi degli studenti. Questo dato proviene da uno studio del sistema universitario americano, a confronto con quello italiano, molto serio ed accurato, anche se un po’ datato, ad opera diLorenzo Marrucci. In questo saggio Marrucci stima che le tasse universitarie rappresentino complessivamente il 28% delle entrate delle università americane (il 19 % di quelle pubbliche ed il 44% delle private.)
In effetti non esiste un paese in cui i costi dell’istruzione universitaria siano pagati solo dagli studenti e non dai contribuenti. Negli Stati Uniti ci sono anche istituzioni universitarie “for profit”, che raccolgono, però, solo il 5,8% del totale degli studenti [US Census Bureau The 2008 Statistical Abstract, Higher Education, table 271]. La stragrande maggioranza delle istituzioni universitarie sono “not for profit”, e tuttavia non mancano di competere tra loro in diversi ambiti: il reclutamento degli studenti “undegraduate” e delle “professional school”, il reclutamento degli studenti “graduate”, il reclutamento dei docenti, oltre alla competizione per i finanziamenti pubblici e privati. Ma solo la competizione per il reclutamento degli “undergraduate” ed in misura minore degli studenti delle “professional schools” è una competizione che ha conseguenze dirette sulle entrate, sotto forma di contributi degli studenti e di future donazioni degli ex alunni.
Inoltre il “campionato” entro il quale si svolge la competizione per gli studenti “undegraduate” è diverso da quello che riguarda il reclutamento dei “graduate students”. Ad esempio Amherst College, Darmouth College e Williams College competono per il reclutamento degli “undegraduates” con Harvard, Princeton, Yale e Stanford [Si veda ad esempio per la competizione nel reclutamento degli “undergraduates” il saggio di J. Karabel, “The Chosen”, Houghton Mifflin Company, New York, 2005]. Le prime tre istituzioni non possono nemmeno essere paragonate alle ultime quattro in termini di qualità e quantità della ricerca scientifica che vi si svolge. D’altra parte Harvard, Princeton, Yale e Stanford competono per il reclutamento dei migliori “graduate students” e dei docenti più produttivi nella ricerca con Berkeley e UCLA, cui possono essere paragonate sulla base della quantità e qualità della ricerca scientifica che vi si svolge. Quest’ultime istituzioni hanno criteri di ammissione degli “undegraduates” che, in generale, le collocano fuori dal “mercato” delle ammissioni nel quale operano, assieme alle grandi università private (Harvard, Princeton, Yale e Stanford), anche i migliori “Liberal Arts Colleges” (Amherst, Darmouth, Williams, e forse anche i Claremont Colleges in California).
Sono proprio i Liberal Arts Colleges, a fornire un esempio di un gruppo di istituzioni, in concorrenza tra loro, sul mercato della domanda di istruzione, impegnate a convincere gli studenti e le loro famiglie della superiorità della loro offerta di istruzione superiore, e dipendenti, in larga misura, dalle tasse universitarie e dalle donazioni degli ex alunni. In altri interventi, più polemici, ho sostenuto che i Liberal Arts Colleges vendono, a prezzi molto alti, la frequentazione di altri studenti ricchi, piuttosto che un’istruzione universitaria migliore di quella offerta dalle università pubbliche. Ma non è proprio così. La grande differenza di costo, per lo studente residente in California, tra la frequenza di Pomona College (il più noto college di Claremont) e Berkeleytrova probabilmente una parziale spiegazione nel fatto che a Pomona College si frequentano studenti che con maggiore probabilità entreranno a far parte della classe dirigente economica e politica del paese. Ma è anche vero che i “Liberal Arts Colleges”, per tradizione e per interesse diretto, curano la didattica universitaria ed il singolo studente molto di più di quanto non si faccia nelle università statali. Per quanto sia difficile spiegare compiutamente il valore dell’istruzione impartita nei Liberal Arts Colleges, l’esistenza e floridezza economica di queste istituzioni, fondata in gran parte sui contributi degli studenti e le donazioni degli ex studenti, suggerisce che per avere successo nel mercato dell’istruzione non è necessario, e nemmeno forse utile, essere una sede importante per la ricerca scientifica.
D’altra parte, usando il semplice buon senso, sarebbe difficile sostenere che l’insegnamento di “Calculus” o “Physics 1A” impartito da un eccellente insegnante, che non fa più ricerca scientifica da quando ha conseguito il dottorato, sia veramente di minor valore per lo studente medio, dell’insegnamento di queste stesse discipline impartito da un “Fields medalist” o un Premio Nobel per la Fisica, impegnati in ricerche di grande importanza scientifica. In prima approssimazione, la famiglia che investe i suoi soldi per consentire ad un figlio di studiare a Pomona College, anziché a Berkeley, dove spenderebbe per una frazione di quanto si spende a Pomona, non agisce irrazionalmente, e non solo perché a Pomona il figlio frequenterà altri figli di ricchi, ma anche, e soprattutto, perché potrà contare su un corpo docente, magari non più molto attivo nella ricerca, ma ben più attento alle esigenze degli studenti.
Ben diversa è invece la competizione per il reclutamento dei “graduate student”. Si deve osservare che nel caso di “graduate student” di materie scientifiche o di ingegneria, interessati ad un programma di dottorato, non solo non è previsto un contributo degli studenti, ma l’esenzione dalle tasse è accompagnata, in molti casi, da un finanziamento, o comunque un impiego come “teaching assistant” o “research assistant”, che copre le spese di vitto e alloggio per frequentare gli studi universitari. In questo caso le “graduate schools” competono duramente per il reclutamento dei migliori allievi, i quali sono molto bene informati, e direttamente interessati al livello della ricerca scientifica che si svolge nelle sedi per le quali fanno domanda.
Le informazioni provengono in generale dagli stessi docenti della sede in cui si sono laureati e che scrivono per loro le “reference letters”, necessarie per l’ammissione. Mentre il genitore che paga per l’istruzione universitaria del figlio non sa nemmeno che cosa sia un “Fields medalist”, e non ha ragione di ritenere che un “Fields medalist” sia un migliore insegnante di “Calculus” per suo figlio, il professore di matematica che suggerisce al suo allievo dove fare domanda e lo consiglia sull’accettazione delle offerte, diquesta o quella “graduate school”, è aggiornato sulla fama e competenza dei matematici che si trovano nelle varie università. E’ ovvio che, in questo caso, Berkeley e UCLA si trovano a competere nello stesso campionato di Harvard, Princeton, Yale, e Stanford (ma anche Chicago, Columbia, MIT, ecc.).
Perfettamente analoga è la competizione delle università per il reclutamento dei migliori docenti. In altre parole il livello e la qualità della ricerca scientifica di una sede sono determinanti quando si compete per reclutare persone che vengono pagate (studenti del dottorato o docenti), mentre sembrano svolgere un ruolo secondario quando si reclutano studenti paganti. (Non sto tenendo conto qui del reclutamento degli studenti delle “professional schools” per le quali bisognerebbe svolgere un ragionamento a parte: si tratta di studenti paganti, ma, presumibilmente, più attenti delle matricole al livello scientifico della sede. Vorrei però osservare che le principali “professional schools” che sono Law e Medicine si riferiscono a professioni regolate, dove svolge un ruolo importante il “valore legale” dei titoli di studio.)
'<h' . (('2') + 1) . '>'Effetti possibili del "mercato" in Italia
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Torniamo ora alla questione che ci interessa. Cosa succederebbe in Italia se le università dipendessero per i loro finanziamenti esclusivamente dal “mercato” cioè dalla domanda di istruzione universitaria espressa dagli studenti e dalle loro famiglie? Sarebbe in grado questa domanda di spingere verso un miglioramento della ricerca scientifica? Sarebbe in grado di migliorare i criteri con i quali sono reclutati i docenti?
Naturalmente ogni risposta a queste domande ha carattere congetturale. Tuttavia dovremmo osservare che in un “mercato” che funziona come tale, alla spesa per l’istruzione universitaria da parte di una famiglia dovrebbe corrispondere un ricavo, almeno equivalente, in termini di prospettive di maggior guadagno. Ci sarà pure una minoranza di studenti pronti a considerare l’istruzione universitaria come un “consumo” per il quale si spende senza prospettive di guadagno. Per questi le spese per l’università sarebbero l’analogo delle spese per l’abbonamento al Teatro dell’Opera. Ma si tratterebbe di una minoranza. Se una laurea (triennale) costa 50.000 euro di tasse universitarie, oltre alle spese di mantenimento, o al mancato guadagno, la maggioranza degli studenti si aspetterà di ricavare una cifra superiore in futuri guadagni. Cercherà allora di intraprendere gli studi che si ritengono più remunerativi.
D’altra parte le università, mosse dall’esigenza di reclutare il maggior numero possibile di studenti (tutti paganti), cercherà di offrire il più possibile i corsi di studio che vengono ritenuti più premianti in termini di possibili futuri guadagni, e che costano meno in termini, ad esempio, di rapporto ragionevole docenti/studenti, spese per laboratori di ricerca, ecc. Questo già succede per le poche università non statali in Italia (che pure vivono in parte di finanziamenti statali). Nessuna di queste università, nemmeno quella direttamente dipendente dalla Confindustria, ha mai pensato di aprire corsi di studio in Fisica, in Matematica, in Chimica o Scienze dei Materiali, in Ingegneria Industriale, nonostante l’interesse di queste discipline per il sistema industriale del paese. I corsi di laurea in scienze ed ingegneria (con la possibile eccezione di ingegneria gestionale) sono, infatti, di limitata attrattiva per studenti paganti, e più costosi per l’università.
Sotto la spinta delle forze del “mercato”, è molto probabile che verrebbe accentuata la tendenza già in atto in tutto il sistema universitario occidentale ad abbandonare gli studi scientifici e tecnici. (Sul fenomeno del calo degli studenti nelle scienze ed ingegneria si veda, ad esempio, per la Gran Bretagna,la Roberts Review). Nessuno può credere che un laureato in Fisica, a parità di altre condizioni, possa guadagnare di più di un laureato in Economia Aziendale. Con qualche eccezione, gli studenti e le loro famiglie si orienterebbero per i corsi di studio meno costosi (ed anche molto più facili) e ritenuti più redditizi. Si moltiplicherebbero, come già avviene per i “master”, le facoltà ed i corsi di laurea che promettono, lauti guadagni, o che pretendono di formare operatori finanziari e “manager”.
Il costo della formazione di uno scienziato non è compensato dai suoi effettivi guadagni in nessun paese del mondo. In tutti i paesi il sostegno principale della ricerca scientifica nelle università e quindi il sostegno di un qualificato insegnamento scientifico proviene da fondi pubblici. Ancora più complesso è il problema della formazione degli insegnanti. In Italia la legge richiede che un insegnante abbia cinque anni di formazione universitaria, seguiti, per gli insegnanti della scuola secondaria, da due anni di specializzazione. Si tratta di una richiesta assurda. Mettiamo pure, però, che siano richiesti solo cinque anni, anche per gli insegnanti della scuola secondaria. Chi paga per questa formazione? L’insegnante con i suoi futuri guadagni? E chi paga per aumentare gli stipendi, a questo punto di tutti gli insegnanti, per far sì che la spesa sostenuta dagli studenti per l’istruzione universitaria sia compensata dai redditi futuri? Chi paga per la corsa agli aumenti stipendiali che si verificherebbe come conseguenza in tutto il pubblico impiego? Non converrebbe invece finanziare gli studi degli insegnanti e mantenere gli stipendi a livelli compatibili con le esigenze di contenimento delle spese?
Veniamo ora alla questione che forse sta più a cuore ai professori. Potrebbe il “mercato” influire positivamente sul reclutamento dei docenti? E’ ragionevole aspettarsi che la sede universitaria che recluta i migliori scienziati sia in grado per questo di attrarre maggiormente gli studenti? Certamente questo avviene negli Stati Uniti quando si parla di studenti del dottorato, che costituiscono un acquirente della didattica di alto livello molto bene informato. Ma è ragionevole aspettarsi che gli studenti dei corsi di laurea e le loro famiglie siano in grado di distinguere il livello scientifico, ad esempio, di due matematici, ambedue autori di articoli di difficile lettura, pubblicati su riviste “internazionali”, e scegliere di conseguenza la sede dove immatricolarsi per un corso di laurea in ingegneria? Facciamo un esempio concreto. E’ in grado un lettore di questo articolo che non sia un matematico di indicare una decina di nomi tra i 30 matematici italiani di maggior spicco? Presi due professori ordinari di algebra sarebbe in grado di stabilire chi è il più bravo? Io non sarei in grado di fare la stessa scelta per la Fisica, o per la Chimica, né saprei a chi rivolgermi per avere informazioni affidabili. Avrei qualche difficoltà anche a distinguere nel merito due professori di algebra, ma saprei come informarmi. E allora come si ritiene che un genitore mediamente meno informato del lettore di questo articolo possa (o voglia) indirizzare il proprio figlio a studiare ingegneria in una sede piuttosto che l’altra sulla base del fatto che in una delle sedi ci sono matematici veramente bravi, e nell’altra delle mezze calzette? Non sto parlando nemmeno del problema dei maggior costi legati a possibili spostamenti dalla sede di residenza ad una sede lontana, ritenuta migliore. Naturalmente, non avendo a disposizione casi concreti, non è possibile dimostrare che il mercato sarebbe inefficace nella determinazione delle scelte di reclutamento.
Tuttavia, negli Stati Uniti le scelte della domanda di istruzione, cioè, in qualche senso, del “mercato”, coincidono con le scelte in termini di “merito scientifico”, quando si tratta degli studi per il dottorato (almeno in ambito scientifico). In questo caso, cioè, gli studenti cercano di andare nelle istituzioni di miglior livello scientifico e le istituzioni cercano di attrarre gli studenti più promettenti, perché le scelte di una scuola di dottorato sonobene informate e consapevoli e perché dal livello della ricerca scientifica svolta in una sede dipende direttamente la capacità di offrire una buona formazione alla ricerca. Questa concorrenza tra le sedi non esiste, o esiste molto poco, in Italia, ma potrebbe facilmente essere introdotta, stabilendo che alcune, o molte, delle borse di dottorato, di importo adeguato, possano essere usufruite nella sede scelta dallo studente, e non siano quindi legate alla singola università. Non stiamo parlando in questo caso di “mercato”, ma di simulazione del mercato, attraverso un intervento dello Stato. E’ proprio su questo punto che vorrei insistere. Il sistema universitario italiano ha bisogno di maggiore concorrenza. La concorrenza può essere stimolata da interventi, anche modesti, di “simulazione” del mercato, e forse anche da interventi più ambiziosi e onnicomprensivi come quello che ha utilizzato, in Gran Bretagna, le valutazioni note come Research Assessment Exercises (RAE). Come è noto, in Gran Bretagna, il Governo, combinando poche modifiche normative con una decisa politica di discriminazione nei finanziamenti, ha introdotto un regime di forte concorrenza tra le diverse sedi universitarie, per il reclutamento di studiosi affermati di alto livello scientifico. Parlare, in Italia, di un controllo affidato ciecamente al mercato costituisce, a mio parere, un elemento di confusione, a scapito di provvedimenti che potrebbero introdurre una limitata concorrenza tra università diverse, o tra dipartimenti diversi. In attesa della soluzione miracolosa e definitiva, non vale la pena di predisporre strumenti ed incentivi per introdurre maggiore concorrenza. Il massimalismo anche in questo caso, è a scapito del riformismo.
'<h' . (('2') + 1) . '>'Ancora sul paradigma americano
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L’università americana è un importante modello da studiare e, in parte, da imitare. In effetti la struttura delle grandi scuole di dottorato americane, in ambito scientifico è stata imitata con maggiore o minore successo da tutti i paesi europei, negli ultimi 50 anni. Più difficile è un confronto con l’istruzione degli “undergraduates”, che è molto meno uniforme negli Stati Uniti, ma che certamente vale la pena di studiare. Poiché noi partiamo da un sistema di università pubbliche, sembra più ragionevole cercare di studiare ed eventualmente imitare i migliori sistemi di istruzione superiore pubblica che si trovano negli Stati Uniti.
Qualche insegnamento si puo' trarre dal sistema della California. La California ha una popolazione inferiore a quella italiana, ma l’università si rivolge ad una popolazione di paragonabile numerosità. Secondo la citata pubblicazione dello US Census Bureau i diplomati della scuola secondaria (high school) in California, nel 2005, erano 355.700, mentre secondo le cifre fornite dal Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario( http://www.cnvsu.it/_library/downloadfile.asp?id=11624 )in Italia, erano 446.584 i “maturi” del 2005 e 324.184 gli immatricolati nelle università italiane. La percentuale di “high school graduates” della California che proseguono gli studi è 68,6%, non molto diversa dalla analoga percentuale in Italia, che è 72,6% (sempre secondo i dati del CNVSU, tabella 1.2). In California, come in Italia, prevalgono le università pubbliche. In effetti le istituzioni pubbliche accolgono circa l’84% degli studenti iscritti a università della California [Table 273 della citata pubblicazione dello US Census Bureau], e probabilmente una percentuale più alta degli studenti la cui famiglia risiede in California (anche se istituzioni private di fama nazionale, come Stanford University, i Claremont Colleges, la University of Southern California, e la facoltà medica di Loma Linda, si trovano in California). Diversamente dall’Italia, il sistema statale della California è articolato in tre “fasce”, di cui la più elevata, quella dei “campus” della “University of California”, raggiunge i livelli più alti della ricerca scientifica mondiale. Ma l’interazione tra istituzioni appartenenti alle diverse fasce è un importante elemento del sistema. In particolare i Community Colleges, semigratuiti e molto distribuiti sul territorio, contribuiscono in modo significativo al reclutamento degli studenti delle istituzioni di fascia più elevata.
In conclusione, a me sembra più ragionevole, per un sistema statale come quello italiano, cercare di confrontarsi con il sistema di istruzione superiore della California, piuttosto che con tutto il complesso sistemadi istruzione superiore americano.
Anch'io, come Perotti, ho proposto di privatizzare l'universita' (qui
e qui). Il problema che ho con quest'articolo e' che c'e' un po' di confusione tra fornitura e finanziamento:
privatizzare le universita' non significa necessariamente far pagare gli studenti. In tutto il mondo le strade e i ponti sono costruiti da imprese private e pagati dal contribuente. Se il contribuente/elettore ritiene socialmente utile costruire una strada o un ponte o aumentare il numero di laureati in fisica, paga un'impresa che lo faccia, o da' borse di studio a chi vuole studiare fisica. Chi vuole studiare fisica poi sceglie dove andare (in Italia o all'estero). Idem con patate per la ricerca: se il contribuente ritiene utile studiare la composizione delle galassie, o le opere di Gioacchino da Fiore, paga (research grant) e qualcuno che fa queste cose si trova; se vuole che ci sia gente che fa ricerca senza particolari direzioni, da' un fonod alle universita' (private) che ne facciano quel che vogliono. Cosi' come da' fondi ad associazioni sportive/culturali/musicali, etc. Mica devono pagare gli studenti.
Fornitura e finanziamento dei servizi sono concettalmente separati e separabili, e tutte le possibili combinazioni di privato/pubblico esistono in pratica: privato/privato: quasi tutto; privato/pubblico: strade, etc; pubblico/privato RAI; pubblico/pubblico: scuole.
Un'altra cosa che l'articolo fa e' ipotizzare che i sistemi informativi non rispondano ai meccanismii istituzionali (il modello superfisso).
verissimo. Ma non occorre proprio che lo sappia. Cosi' come se vado in una citta' che non conosco non ho proprio bisogno di conoscere il cv degli chef dei vari ristoranti per scegliere il ristorante che preferisco: mi compro la guida michelin, o quella del gambero rosso (o tutt'e due), e mi baso sui loro consigli. Esattamente, tra l'altro, cio' che fanno gli studenti cinesi/malesiani/coreani/etc che vengono a studiare in UK. Mica consultano le pubblicazioni dei professori di Leicester e di quelli di Poppleton e poi scelgono, piu' semplicemente guardano le varie classifiche pubblicate da chi ha tempo e voglia (e un incentivo economico) a stilare tali classifiche, e si basano su quelle.
Immagino, però, che alla fine il giudice ultimo sia il palato.