Affidare l'università al mercato?

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Viene spesso proposto da editoriali pubblicati dai quotidiani italiani più influenti di "affidarsi al mercato" per risanare il sistema universitario italiano. Secondo questa proposta si dovrebbe abolire il valore legale dei titoli di studio, far pagare gli studi universitari agli studenti o alle loro famiglie (introducendo un sistema di prestiti per i più poveri), e lasciare alle singole università la piena autonomia nell'organizzazione dei corsi e nel reclutamento dei docenti.

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L’idea alla base di questa soluzione (si veda ad esempio questo articolo) è che una volta abolito il valore legale dei titoli di studio, la qualità degli studi e la loro spendibilità nel mercato motiverebbero le scelte degli studenti, i quali farebbero la fila per iscriversi alle migliori università, che sarebbero così premiate da una maggiore affluenza di studenti paganti. La competizione per aumentare gli studenti, e per attrarre gli studenti migliori, porterebbe tutto il sistema universitario a migliorare la propria offerta didattica, rendendola più vicina alle esigenze del mercato del lavoro. Il mercato, rappresentato dalla domanda di istruzione degli studenti, sarebbe anche in grado di stimolare un miglioramento del livello della ricerca, costringendo le università a scegliere i più meritevoli tra gli aspiranti ad una posizione di docente.

Il modello di riferimento per questa ricetta sarebbe il sistema universitario americano. Lasciamo da parte, per il momento, l’ipotesi di “abolire il valore legale dei titoli di studio”, sulla quale si sono già espressi su questo sito Andrea Moro ed i commenti che il suo articolo ha suscitato. Cerchiamo invece di capire quali effetti si avrebbero se l’istruzione universitaria fosse pagata per intero dagli studenti e le loro famiglie e non dai contribuenti.

'<h' . (('2') + 1) . '>'Il paradigma americano

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Osserviamo intanto che il paradigma americano non si applica perfettamente all’ipotesi di università finanziate attraverso i contributi degli studenti.In tutte le grandi università di stato americane, i cittadini residenti possono ottenere un’ottima istruzione universitaria ad una frazione del suo costo.

Un esempio è l’Università di California a Berkeley, che è finanziata solo per il 13% dai contributi degli studenti. Questo dato proviene da uno studio del sistema universitario americano, a confronto con quello italiano, molto serio ed accurato, anche se un po’ datato, ad opera diLorenzo Marrucci. In questo saggio Marrucci stima che le tasse universitarie rappresentino complessivamente il 28% delle entrate delle università americane (il 19 % di quelle pubbliche ed il 44% delle private.)

In effetti non esiste un paese in cui i costi dell’istruzione universitaria siano pagati solo dagli studenti e non dai contribuenti. Negli Stati Uniti ci sono anche istituzioni universitarie “for profit”, che raccolgono, però, solo il 5,8% del totale degli studenti [US Census Bureau The 2008 Statistical Abstract, Higher Education, table 271]. La stragrande maggioranza delle istituzioni universitarie sono “not for profit”, e tuttavia non mancano di competere tra loro in diversi ambiti: il reclutamento degli studenti “undegraduate” e delle “professional school”, il reclutamento degli studenti “graduate”, il reclutamento dei docenti, oltre alla competizione per i finanziamenti pubblici e privati. Ma solo la competizione per il reclutamento degli “undergraduate” ed in misura minore degli studenti delle “professional schools” è una competizione che ha conseguenze dirette sulle entrate, sotto forma di contributi degli studenti e di future donazioni degli ex alunni.

Inoltre il “campionato” entro il quale si svolge la competizione per gli studenti “undegraduate” è diverso da quello che riguarda il reclutamento dei “graduate students”. Ad esempio Amherst College, Darmouth College e Williams College competono per il reclutamento degli “undegraduates” con Harvard, Princeton, Yale e Stanford [Si veda ad esempio per la competizione nel reclutamento degli “undergraduates” il saggio di J. Karabel, “The Chosen”, Houghton Mifflin Company, New York, 2005]. Le prime tre istituzioni non possono nemmeno essere paragonate alle ultime quattro in termini di qualità e quantità della ricerca scientifica che vi si svolge. D’altra parte Harvard, Princeton, Yale e Stanford competono per il reclutamento dei migliori “graduate students” e dei docenti più produttivi nella ricerca con Berkeley e UCLA, cui possono essere paragonate sulla base della quantità e qualità della ricerca scientifica che vi si svolge. Quest’ultime istituzioni hanno criteri di ammissione degli “undegraduates” che, in generale, le collocano fuori dal “mercato” delle ammissioni nel quale operano, assieme alle grandi università private (Harvard, Princeton, Yale e Stanford), anche i migliori “Liberal Arts Colleges” (Amherst, Darmouth, Williams, e forse anche i Claremont Colleges in California).

Sono proprio i Liberal Arts Colleges, a fornire un esempio di un gruppo di istituzioni, in concorrenza tra loro, sul mercato della domanda di istruzione, impegnate a convincere gli studenti e le loro famiglie della superiorità della loro offerta di istruzione superiore, e dipendenti, in larga misura, dalle tasse universitarie e dalle donazioni degli ex alunni. In altri interventi, più polemici, ho sostenuto che i Liberal Arts Colleges vendono, a prezzi molto alti, la frequentazione di altri studenti ricchi, piuttosto che un’istruzione universitaria migliore di quella offerta dalle università pubbliche. Ma non è proprio così. La grande differenza di costo, per lo studente residente in California, tra la frequenza di Pomona College (il più noto college di Claremont) e Berkeleytrova probabilmente una parziale spiegazione nel fatto che a Pomona College si frequentano studenti che con maggiore probabilità entreranno a far parte della classe dirigente economica e politica del paese. Ma è anche vero che i “Liberal Arts Colleges”, per tradizione e per interesse diretto, curano la didattica universitaria ed il singolo studente molto di più di quanto non si faccia nelle università statali. Per quanto sia difficile spiegare compiutamente il valore dell’istruzione impartita nei Liberal Arts Colleges, l’esistenza e floridezza economica di queste istituzioni, fondata in gran parte sui contributi degli studenti e le donazioni degli ex studenti, suggerisce che per avere successo nel mercato dell’istruzione non è necessario, e nemmeno forse utile, essere una sede importante per la ricerca scientifica.

D’altra parte, usando il semplice buon senso, sarebbe difficile sostenere che l’insegnamento di “Calculus” o “Physics 1A” impartito da un eccellente insegnante, che non fa più ricerca scientifica da quando ha conseguito il dottorato, sia veramente di minor valore per lo studente medio, dell’insegnamento di queste stesse discipline impartito da un “Fields medalist” o un Premio Nobel per la Fisica, impegnati in ricerche di grande importanza scientifica. In prima approssimazione, la famiglia che investe i suoi soldi per consentire ad un figlio di studiare a Pomona College, anziché a Berkeley, dove spenderebbe per una frazione di quanto si spende a Pomona, non agisce irrazionalmente, e non solo perché a Pomona il figlio frequenterà altri figli di ricchi, ma anche, e soprattutto, perché potrà contare su un corpo docente, magari non più molto attivo nella ricerca, ma ben più attento alle esigenze degli studenti.

Ben diversa è invece la competizione per il reclutamento dei “graduate student”. Si deve osservare che nel caso di “graduate student” di materie scientifiche o di ingegneria, interessati ad un programma di dottorato, non solo non è previsto un contributo degli studenti, ma l’esenzione dalle tasse è accompagnata, in molti casi, da un finanziamento, o comunque un impiego come “teaching assistant” o “research assistant”, che copre le spese di vitto e alloggio per frequentare gli studi universitari. In questo caso le “graduate schools” competono duramente per il reclutamento dei migliori allievi, i quali sono molto bene informati, e direttamente interessati al livello della ricerca scientifica che si svolge nelle sedi per le quali fanno domanda.

Le informazioni provengono in generale dagli stessi docenti della sede in cui si sono laureati e che scrivono per loro le “reference letters”, necessarie per l’ammissione. Mentre il genitore che paga per l’istruzione universitaria del figlio non sa nemmeno che cosa sia un “Fields medalist”, e non ha ragione di ritenere che un “Fields medalist” sia un migliore insegnante di “Calculus” per suo figlio, il professore di matematica che suggerisce al suo allievo dove fare domanda e lo consiglia sull’accettazione delle offerte, diquesta o quella “graduate school”, è aggiornato sulla fama e competenza dei matematici che si trovano nelle varie università. E’ ovvio che, in questo caso, Berkeley e UCLA si trovano a competere nello stesso campionato di Harvard, Princeton, Yale, e Stanford (ma anche Chicago, Columbia, MIT, ecc.).

Perfettamente analoga è la competizione delle università per il reclutamento dei migliori docenti. In altre parole il livello e la qualità della ricerca scientifica di una sede sono determinanti quando si compete per reclutare persone che vengono pagate (studenti del dottorato o docenti), mentre sembrano svolgere un ruolo secondario quando si reclutano studenti paganti. (Non sto tenendo conto qui del reclutamento degli studenti delle “professional schools” per le quali bisognerebbe svolgere un ragionamento a parte: si tratta di studenti paganti, ma, presumibilmente, più attenti delle matricole al livello scientifico della sede. Vorrei però osservare che le principali “professional schools” che sono Law e Medicine si riferiscono a professioni regolate, dove svolge un ruolo importante il “valore legale” dei titoli di studio.)

'<h' . (('2') + 1) . '>'Effetti possibili del "mercato" in Italia

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Torniamo ora alla questione che ci interessa. Cosa succederebbe in Italia se le università dipendessero per i loro finanziamenti esclusivamente dal “mercato” cioè dalla domanda di istruzione universitaria espressa dagli studenti e dalle loro famiglie? Sarebbe in grado questa domanda di spingere verso un miglioramento della ricerca scientifica? Sarebbe in grado di migliorare i criteri con i quali sono reclutati i docenti?

Naturalmente ogni risposta a queste domande ha carattere congetturale. Tuttavia dovremmo osservare che in un “mercato” che funziona come tale, alla spesa per l’istruzione universitaria da parte di una famiglia dovrebbe corrispondere un ricavo, almeno equivalente, in termini di prospettive di maggior guadagno. Ci sarà pure una minoranza di studenti pronti a considerare l’istruzione universitaria come un “consumo” per il quale si spende senza prospettive di guadagno. Per questi le spese per l’università sarebbero l’analogo delle spese per l’abbonamento al Teatro dell’Opera. Ma si tratterebbe di una minoranza. Se una laurea (triennale) costa 50.000 euro di tasse universitarie, oltre alle spese di mantenimento, o al mancato guadagno, la maggioranza degli studenti si aspetterà di ricavare una cifra superiore in futuri guadagni. Cercherà allora di intraprendere gli studi che si ritengono più remunerativi.

D’altra parte le università, mosse dall’esigenza di reclutare il maggior numero possibile di studenti (tutti paganti), cercherà di offrire il più possibile i corsi di studio che vengono ritenuti più premianti in termini di possibili futuri guadagni, e che costano meno in termini, ad esempio, di rapporto ragionevole docenti/studenti, spese per laboratori di ricerca, ecc. Questo già succede per le poche università non statali in Italia (che pure vivono in parte di finanziamenti statali). Nessuna di queste università, nemmeno quella direttamente dipendente dalla Confindustria, ha mai pensato di aprire corsi di studio in Fisica, in Matematica, in Chimica o Scienze dei Materiali, in Ingegneria Industriale, nonostante l’interesse di queste discipline per il sistema industriale del paese. I corsi di laurea in scienze ed ingegneria (con la possibile eccezione di ingegneria gestionale) sono, infatti, di limitata attrattiva per studenti paganti, e più costosi per l’università.

Sotto la spinta delle forze del “mercato”, è molto probabile che verrebbe accentuata la tendenza già in atto in tutto il sistema universitario occidentale ad abbandonare gli studi scientifici e tecnici. (Sul fenomeno del calo degli studenti nelle scienze ed ingegneria si veda, ad esempio, per la Gran Bretagna,la Roberts Review). Nessuno può credere che un laureato in Fisica, a parità di altre condizioni, possa guadagnare di più di un laureato in Economia Aziendale. Con qualche eccezione, gli studenti e le loro famiglie si orienterebbero per i corsi di studio meno costosi (ed anche molto più facili) e ritenuti più redditizi. Si moltiplicherebbero, come già avviene per i “master”, le facoltà ed i corsi di laurea che promettono, lauti guadagni, o che pretendono di formare operatori finanziari e “manager”.

Il costo della formazione di uno scienziato non è compensato dai suoi effettivi guadagni in nessun paese del mondo. In tutti i paesi il sostegno principale della ricerca scientifica nelle università e quindi il sostegno di un qualificato insegnamento scientifico proviene da fondi pubblici. Ancora più complesso è il problema della formazione degli insegnanti. In Italia la legge richiede che un insegnante abbia cinque anni di formazione universitaria, seguiti, per gli insegnanti della scuola secondaria, da due anni di specializzazione. Si tratta di una richiesta assurda. Mettiamo pure, però, che siano richiesti solo cinque anni, anche per gli insegnanti della scuola secondaria. Chi paga per questa formazione? L’insegnante con i suoi futuri guadagni? E chi paga per aumentare gli stipendi, a questo punto di tutti gli insegnanti, per far sì che la spesa sostenuta dagli studenti per l’istruzione universitaria sia compensata dai redditi futuri? Chi paga per la corsa agli aumenti stipendiali che si verificherebbe come conseguenza in tutto il pubblico impiego? Non converrebbe invece finanziare gli studi degli insegnanti e mantenere gli stipendi a livelli compatibili con le esigenze di contenimento delle spese?

Veniamo ora alla questione che forse sta più a cuore ai professori. Potrebbe il “mercato” influire positivamente sul reclutamento dei docenti? E’ ragionevole aspettarsi che la sede universitaria che recluta i migliori scienziati sia in grado per questo di attrarre maggiormente gli studenti? Certamente questo avviene negli Stati Uniti quando si parla di studenti del dottorato, che costituiscono un acquirente della didattica di alto livello molto bene informato. Ma è ragionevole aspettarsi che gli studenti dei corsi di laurea e le loro famiglie siano in grado di distinguere il livello scientifico, ad esempio, di due matematici, ambedue autori di articoli di difficile lettura, pubblicati su riviste “internazionali”, e scegliere di conseguenza la sede dove immatricolarsi per un corso di laurea in ingegneria? Facciamo un esempio concreto. E’ in grado un lettore di questo articolo che non sia un matematico di indicare una decina di nomi tra i 30 matematici italiani di maggior spicco? Presi due professori ordinari di algebra sarebbe in grado di stabilire chi è il più bravo? Io non sarei in grado di fare la stessa scelta per la Fisica, o per la Chimica, né saprei a chi rivolgermi per avere informazioni affidabili. Avrei qualche difficoltà anche a distinguere nel merito due professori di algebra, ma saprei come informarmi. E allora come si ritiene che un genitore mediamente meno informato del lettore di questo articolo possa (o voglia) indirizzare il proprio figlio a studiare ingegneria in una sede piuttosto che l’altra sulla base del fatto che in una delle sedi ci sono matematici veramente bravi, e nell’altra delle mezze calzette? Non sto parlando nemmeno del problema dei maggior costi legati a possibili spostamenti dalla sede di residenza ad una sede lontana, ritenuta migliore. Naturalmente, non avendo a disposizione casi concreti, non è possibile dimostrare che il mercato sarebbe inefficace nella determinazione delle scelte di reclutamento.

Tuttavia, negli Stati Uniti le scelte della domanda di istruzione, cioè, in qualche senso, del “mercato”, coincidono con le scelte in termini di “merito scientifico”, quando si tratta degli studi per il dottorato (almeno in ambito scientifico). In questo caso, cioè, gli studenti cercano di andare nelle istituzioni di miglior livello scientifico e le istituzioni cercano di attrarre gli studenti più promettenti, perché le scelte di una scuola di dottorato sonobene informate e consapevoli e perché dal livello della ricerca scientifica svolta in una sede dipende direttamente la capacità di offrire una buona formazione alla ricerca. Questa concorrenza tra le sedi non esiste, o esiste molto poco, in Italia, ma potrebbe facilmente essere introdotta, stabilendo che alcune, o molte, delle borse di dottorato, di importo adeguato, possano essere usufruite nella sede scelta dallo studente, e non siano quindi legate alla singola università. Non stiamo parlando in questo caso di “mercato”, ma di simulazione del mercato, attraverso un intervento dello Stato. E’ proprio su questo punto che vorrei insistere. Il sistema universitario italiano ha bisogno di maggiore concorrenza. La concorrenza può essere stimolata da interventi, anche modesti, di “simulazione” del mercato, e forse anche da interventi più ambiziosi e onnicomprensivi come quello che ha utilizzato, in Gran Bretagna, le valutazioni note come Research Assessment Exercises (RAE). Come è noto, in Gran Bretagna, il Governo, combinando poche modifiche normative con una decisa politica di discriminazione nei finanziamenti, ha introdotto un regime di forte concorrenza tra le diverse sedi universitarie, per il reclutamento di studiosi affermati di alto livello scientifico. Parlare, in Italia, di un controllo affidato ciecamente al mercato costituisce, a mio parere, un elemento di confusione, a scapito di provvedimenti che potrebbero introdurre una limitata concorrenza tra università diverse, o tra dipartimenti diversi. In attesa della soluzione miracolosa e definitiva, non vale la pena di predisporre strumenti ed incentivi per introdurre maggiore concorrenza. Il massimalismo anche in questo caso, è a scapito del riformismo.

'<h' . (('2') + 1) . '>'Ancora sul paradigma americano

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L’università americana è un importante modello da studiare e, in parte, da imitare. In effetti la struttura delle grandi scuole di dottorato americane, in ambito scientifico è stata imitata con maggiore o minore successo da tutti i paesi europei, negli ultimi 50 anni. Più difficile è un confronto con l’istruzione degli “undergraduates”, che è molto meno uniforme negli Stati Uniti, ma che certamente vale la pena di studiare. Poiché noi partiamo da un sistema di università pubbliche, sembra più ragionevole cercare di studiare ed eventualmente imitare i migliori sistemi di istruzione superiore pubblica che si trovano negli Stati Uniti.

Qualche insegnamento si puo' trarre dal sistema della California. La California ha una popolazione inferiore a quella italiana, ma l’università si rivolge ad una popolazione di paragonabile numerosità. Secondo la citata pubblicazione dello US Census Bureau i diplomati della scuola secondaria (high school) in California, nel 2005, erano 355.700, mentre secondo le cifre fornite dal Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario( http://www.cnvsu.it/_library/downloadfile.asp?id=11624 )in Italia, erano 446.584 i “maturi” del 2005 e 324.184 gli immatricolati nelle università italiane. La percentuale di “high school graduates” della California che proseguono gli studi è 68,6%, non molto diversa dalla analoga percentuale in Italia, che è 72,6% (sempre secondo i dati del CNVSU, tabella 1.2). In California, come in Italia, prevalgono le università pubbliche. In effetti le istituzioni pubbliche accolgono circa l’84% degli studenti iscritti a università della California [Table 273 della citata pubblicazione dello US Census Bureau], e probabilmente una percentuale più alta degli studenti la cui famiglia risiede in California (anche se istituzioni private di fama nazionale, come Stanford University, i Claremont Colleges, la University of Southern California, e la facoltà medica di Loma Linda, si trovano in California). Diversamente dall’Italia, il sistema statale della California è articolato in tre “fasce”, di cui la più elevata, quella dei “campus” della “University of California”, raggiunge i livelli più alti della ricerca scientifica mondiale. Ma l’interazione tra istituzioni appartenenti alle diverse fasce è un importante elemento del sistema. In particolare i Community Colleges, semigratuiti e molto distribuiti sul territorio, contribuiscono in modo significativo al reclutamento degli studenti delle istituzioni di fascia più elevata.

In conclusione, a me sembra più ragionevole, per un sistema statale come quello italiano, cercare di confrontarsi con il sistema di istruzione superiore della California, piuttosto che con tutto il complesso sistemadi istruzione superiore americano.

 

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Commenti

Ci sono 163 commenti

Anch'io, come Perotti, ho proposto di privatizzare l'universita' (qui

e qui). Il problema che ho con quest'articolo e' che c'e' un po' di confusione tra fornitura e finanziamento:

 

Cerchiamo invece di capire quali effetti si avrebbero se l’istruzione universitaria fosse pagata per intero dagli studenti e le loro famiglie e non dai contribuenti

 

privatizzare le universita' non significa necessariamente far pagare gli studenti. In tutto il mondo le strade e i ponti sono costruiti da imprese private e pagati dal contribuente. Se il contribuente/elettore ritiene socialmente utile costruire una strada o un ponte o aumentare il numero di laureati in fisica, paga un'impresa che lo faccia, o da' borse di studio a chi vuole studiare fisica. Chi vuole studiare fisica poi sceglie dove andare (in Italia o all'estero). Idem con patate per la ricerca: se il contribuente ritiene utile studiare la composizione delle galassie, o le opere di Gioacchino da Fiore, paga (research grant) e qualcuno che fa queste cose si trova; se vuole che ci sia gente che fa ricerca senza particolari direzioni, da' un fonod alle universita' (private) che ne facciano quel che vogliono. Cosi' come da' fondi ad associazioni sportive/culturali/musicali, etc. Mica devono pagare gli studenti.

Fornitura e finanziamento dei servizi sono concettalmente separati e separabili, e tutte le possibili combinazioni di privato/pubblico esistono in pratica: privato/privato: quasi tutto; privato/pubblico: strade, etc; pubblico/privato RAI; pubblico/pubblico: scuole.

Un'altra cosa che l'articolo fa e' ipotizzare che i sistemi informativi non rispondano ai meccanismii istituzionali (il modello superfisso).

 

il genitore che paga per l’istruzione universitaria del figlio non sa nemmeno che cosa sia un “Fields medalist”

 

verissimo. Ma non occorre proprio che lo sappia. Cosi' come se vado in una citta' che non conosco non ho proprio bisogno di conoscere il cv degli chef dei vari ristoranti per scegliere il ristorante che preferisco: mi compro la guida michelin, o quella del gambero rosso (o tutt'e due), e mi baso sui loro consigli. Esattamente, tra l'altro, cio' che fanno gli studenti cinesi/malesiani/coreani/etc che vengono a studiare in UK. Mica consultano le pubblicazioni dei professori di Leicester e di quelli di Poppleton e poi scelgono, piu' semplicemente guardano le varie classifiche pubblicate da chi ha tempo e voglia (e un incentivo economico) a stilare tali classifiche, e si basano su quelle.

 

 

 

 

Cosi' come se vado in una citta' che non conosco non ho proprio bisogno di conoscere il cv degli chef dei vari ristoranti per scegliere il ristorante che preferisco: mi compro la guida michelin, o quella del gambero rosso (o tutt'e due), e mi baso sui loro consigli

 

Immagino, però, che alla fine il giudice ultimo sia il palato.

 

bellissimo articolo. idem il pdf anche se è un po datato. per esempio molti corsi hanno introdotto ampie possibilità di scelta, anche se non è ancora abbastanza.

aggiungo che il problema numero uno italiano, da persona estranea ai fatti, mi sembra l'infeudamento a cui obbligatoriamente si devono sottoporre i ricercatori e gli studenti degli ultimi anni che mirano al dottorato. se poi questi dottorandi e ricercatori, perchè precari, sono esclusi dalle decisioni dell'università, del corso di laurea ecc negandogli il diritto di voto, risulta evidente come non sia possibile parlare di autonomia e indipendeza.


poi ci sono anche storie incredibili come questa: www.corriere.it/speciali/fugacervelli/storie.html (ho trovato l'africa in uk)

ebbene quel professore è rientrato a Bologna, penso col programma di rientro dei cervelli.

gli è stato dato un contratto di un anno rinnovabile a piacere di non si sa chi. dopo anni due, quindi un rinnovo, è stato lasciato senza contratto. ora non so dove sia o cosa faccia. cose incredibili visto il livello del suo cv.

sempre a bologna si sa di gente che a 50 anni, ancora precaria e pagata miseramente a "corso" e con ritardi regolari di 6 mesi, è stata costretta ad emigrare a cambridge - non perchè cambridge fa schifo ovviamente, per considerazioni legate alla famiglia ecc ecc.


molto dovrebbe essere cambiato. dubito però che oggi giorno sussistano le condizioni politiche per farlo con profitto e razionalità. però si può ovviamente discuterne.

ora servirebbe un articolo simile a questo ma riguardante il sistema tedesco, francese, inglese e perchè no, olandese e finlandese. saluti

 

 

Questo articolo è stato pubblicato anche se non

completamente in sintonia con le idee della redazione di nfa allo scopo

di sollecitare un dibattito su questo tema importante. Abbiamo qualche difficoltà a coordinarci per fornire una risposta comune, interveniamo dunque separatamente.

L'articolo di AFT sostiene che affidare l'università italiana al

mercato non porterebbe ai risultati desiderati, e cioé ad un

miglioramento della qualità e quantità del capitale umano disponibile

nel nostro paese. L'articolo si sofferma in modo particolare sul

finanziamento dell'istruzione, e sull'opportunità o meno di far pagare

i costi dell'istruzione agli studenti.

Sono d'accordo con quanto sostenuto da Gianni de Fraja: "più o meno mercato" non significa "più o meno tasse universitarie". Aumentare la quota dei costi dell'istruzione a

carico degli studenti non aumenta né diminuisce la concorrenzialità

del sistema. In altra sede, io ed Alberto (e non siamo né i primi né i soli) abbiamo sostenuto che le modalità

di applicazione del diritto allo studio finiscono per attuare un

trasferimento di risorse dalle famiglie povere verso la classe media,

anche tenendo conto del fatto che il rendimento dell'investimento in istruzione

sembra essere, almeno in media, piuttosto alto, anche in Italia. Ma qui AFT si sofferma

non sul diritto allo studio, ma sugli effetti della concorrenza.


L'articolo

usa il modello americano come paradigma di riferimento. Giustamente,

viene osservato che anche negli USA le rette universitarie coprono una

percentuale minuscola, in molti casi, dei costi dell'istruzione. Questo

però non significa che manchino concorrenza e mercato, o che non

servano: donazioni private e trasferimenti di pubblici (le altre fonti

di sostentamento) sono strettamente legati ai risultati in termini di

qualità di insegnamento e ricerca. Una maggiore concorrenzialità del

sistema universitario implica disegnare istituzioni che competano per

donazioni e fondi pubblici. Quali sono i criteri che regolano i

trasferimenti alle università in Italia? Come migliorarli e renderli

maggiormente legati alla qualità e quantità dell'insegnamento e

della ricerca? Di questo occorrerebbe cominciare a discutere.


Sull'informazione da parte di Genitori e Studenti riguardo la qualità

della ricerca dei docenti si è già espresso, secondo me

correttamente, Gianni.


Occorre inoltre ricordare che Mercato non significa assenza di

intervento pubblico. Se ci sono settori per cui il ritorno privato è

inferiore alla spesa di istruzione (ma ce ne sono?), su questi non si

deve investire. Se il ritorno privato è inferiore a quello pubblico,

allora in quei settori la ricerca/istruzione di base va sussidiata

tramite erogazione di fondi in modo competitivo. Come vengono erogati i

fondi in Italia? Altro tema di discussione importante da affrontare.

Infine,

l'articolo suggerisce di usare come modello il sistema Californiano,

(un modello del resto simile a quello dell'istruzione universitaria

condiviso da molti altri stati americani). Occorre ricordare che questo

modello funziona in America perché perfettamente inserito nel contesto

concorrenziale dell'intero sistema universitario, e perché ne riflette

la diversificazione dell'offerta di istruzione e ricerca che manca in

Italia.


 

 

 

 

Occorre ricordare che questo

modello funziona in America perché perfettamente inserito nel contesto

concorrenziale dell'intero sistema universitario, e perché ne riflette

la diversificazione dell'offerta di istruzione e ricerca che manca in

Italia.

 

 

Se non sbaglio in Italia ci sono una quindicina di universita' private. Qualcuno si sara' preso la briga di andare a vedere se i laureati che escono da li' sono piu' preparati e/o prendono salari piu' alti al primo impiego. Insomma, un po' di sperimentazione dovremmo averla. Non lo so quale sia l'idea che gli economisti hanno di luiss e bocconi ad esempio.

 

 

 Quali sono i criteri che regolano i trasferimenti alle università in Italia? Come migliorarli e renderli maggiormente legati alla qualità e quantità dell'insegnamento e della ricerca? Di questo occorrerebbe cominciare a discutere.

 

Proprio così. I criteri di distribuzione del Fondo di Finanziamento Ordinario sono, o dovrebbero essere il principale strumento di politica universitaria. Purtroppo talvolta nemmeno i ministri si rendono conto di avere a disposizione uno strumento potentissimo. Letizia Moratti ci ha messo più di due anni per capire il sistema di finanziamento delle università, la mia impressione è che il suo capo di gabinetto, che aveva mano libera su tutto, non l'abbia mai capito. In effetti, se i ministri avessero capito il problema e collaborato avremmo da tempo una "formula di finanziamento" applicabile all'intero FFO. Nella realtà si è partiti da una situazione storica (del 1994) assolutamente incredibile in cui per nessuna ragione apparente alcune sedi, prevalentemente del centro sud spendevano per le stesse cose molto  più di altre, e si è cominciato a definire, a cura della commissione tecnica della spesa pubblica, una formula di finanziamento teorica che si applicava a percentuali minime della spesa, e che concorreva a formare la cosiddetta "quota di riequilibrio". Il "riequilibrio" avrebbe dovuto portare lentamente tutte le sedi universitarie ad un finanziamento basato su parametri identici, azzerando, ad esempio, l'enorme divario nelle spese tra università del nord e università del centro-sud. Successivamente il compito di definire la formula per la quota di riequilibrio, cioè la quota di finanziamento erogata sulla base di parametri uguali per tutti, è passato al CNVSU (Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario). La lentezza del processo è stata a tratti compensata dalla cosiddetta accelerazione del riequilibrio, che asssegnava parte dei finanziamenti aggiuntivi alle università (prevalentemente del nord) che risultavano in credito rispetto alla formula di finanziamento teorico. Credo (sono anni che non me ne interesso direttamente) che oggi sarebbe possibile passare direttamente al "formula funding" ignorando la situazione storica. Ci vuole per questo una volontà politica, che dovrebbe essere preceduta da una consapevolezza dell'importanza di una simile iniziativa. A confondere le cose c'è anche il problema delle facoltà di medicina, o ancor peggio dei policlinici universitari (interamente di proprietà delle università che pagano quindi anche gli stipendi di infermieri e portantini) che contribuiscono al sistema sanitario nazionale, spendendo quindi parte del FFO, per spese che altre università non debbono sostenere.

 

 

 In altra sede, io ed Alberto (e non siamo né i primi né i soli) abbiamo sostenuto che le modalità di applicazione del diritto allo studio finiscono per attuare un trasferimento di risorse dalle famiglie povere verso la classe media, anche tenendo conto del fatto che il rendimento dell'investimento in istruzione sembra essere, almeno in media, piuttosto alto, anche in Italia.

 

Vorrei segnalare a questo proposito il libro di Catalano, Sivestri ed altri "Chi paga per l'università?" pubblicato, mi sembra, nel 1994. Trovo sorprendente l'aumento pronunciato del divario tra reddito dei laureati e dei non laureati che risulta dai dati OCSE. In parte puo' dipendere dal fatto che alcune professioni che non richiedevano fino a qualche anno fa una formazione universitaria (ragioniere, infermiere, ecc.) oggi la richiedono. Certamente è anche la conseguenza della "svalutazione" dei diplomi di maturità, compresi i diplomi di maturità tecnica, che è seguita alle assurde riforme dell'esame di maturità. Queste riforme hanno inciso di meno nei licei, perché non c'è molta differenza sul piano culturale, tra una preparazione approfondita in poche materie (caso dei miei figli) ed una preparazione superficiale in molte materie (caso mio). Ma lo stesso non si può dire per le maturità professionali. Inoltre dobbiamo tener conto del fatto che la percentuale di "maturi" sui diciannovenni è aumentata moltissimo negli ultimi dieci anni (guardare le tabelle del rapporto del CNVSU che cito nel mio articolo).

 

 

Se ci sono settori per cui il ritorno privato è inferiore alla spesa di istruzione (ma ce ne sono?), su questi non si deve investire. Se il ritorno privato è inferiore a quello pubblico, allora in quei settori la ricerca/istruzione di base va sussidiata tramite erogazione di fondi in modo competitivo

 

Non potrei essere più d'accordo. Ma è questo che è percepito dal pubblico che legge i giornali quando si parla di affidare l'università al mercato?

 

1) abolire ilvalore legale, questo senza dubbio  (per le aziende private e studi professionali è sempre stato così) una laurea a camerino non può valere come come una laurea alla normale di pisa

2) differenziare l'entità delle tasse universitarie a seconda della facoltà, cioè tasse inversamente proporzionali agli spocchi e necessità di mercato

chi studia antropologia culturale deve sapere che si sta concedendo un lusso 

3) abolire i concorsi pubblici per professore universitario e regolamentare i rapporti solo mediante contratti a termine

basta con i concorsi farsa e le università cattedrali nel deserto create solo x assegnare cattedre e nepotismi/clientele varie 

 

 

 

 

 

chi studia antropologia culturale deve sapere che si sta concedendo un lusso

 

c'è chi direbbe: se è un lusso deve pagare. tu invece dici che non deve pagare niente se ho capito bene. giusto? 

 

3) abolire i concorsi pubblici per professore universitario e regolamentare i rapporti solo mediante contratti a termine

 

cosa sono, slogan politici?

 

 

un laureato costa allo stato 10 volte quello che ha dato in tasse universitarie

 

quindi  chi frequenta facoltà con scarse possibilità di sbocco nel mercato del lavoro

secondo me dovrebbe pagare di +

 

quella dei professori universitari è una altra casta scandalosa 

parlo di giurisprudenza:

professori che svolgono la professione privata e non pensano neppure lontanamente a dedicarsi esclusivamente solo all' insegnamento

i loro figli in compenso a poco più di 30 anni sono già professori associati

 

considerato che la mia ex facoltà già a miei tempi era pressapoco un esamificio e che ieri come oggi un laureato in legge non sa neppure come è fatto un tribunale oppure come si fa una notifica  non vedo proprio la necessità di mantenere in piedi questa assurda oligarchia 

 

perconto mio gli esami a giurisprudenza si possono fare anche attraverso le facoltà on line 

 

 

 

Prima, fondamentale, osservazione:

L'autore dell'articolo, AFT, conosce già quest'obiezione, in quanto

gliel'ho avanzata ripetutamente durante il processo editoriale. Non

avendo mai ricevuto una risposta, la ripeto:

Chi ha mai suggerito che la totalità dei costi di un'università

(didattica, ricerca, edifici e strutture oltre a spese correnti,

servizi d'ogni tipo per studenti, professori, personale amministrativo,

servizi vari offerti alla comunità, eccetera) dovrebbe essere a carico

delle tasse che gli studenti pagano?

Non conosco nessuna persona sensata che abbia fatto tale proposta. Le

proposte di De Fraja e Perotti son di ben altra natura. Quindi, di cosa

discutiamo e chi critichiamo? Perché inventarsi proposte folli e che

NESSUNO ha mai fatto per poi sostenere che tali assurde proposte

coincidono con la proposta, che invece molti di noi hanno fatto e

continuano a fare, secondo cui è necessario ed urgente affidare l'università al mercato privatizzandola di fatto? Le fondazioni non for profit SONO entità private, nel caso a qualcuno questo fatto sfugga.

Seconda osservazione:

Vi è una profonda differenza fra "privatizzare" o "affidarsi al

mercato" e "far pagare l'università agli studenti". Mentre le prime due

formulazioni hanno parecchio (non tutto, ma quasi) in comune la terza

ha quasi nulla in comune con le precedenti. Fra le (moltissime) ragioni

vi è quella banale per cui un'università (privata o pubblica che sia)

NON offre servizi solo agli studenti ma ad una molteplicità di altri

soggetti: imprese, anzitutto, e poi anche fondazioni che finanziano la

ricerca, enti pubblici e privati che acquistano o finanziano ricerca,

cittadini delle aree circostanti che utilizzano i molteplici servizi

che l'università vende, dagli spettacoli, allo sport, agli ospedali, ai

corsi serali, a quant'altre cose. Esempio macroscopico: i pazienti dei

molteplici ospedali che sempre affiancano le scuole di medicina pagano

(direttamente o via le loro assicurazioni) tutti i costi di tali

scuole/ospedali. Il budget di quest'ultimi entra nei costi

dell'università USA riportati da Marrucci e che AFT cita. La U of C San Francisco

è una delle 4 grandi scuole di medicina cum ospedale degli USA. Il suo

budget fa parte di quel totale di cui le tasse degli studenti sono solo

una percentuale. Idem, sempre per rimanere in California, per UCLA che

ha un enorme Medical School e Medical Center. Idem per quasi tutti i campuses dello UofC system. Nel

budget delle UofC vi sono le rette che gli studenti pagano per vitto

ed alloggio nei vari villaggi universitari, come ho appreso attraverso

l'esperienza di mio figlio. Tali rette NON vengono comprese nelle tasse

universitarie, quindi non entrano nelle percentuali menzionate da AFT; esse sono, in media, pari al 30-50% delle tasse, quindi da sole servono per far crescere le percentuali menzionate di un 20% (solo una parte degli studenti vive nel campus). Idem per le varie manifestazioni sportive e per le squadre di studenti che vi competono:

fra vendita di biglietti, pubblicità e diritti televisivi, moltissime

università guadagnano decine e decine di milioni i quali entrano sempre in quei

budgets di cui le tasse degli undergraduates sono solo una percentuale. Potrei continuare ancora per un po' con altri esempi.

A fronte di questi noti e chiari fatti, che senso hanno le percentuali

riportate nell'articolo? Che COSA intendono provare? Che nelle universita' USA si fanno moltissime altre cose oltre che insegnare agli undergraduates? Beata innocenza: chi aveva mai sostenuto il contrario? La domanda corretta sarebbe:

quale percentuale dei costi variabili legati alla didattica nei

colleges delle università americane viene coperta dalle tasse degli

studenti che i colleges frequentano? Non conosco il numero esatto ma,

basandomi sui budgets dei Colleges of A&S dei cinque posti dove ho

insegnato tra il 1987 ed oggi (Chicago, UCLA, Northwestern, Minnesota,

WUStL) direi una media del 70%, in un intervallo che va dal 40% a,

forse, il 100% nella prima, terza e quinta, che sono tutte "private" mentre le altre due sono "pubbliche".

Questo, ovviamente, non vuol dire NULLA di per se, ma permette porre la

questione in un contesto più realistico e meno distorto. Sarebbe poi

necessario discutere COME i soldi pubblici arrivano alle università

"pubbliche" (e "private") ma questo tema lo lasciamo per una fase più avanzata della discussione.

Terza osservazione:

Ad AFT sembra andar bene il sistema californiano, o mi sbaglio? Se mi

sbaglio vorrei capire cosa vi sia nel sistema californiano che AFT

considera non appropriato, inefficiente o socialmente ingiusto. Vorrei

anche capire come intende ovviare a quei difetti che egli ci chiarirà

esistere. Se, come a me è sembrato, lo trova invece tutto sommato

attraente e senz'altro preferibile all'orrore italiano, vorrei

chiedergli: perché non proporre che in Italia si adotti, sic et

simpliciter, la seguente e banale riforma: FARE COME IN CALIFORNIA?

 

 

 

Chi ha mai suggerito che la totalità dei costi di un'università (didattica, ricerca, edifici e strutture oltre a spese correnti, servizi d'ogni tipo per studenti, professori, personale amministrativo, servizi vari offerti alla comunità, eccetera) dovrebbe essere a carico delle tasse che gli studenti pagano?

 

Non nego che sto discutendo un caso estremo. In un dibattito il cui scopo è determinare un vincitore ed un perdente l’attribuzione all’avversario di una tesi estrema per poi demolirla è una furbizia retorica. Ma se il dibattito ha lo scopo di approfondire una questione, può essere importante disporre del caso estremo per poter affrontare concretamente le questioni. Inoltre le pagine dei quotidiani non sono lette solo da chi è disponibile ad interpretare la vera opinione degli autori. Sono infatti lette da “decisori” ignoranti e frettolosi che possono prendere alla lettera affermazioni come quella che condanna come “principio sbagliato” il fatto che “l’istruzione universitaria non è pagata dalle famiglie ma dai contribuenti”. Una volta sgombrato il campo dalla soluzione estrema ed onnicomprensiva possiamo anche discutere concretamente il problema di un incremento della contribuzione studentesca. Io, ad esempio, sono convinto che le tasse universitarie non debbano essere uniformi, ma, come in Australia, debbano dipendere dal corso di studi. Credo anche che debbano essere negative (cioè si debbano prevedere borse di studio) per tutti i corsi di studi indirizzati in via esclusiva all’insegnamento. Una volta chiarito che “privatizzare” significa, ad esempio, trasformare le università in “fondazioni”, possiamo chiederci come sarebbe formato il capitale delle fondazioni, quale sarebbe il loro statuto, e come potremmo evitare che nel nuovo involucro (le fondazioni) si riversi il vecchio (rettori, presidi, senati accademici, consigli di amministrazione, sindacati e quant’altro). L’esperienza dello IIT non è confortante. In questo caso nel nuovo involucro, si è subito introdotto un vecchio contenuto, nella persona di due professori di Lecce frequentatori abituali di corridoi ministeriali. 

 

Sono completamente d’accordo con la seguente affermazione di Michele:

 

un'università (privata o pubblica che sia) NON offre servizi solo agli studenti ma ad una molteplicità di altri soggetti: imprese, anzitutto, e poi anche fondazioni che finanziano la ricerca, enti pubblici e privati che acquistano o finanziano ricerca, cittadini delle aree circostanti che utilizzano i molteplici servizi che l'università vende, dagli spettacoli, allo sport, agli ospedali, ai corsi serali, a quant'altre cose.

 

In particolare l’istruzione universitaria ha una ricaduta diretta a vantaggio dei suoi laureati, misurabile, almeno in parte, dalle differenze di stipendi tra laureati e non laureati ma produce anche vantaggi collettivi talvolta non suscettibili di essere venduti, come la disponibilità di personale insegnante qualificato, di ricercatori scientifici, ed altro. Idealmente i vantaggi privati dovrebbero essere a carico dei privati che ne godono, i vantaggi collettivi dovrebbero essere a carico dei “contribuenti”. Naturalmente non è possibile una separazione esatta e ci dovremo accontentare di un’approssimazione. Ci sono però servizi offerti dalle università italiane, che dovrebbero essere in qualche modo “venduti”, quanto meno per renderne trasparente il costo. Mi riferisco principalmente al contributo delle università italiane al servizio sanitario nazionale cui dovrebbe corrispondere, come avviene negli SU, un “corrispettivo” a carico del servizio sanitario nazionale. Questo importante servizio viene invece finanziato attraverso il Fondo di Finanziamento Ordinario (per gli stipendi), e, in piccola parte (per l’indennità sanitaria) da un “contributo pubblico regionale”. I rettori si sono sempre opposti anche ad uno scorporo virtuale delle spese che le università affrontano per il servizio sanitario nazionale. Le ragioni sono che non vogliono perdere la cosiddetta “autonomia”, cioè la potestà di attivare “cattedre” e quindi servizi senza tener conto della programmazione regionale. La mia stima, a naso, è che il 15-20% dello FFO delle università italiane costituisca un contributo al servizio sanitario nazionale. La percentuale è certamente più alta per Federico II e Sapienza. Questa è una delle tante ragioni che rendono difficile il paragone tra le entrate delle università italiane e quelle delle università americane.Sono anche d’accordo sul fatto che gli studenti “undegraduate” americani finanziano con le loro tasse una percentuale notevole delle spese per l’istruzione “undegraduate”. Mi è difficile fare una stima globale, data la differenza tra le diverse istituzioni, ma non ho obiezioni alle stime di Michele. Non ci dovrebbero essere dubbi però sul fatto che la istruzione dei graduate students in scienza e tecnologia sia a carico della collettività. Nel rapporto Roberts che cito nel mio pezzo si propone in Inghilterra di portare il compenso netto dei Ph.D. students ai livelli dei compensi medi dei graduates sul mercato del lavoro e di aumentare a partire da quella base i compensi degli studenti PhD di matematica, fisica, chimica ed ingegneria. Negli SU la politica  dell’immigrazione degli scienziati, rende meno necessario competere con il mercato libero per gli stipendi pagati agli studenti PhD (oltre il 50% dei PhD in “science and technology” è conferito a “nonresident aliens”) 

 

 

Ad AFT sembra andar bene il sistema californiano, o mi sbaglio? Se mi sbaglio vorrei capire cosa vi sia nel sistema californiano che AFT considera non appropriato, inefficiente o socialmente ingiusto. Vorrei anche capire come intende ovviare a quei difetti che egli ci chiarirà esistere. Se, come a me è sembrato, lo trova invece tutto sommato attraente e senz'altro preferibile all'orrore italiano, vorrei chiedergli: perché non proporre che in Italia si adotti, sic et simpliciter, la seguente e banale riforma: FARE COME IN CALIFORNIA?

 

Se avessi la bacchetta magica non avrei dubbi! Per molti anni, anche senza bacchetta magica, mi sono industriato a pensare ad un percorso che avrebbe potuto portarci, almeno in parte al sistema della California. Il percorso sarebbe passato per una valorizzazione degli istituti tecnici italiani per farne qualcosa di simile ai Community Colleges, con l’aggiunta di un paio d’anni di formazione di livello parauniversitario, con un riconoscimento possibile (ma fortemente selettivo) di crediti per un proseguimento universitario. C’erano anche i soldi per una simile proposta (che è stata ad un certo punto anche avanzata da uno studio sponsorizzato dall’IRI) bastava utilizzare le migliaia di miliardi annui che Confindustria, Sindacati e Regioni hanno sperperato  per la cosiddetta “formazione professionale”. Negli anni novanta Governo (Ministro dell’Istruzione Lombardi) Sindacati e Confindustria hanno firmato un accordo di spartizione sui fondi per la formazione professionale per pasticci che esplicitamente escludevano la “continuità con la scuola secondaria”. Allora era forse l’ultima possibilità. Adesso sono molto più scettico. A parte la decadenza degli istituti tecnici, oggi si iscrive all’università oltre il 50% dei diciannovenni. Come si potrebbe disegnare uno strumento valido per dirottarli in istituzioni di diverso livello? Inoltre sono convinto che manchi in Italia tra la sedicente “classe dirigente” (professori in particolare) una dose sufficiente di “sensibilità democratica”. Non ce ne è uno che non si riempi la bocca della parola “eccellenza”, riferita naturalmente a se stesso e a suoi amici. Siamo ben pochi a preoccuparci di quello che considero il problema più importante che dovrebbe affrontare l’università italiana e che la California ha affrontato e risolto brillantemente negli anni cinquanta-sessanta attraverso il “master plan of university education”. E’ il problema di come diversificare l’istruzione universitaria in risposta ad una domanda di istruzione estremamente diversificata, proveniente da una percentuale alta (30-40% almeno) della popolazione dei diciannovenni. Il problema è anche come rendere questa diversificazione non definitiva.In California esistono, come ho detto nel mio pezzo, tre livelli di istruzione universitaria. Il primo è costituito dalla rete dei Community Colleges cui può iscriversi qualsiasi “high school graduate”. I colleges sono distribuiti sul territorio in maniera capillare, e quindi non richiedono costosi spostamenti da parte degli studenti, e le loro tasse universitarie sono fissate al minimo livello ritenuto necessario per non attrarre perditempo. I docenti dei Community Colleges hanno in genere una istruzione a livello di “master” ma raramente di PhD (almeno per la matematica). Il loro impegno didattico è di circa 15 ore la settimana.Il secondo livello è costituito dal sistema delle “California State Universities” che selezionano i loro studenti, ma accolgono una percentuale alta dei diciannovenni. I docenti di queste università generalmente hanno conseguito un PhD,  spesso sono impegnati nella ricerca (specialmente in ambito umanistico) ma insegnano, a meno di speciali esenzioni per attività di ricerca, 12 ore la settimana (almeno il doppio del carico didattico di un professore delle Universities of California; le mie informazioni si riferiscono alla matematica).Il terzo livello è quello dei diversi “Campus” della University of California che ammettono circa il 12% degli “high school graduates”, scelti tra i piu’ qualificati. A prima vista si tratterebbe del sistema ideale per i nostri professori italiani, i quali propongono, in alternativa al numero chiuso, il dirottamento degli studenti “indegni della loro eccellenza” in istituzioni minori, magari attraverso un percorso ad Y, come dicono loro. Il fatto è che in California i Community Colleges non sono ghetti, non hanno solo la funzione di “filtrare” gli studenti migliori, ma anche quella di consentire a studenti che inizialmente, per una ragione o per l’altra, non possono permettersi di frequentare una università, di accedere successivamente a  studi universitari di primo ordine. In altre parole non sono vicoli cechi. Per fare un esempio, qualche mese fa il prof. Ted Gamelin, che è stato direttore del dipartimento di matematica di UCLA, mi ha detto che la metà dei loro “graduates” sono “transfer students” e che quasi tutti i “transfer students” provengono dai “community colleges”. Queste istituzioni infatti sono scelte, per il loro basso costo e disponibilità sul territorio,  da studenti che non possono permettersi di spostarsi di molto dal loro luogo di residenza, perché gli studi costano veramente poco. Alcuni di questi studenti, attraverso i primi due anni di  “college” dimostrano di saper andare avanti. Non posso essere sicuro delle cifre approssimative che mi sono state fornite dal mio collega di UCLA, ma ciò di cui sono certo è che il mio collega  era fiero di riportare queste cifre. Cioè era consapevole di riferire che il sistema della California riusciva a diversificare l’istruzione senza discriminare a priori i giovani in grado di conseguire una laurea in matematica. Questo è quello che intendo per “sensibilità democratica”. Quasi quaranta anni fa in Italia si è deciso di non diversificare il sistema di istruzione universitaria, bocciando clamorosamente le proposte di un sistema articolato su due fasce di istituzioni e tre livelli di “titoli accademici”. E’ stato un grave errore che, a mio parere, è ora irreversibile. Dubito tuttavia che il classismo piccolo borghese della “sedicente classe dirigente” italiana (di destra e di sinistra) e dei professori universitari in particolare, avrebbe consentito lo sviluppo di un sistema veramente aperto come quello della California.

 

 

Avevo giá postato, ma il commento non é stato recepito. Se dovesse apparire un doppio commento, cancellatene uno. 

Faccio alcune considerazioni personali - basate cioè sulla mia esperienza personale. Il campione non è dunque rappresentativo, però credo possano valere qualcosa per discutere. 

Quando ho approcciato l'università straniera (nel mio caso anglosassone) mi aspettavo un livello di preparazione elevatissimo. Io venivo dall'Università del Popolo di Torino. Avevo, insomma, le scarpe di cartone. Gli altri venivano da Cambridge, Oxford, Harvard, Princeton, Stanford, Columbia, etc.

Bene. Sarà che magari il mio campo era più dedito alla fuffa che non altri (Relazioni Internazionali), ma sono rimasto parecchio basito dal basso livello di preparazione dei miei compagni. Storia, logica, filosofia, economia, e conoscenze generali erano, nella stragrande maggioranza dei casi, totalmente assensi. Basti dire che,una mia ex-compagna di corso che ora va a lavorare alla NATO, venendomi a trovare in Vienna, dove ora vivo, mi chiede: "ma l'Austria era nel blocco sovietico?".

Un'altra compagna, che aveva studiato Economics al MIT, non aveva la benché minima idea di come funziona la bilancia dei pagamenti o economia monetaria. Ripeto: Economics al MIT, e se era stata accettata per il master doveva evidentemente aver buoni voti (visto che viene ammesso meno del 10% di chi fa domanda).

Gli altri studenti, in generale, non erano molto più preparati. Per carità, non degli ignoranti ma neppure dei first classes. In Italia, li posizionerei su una media del 23/24. Sarò stato sfortunato (?).

Forse. Perché mio fratello ha avuto un'esperienza analoga. A tratti fino più terrificante. E lui sta(va) negli USA. Ho conosciuto altre persone (sempre nel mio campo), anch'esse negli USA - pure queste erano parecchio deluse. Si noti che non hanno studiato nell'intracollege del South Montana. Parliamo di top universities della ivy league, da 30.000 $ l'anno solo di tuition fees.

In generale, e ripeto: parlo di graduate level, siamo rimasti sconvolti da:

1) esami farsa. Letteralmente si va agli esami già sapendo le domande. In Inghilterra ti dicono "fate bene attenzione alle domande degli anni passati". In America, invece, tre giorni prima degli esami hai le domande. Non devo spiegare a degli economisti quale tipo di incentivo si stia dando.

2) Sistema di valutazione demenziale: in America il voto degli esami dipende molto spesso dalla partecipazione in classe. Il risultato é che devi ascoltare dei cretini che parlano senza sapere cosa vogliono dire solo perché sanno che ció comunque aumenta la loro partecipazione in classe e quindi il loro voto. In Inghilterra hai tre ore per dare tre risposte analitiche. Di fatto, molti optano per il "bullshitting": non essendoci modo di appurare se quanto si sta dicendo corrisponde a propria preparazione oppure a sparate personali, i docenti tendono a far passare tutto nella correzione.

1+2 =3) Di conseguenza: Nessun bocciato. Nel mio master, 100 persone, nessun bocciato. Lo stesso vale per gli altri contesti che mi sono stati raccontati. E si noti: l'assenza di bocciati non si deve allo studio sopraffino dei candidati. Ad un esame orale, il candidato veniva testato sulle sue copmetenze economiche (prevedendo il suo corso diversi esami nella disciplina): cosa succede al tasso di cambio quando vi é un influsso di capitali. Risopsta: ehm... ihm... uhm.... Il docente: si rivaluta, no? Oh, yes, obviously.

4) E quindi: preparazione superficiale, ad essere generosi.

L'impressione generale è che si paghi per avere un titolo di studio, poco importa il suo reale valore aggiunto in termini di conoscenze. In Inghilterra il processo è davvero sfacciato: nell'anno di Master non si studia: si fanno domande di lavoro. E così si ha un posto di lavoro prima di finire il Master. Ciò spiega perchè gli esami sono alla fine dell'anno e le domande si conosco già a inizio anno: altrimenti nessuno potrebbe riuscire nel doppio processo (studio + domande di lavoro).

La seconda impressione generale è che questa sia fondamentalmente un'università per ricchi. Costa un fracco di soldi, pochissime borse di studio, tutti promossi con il tagliandino e poi, potenzialmente tutti nei posti di lavoro migliori. Dalle universitá americane che conosco, si va direttamente al Pentagono, al Dept. of State o in top aziende private.

Ripeto: la mia esperienza é limitata al mio campo, nel quale peró arrivava gente che aveva studiato anche altre discipline. Non devo dire che finita la mia esperienza anglosassone, devo ammettere che, almeno per come la ho vista io, l'Universitá italiana é senza dubbio migliore - almeno per quanto riguarda le basi.

saluti, ag.

 

La mia esperienza e' ancora meno rappresentativa perche' indiretta, ma tendo a sottoscrivere ampiamente. Piu' in dettaglio (ma si', diamoci al gossip...):

- UK, vari corsi undergraduate e di Master:  livello di impegno richiesto tipicamente molto inferiore all'universita' italiana. Vivi con persone che si lamentano/vantano di seguire corsi particolarmente impegnativi e poi non fanno un cazzo per tutto il giorno. L'unica eccezione di cui ho notizia e' costituita da alcuni master di LSE.

- Economia Undergraduate, USA: corsi "facili", con poca matematica.

- PhD Economics, USA : livello di impegno richiesto altissimo.

 Il fatto che i graduates stranieri "facciano meglio" (secondo particolari misure) degli americani nei programmi di dottorato piu' selettivi, d'altronde, e' documentato in vari studi:

http://ideas.repec.org/p/nbr/nberwo/4070.html

http://www.vanderbilt.edu/Econ/wparchive/workpaper/vu00-w37.pdf

 

Un altro punto: il mercato tende a completare i mercati. C'e' chi si specializza a offrire buona/ottima  educazione e chi vende il "diploma" (ed e' efficiente che sia cosi', naturalmente). E' noto che in Amerika (non sono certo sia cosi' in UK ma non vedo perche' no) il mercato dei master non professionale (cioe' non MBA, non Legge,...) e' uno di quelli in cui il diploma si vende - ed e' cosi'  anche nelle ottime univesita'. Non mi stupiscono affatto quindi vari degli aneddoti riportati sopra, che si riferiscono a Master e non a PhD. Il fatto che si dica che al master di LSE economics studiavano etc., conferma il tutto: quel master e' noto per fornire studenti di PhD alle migliori universita' USA. Li' non si vende nulla. Chi ci va quindi lo fa per dimostrare la propria abilita' per entrare in un buon PhD.

Infine, si' gli amerikani che vengono da universita' top USA ed emigrano in UK o altrove, o hanno ragioni loro o non sono certo i migliori. I migliori hanno facile accesso a PhD migliori di quelli UK (in USA - mi spiace ma e' vero ed oggettivo -  basta guardare a placement). Gli italiani in USA o UK invece sono i migliori tra gli italiani (semplicemente perche' i PhD dove vanno sono meglio di quelli italiani - poi gli italiani che fanno un PhD in Ucraina forse no, ma quelli in UK, USA, Spagna, Francia,.. certamente sono i migliori della loro generazione).

Se invece vogliamo continuare con gli aneddoti: mio cugino ha fatto la Bocconi copiando ogni esame e non sa ne' leggere ne' scrivere; come la mettiamo? Che teoria spiega questa osservazione? 

 

 

mio cugino ha fatto la Bocconi copiando ogni esame e non sa ne' leggere

ne' scrivere; come la mettiamo? Che teoria spiega questa osservazione?

 

 

Una pessima teoria: bisogna che tuo cugino sappia almeno leggere le domande per copiare le risposte giuste :-) 

 

 

Michele, Alberto: non volevo far degenerare la discussione. Ho riportato degli aneddoti solo per dire che ci sono (almeno mi pare) dei seri problemi nel sistema anglo-americano e che andrebbero tenuti in considerazione.

Poi magari è solo il caso di un simple bias personale (ho avuto sfiga) oppure disciplinare (Rel.Int. è fuffa - ma allora come spiegare chi veniva da Econ?), o anche psicologico (mi dimentico di tutti i somari che vengono sfornati dalle nostre UNI e stigmatizzo qualche somarello timbrato MIT o Harvard): può darsi, anzi: è assolutamente possibile. Io suggerisco però, cmq, di indagare.

Chiarisco quindi il mio intento: il mio timore è che si finisca di importare in Italia la parte peggiore dell'America. Ecco perchè credo utile analizzare in profondità quanto accade. In particolare, mi sembra utile dividere tra teaching e reasearching. Che gli USA siano i primi in researching non ci piove, basta vedere da dove viene chi pubblica. Che però gli USA siano i primi in teaching mi sembra un'altra faccenda - ripeto, almeno dalla mia esperienza.

Due sole parole sul resto:

1) LSE Economics: da quanto ho visto, e mi dicevano i miei compagni, il master non dava molta sostanza in più di quella richiesta per entrarvi (soprattutto perchè l'insegnamento era di livello scandaloso). Morale: paghi per avere un segnale. Ma allora, come volevo sottolineare nel mio commento, paghi un'università che non ti prepara. A prepararti ci pensa qualche altra istituzione (nel caso, il CORIPE). Se l'America ha sempre più dottorati stranieri, mi sa, è anche perchè i suoi studenti sono progressivamente sempre meno validi, almeno in termini relativi (ma penso anche assoluti).

2) I migliori emigrano. Michele usava queste parole per parlare dell'amica dal MIT alla LSE. Ok, good point. Ma se volete vi segnalo gli strafalcioni di chi da Berkeley o Stanford è andato alla Columbia...

e scusate se ho fatto tanta caciara :)

 

aa

 

 

Andrea: nessuna caciare. Ma come si fa a discutere su aneddoti. Dici, ricerca e' buona in USA ma non teaching. Beh, ma qualcuno gli avra' pur insegnato a chi fa ricerca. Dici, vengono da tutto il mondo. Beh, ma vengono perche' i PhD sono ottimi. Che il college negli USA sia scarso, lo si e' sempre detto. A noi appare cosi', questo e' vero. In parte perche' noi a fine universita' abbiamo pretese intellettuali che gli amerikani non hanno, e quindi loro ci paiono stupidi/ignorante. I nostri atteggiamenti intellettuali sono pero' spesso vuoti.  Gli amerikani sono certo molto meno specializzati di noi, alla fine del college, e meno "intellettuali." C'e' molto bias pero' nel nostro giudizio, robadisco. E' la stessa ragione per cui un qualunque professore italiano che non ha mai scritto un articolo si atteggia ad Aristotele e in USA ai premi Nobel  li si chiama per nome di battesimo e ci si va a bere la birra assieme. Detto questo, sono convinto anch'io che il college amerikano, anche agli alti livelli, non sia il meglio del loro sistema educativo (che invece secondo me sono i PhD e i master professionali).

 

 

Michele, Alberto: non volevo far degenerare la discussione. Ho

riportato degli aneddoti solo per dire che ci sono (almeno mi pare) dei

seri problemi nel sistema anglo-americano e che andrebbero tenuti in

considerazione.

 

Andrea, io sono meno diplomatico di Alberto, quindi devo dire che a me sembra tu abbia fatto confusione. Magari con le migliori intenzioni, ma confusione rimane.

Vediamo perché: ci informi che al Master di Relazioni Internazionali (di LSE, se ben capisco) ci sono parecchi ignorantoni USA ed anche alcuni cretini-USA. Spero non lo siano tutti, ma non ho remore a crederti che siano parecchi. Il fatto che un'università sia buona (LSE lo è in economia, non so dove stia in RI) non garantisce che tutti i suoi studenti siano intelligenti, specialmente nei Masters annuali. Nemmeno il fatto che sia privata, o pubblica, lo garantisce. Al più la percentuale di studenti molto svegli e preparati cresce al crescere della qualità dell'università, cosa che nell'esperienza mia è vera per le cinque università dove ho insegnato. Tutto questo mi sembra da un lato vero, dall'altro ortogonale (che è una maniera diplomatico-matematica per dire "irrilevante" :-)) in relazione ai temi che l'articolo di AFT solleva.

I temi essendo:

(I) funziona meglio (in termini di qualità dell'insegnamento e della ricerca) un SISTEMA di università "private ed in competizione di mercato" o un sistema "pubblico-centralizzato senza concorrenza, stile italiano"?

(II) Come va finanziata l'università, ossia chi e come ne deve pagare i costi?

Detto questo, tralascio i temi di AFT (che discuto in altri commenti) e considero le osservazioni da te fatte assieme alle altre che si sono aggiunte. Faccio notare, anzitutto, che con gli aneddoti personali, seppur utili, non si va molto lontano. A questi aneddoti, anzitutto, contrappongo una semplice domanda (analoga, credo, a quella che poneva Edoardo):

SE fosse vero che le migliori (la qualificazione "migliori" è importante, spiego dopo perché) università USA ed UK sono pessime e non formano i loro studenti o le formano peggio delle migliori italiane, PERCHÈ tutti cercano di esservi ammessi? Non in tutti i campi ma in quasi tutti mi sembra che sia vero il fatto che gli studenti di tutto il mondo fanno l'impossibile per andare a studiare nelle 30-50 migliori università USA-UK. Quale sarebbe dunque la ragione? Tutti tonti?

In secondo luogo, mi sembra vi sia una scarsa comprensione di come funziona il sistema e di quali siano i suoi fini. Esami, anzitutto. Negli USA si boccia molto poco e vi è un'inflazione nei voti. Senza dubbio. In particolare, negli USA si può finire il college in posti prestigiosi avendo appreso poco, verissimo. Fa parte del contratto. Nondimeno la selezione avviene, perché tutto è relativo. Non tutti hanno "straight As", non tutti fanno la Dean's Honor List, non tutti si laureano Magna cum Laude, eccetera. La stratificazione c'è, eccome.

Non solo esami in una data università, ma anche scelta fra università diversi e di percorsi diversi all'interno di ogni università. Anche qui occorre capire come un sistema di libero mercato universitario funziona. Proprio il sistema di mercato che offre da un lato Caltech ed all'estremo opposto Monroe Community College, permette anche (non a Caltech, ma certo ad Harvard, ad NYU o a WUStL, ogni scuola ha le sue caratteristiche) di laurearsi apprendendo poco e scegliendo percorsi facili. Risultato? Il mercato seleziona lo stesso, sia attraverso la stratificazione menzionata sopra, sia perché chi assume (o chi ammette alle scuole professionali per Masters, o ai PhDs) sa leggere i curricula e sa differenziare i corsi, sia perché si prova sul mercato ciò che si vale e ciò che si è appreso. Ciò che rende Princeton un posto eccezionale è il fatto che SE VUOI FARTI IL MAZZO puoi, i corsi duri ci sono, i professori bravi ci sono, le cose si imparano. Altrimenti fai Princeton con poco sforzo, getti i soldi di papà (o della borsa di studio, qualche volta) e poi se sei fortunato ti salvi in corner altrimenti ciccia. La scelta è dello studente: it is the free market, baby.

La selezione del campione. Mi sembra vi stiate tutti scordando che negli USA la percentuale di ragazzi che, in ogni data cohort, accede a qualche tipo di college è tra il 50 ed il 60 percento (non ho tempo di controllare i numeri esatti, ma siamo in quel range) e finiscono quasi tutti. In Italia la percentuale di chi inizia l'università arriva appena al 30% e finisce meno della metà. Tutti gli ultimi dati che ho visto, di percentuali di laureati italiani nella loro cohort, non arrivano al 15%. Confrontare quindi la preparazione media dei due gruppi, ed anche l'intelligenza e la motivazione personale, per inferire qualcosa sulla qualità dell'educazione che i due sistemi offrono è improprio. Occorrerebbe confrontare gruppi omogenei. Quando si fa così, le cose cambiano. Qui anche io vado ad aneddoti, ma non del tutto personali. Se guardo alle performances degli studenti americani che fanno PhDs in economia e le confronto a quelle degli stranieri (nota che qui gli americani sono in svantaggio: loro sono i migliori (in econ) in una popolazione di 300 milioni, mentre gli stranieri sono i migliori (in econ) in una popolazione di circa 2 miliardi di persone!) vedo performances simili. Quando ho insegnato a Kellogg ho avuto la medesima impressione per quanto riguarda gli MBAs, impressione confermata da quanto osservo nelle altre top-20 scuole di direzione aziendale USA.

D'altra parte, l'evidenza finale (ossia, del mercato) suggerisce che così deve essere. Se non fosse le innovazioni tecnologiche e scientifiche in quasi tutti i campi sarebbero il prodotto di persone non-USA, mentre così non è. Sia nel campo della ricerca pura, sia di quella applicata, sia in quello del business puro e duro, mi sembra che i cittadini USA non facciano così tremendamente male. Infine, ripeto, com'è che una percentuale enorme dei migliori, in quasi tutti i campi, continua a venire a studiare, insegnare, far ricerca e lavorare nelle università USA?

Infine, due piccole osservazioni sui dettagli, fra i molti che mi verrebbe da segnalare con matita rossa. Ho dato una rapida occhiata ai due papers che LuigiP ha indicato come corroboranti il fatto che gli studenti stranieri fanno "meglio" di quelli USA nei PhDs in economia USA. Non ho ricavato la stessa impressione: l'unico fatto che son riuscito a trovare è che gli stranieri tendono a finire leggermente prima, in media. Questo è coerente con 25 anni di osservazioni ed anche con l'esperienza personale. Motivo? A mio avviso uno banale: in media gli stranieri che fanno PhD in economia sono parecchio più vecchi (di 2-3 anni buoni) di quelli USA e frequentemente hanno un master in economia. Hanno quindi sia più preparazione, che idee più chiare, che più fretta. Quest'ultima, ti garantisco, conta. Se avessero confrontato invece l'età con cui gli stranieri finiscono il PhD a quella con cui lo finiscono gli americani, i nostri avrebbero trovato un risultato opposto, ne sono certissimo. L'evidenza abbonda e se necessario si possono cercare i dati statistici, ma a me bastano i dati personali. Tanto per dire, il mio coautore USA preferito ha un anno più di me ed ha finito il PhD sei anni prima di me! Il secondo coautore USA preferito ha tre anni più di me ed ha finito sette anni prima di me ... finché ero in graduate school avevo 4 assistant professors che mi insegnavano ed avevano o l'età mia o un anno di meno ... Se vi è altra evidenza nei papers che citi, fammela osservare perché l'ho mancata.

Qualcuno, credo sempre LuigiP, ha anche scritto, in risposta al mio invito a considerare il sample bias e la direzione dei flussi di migrazione intellettuale:

 

appunto, dovrebbe valere per tutti... Dal commento di AG:

 

 

Gli altri venivano da Cambridge, Oxford, Harvard,

Princeton, Stanford, Columbia, etc. [parla di UK, a quanto ho capito]

... sono rimasto parecchio basito dal basso livello di preparazione dei

miei compagni.

 

Dagli USA in UK emigrano le capre?

 

Dunque, non vorrei essere cattivo ma ... se hai fatto college a Princeton/Harvard/eccetera e vuoi fare economia e finisci a fare un Master in Inghilterra temo vi sia solo una ragione (fatte salve le strettamente personali, tipo ti piace la birra tiepida o hai il moroso a Londra) ... ed è che nei corsi di PhD dei posti da cui vieni non ti hanno preso. Capita che, facendo ammissioni, a volte ci si sbagli e si lascino fuori persone molto brave, per carità: certo che succede. Ma sono eccezioni. La grande massa di quelli che rimangono fuori sono in media studenti "più deboli" di quelli che vengono ammessi. Parola di Director of Admission da un decennio ...

 

 

Un veloce

riassunto del mio background e posizione:

laurea in fisica teorica a Londra PhD in fisica a Cambridge, ora faccio il quant a Morgan

Stanley.

 

In genere

sono d’accordo con Michele e Alberto.  C’é

una forte tendenza tra gli studenti italiani all’estero a darsi pacche sulle

spalle a vicenda e ridacchiare su quante capre si incontrino. A

questo punto vorrei citare la mia bravissima insegnante di chimica del liceo quando disse “Quando insegnavo ancora ad Avellino, c’era un

preside che distingueva tra materie culturali e materie non culturali, vi lasco

immaginare in che categoria finisse chimica.” In molti commenti che ho letto la

tendenza di fondo é simile.

 

Vorrei

sottolineare come  molti dei commenti

sono legati a Masters che secondo me sono poco indicativi. La grande differenza

tra la persona che ha solo imparato e la persona che si getta nell’azione in

qualsiasi campo é la differenza tra laurea e PhD. Chi fa un Master spesso (ci

sono eccezioni come il famoso Master “El Karoui” a Jussieu a Parigi) é

qualcheduno che vuole in fondo solo il pezzo di carta con su il nome di un’universitá

famosa perché spera che questo possa offrirgli qualche cosa di meglio.  Si raccoglie quello che si semina: se siamo

circondati da persone che vogliono solo il pezzo di carta saranno solo persone

di un certo tipo. Chi é veramente interessato e (come dice Michele) chi é stato

accettato in un buon PhD program, non va a fare un Master.

 

Gli stessi

commenti su I compagni capra non sarebbe altrettanto facile farli a livello PhD

perché a quel punto c’é la richiesta da parte delle grandi universitá che una

tesi di dottorato sia costituita da una serie di articoli pubblicati su riviste

di qualitá. Nella mia esperienza anche tra i recensori di grandi riviste ci

sono dei pirla, ma dire che sono tutti pirla é un po’ piú difficile (e quindi,

per estensione, continuare a dire che il tuo compagno che pubblica su Nature é

una capra é giá piú difficile).

 

Su I commenti

sugli undergradutes secondo me la cosa é piú sottile. L’obiettivo di un College anglosassone é di istruire, ma soprattutto di educare, cosa che in Italia non

esiste (non perché siamo meno educati ma semplicemente perché tanta della

nostra educazione viene da altre fonti come la famiglia, un paese in cui tiri

un sasso e colpisci un capolavoro, etc .). Per esempio nel sistema anglosassone

la grande universitá nella grande cittá é l’eccezione, perché l’idea é che gran

parte della tua educazione viene dall’ambiente. Certo che uno ha dieci settimane

per trimestre e poche ore alla settimana di lezione, ma questo é perché l’idea

é di permettere di passare tanto tempo fra compagni “bouncing ideas off each

other” (mi rendo conto che questo sia piu facile farlo in posti piccoli come Cambridge o Hannover che

a Londra) perché quello significa ottenere un’eduazione. Per I classicisti

italiani: la Scuola di Atene non é in fondo proprio questo?

Le lunghe

vacanze a cosa servono? Per la crescita personale é importante studiare ma

altrettano poter partire per due messi in Asia

e avere comunque tempo di fare un’internship di due mesi, eccono a cosa servono

quattro mesi di vacanze.

 

Lo studente

italiano esce che é un pasticcio di cose. É vecchio in etá e in spirito senza

avere l’esperienza della vecchiaia. Non ha sperimentato la “povertá” di essere

studente perché probabilmente viveva a casa e quindi non é pronto a saltare in

avanti (e in alto) una volta che entra nella

vita.  E infine, proprio per nascondere

le proprie mancanze fugge (anche perché gli é stato insegnato cosí) qualsiasi

tipo di valutazione oggettiva. Una valutazione oggettiva non esiste ovviamente,

ma questo non vuol dire che bisogna abbandonare qualsiasi tentativo di crearne una.

In questo senso il mercato e il concetto di peer review (che in fondo sono due

aspetti diversi della stessa cosa) sono le cose piú utili che ci siano.

 

Vorrei precisare un dettaglio per evitare che i laureandi che ci leggono poi se ne escano con idee sbagliate: non e' assolutametente vero che chi e' piu' intelligente in una disciplina fa il PhD, e gli scarti vanno a fare il Master. I due titoli hanno sbocchi completamente diversi: di solito chi fa il PhD e' interessato a fare ricerca nella corrispondente disciplina. Chi fa il Master vuole fare qualcos'altro.

 

 

Dato che ormai si è OT, mi permetto di porre un quesito "estraneo" allo scopo iniziale del post...

Dunque: dalle cose dette finora sulle lauree di livello Master (in Italia e all'estero) e sui PhD (in Italia e all'estero), emerge un quadro non troppo chiaro, ma che a grandi linee sembra dire che fino al livello Master sia meglio l'Italia (o quantomeno non peggio), e che invece in ambito di PhD e ricerca vi sia un primato degli USA, e comunque una debolezza forte da parte del sistema italiano rispetto a molti paesi stranieri.

Ma a questo punto mi chiedo (e riprendo in parte il commento di chemist): a che serve il Master? a che serve il PhD?

Se il mio obiettivo odierno è lo studio dell'economia perchè mi appassiona, e se per il mio futuro non vedo (almeno per ora) un PhD in Economics/attività di ricerca/carriera accademica, cosa potrò farmene di una laurea 3+2 in Economia (conseguita in Italia)? :-D

 

 

Direi che devi cominciare a pensare a cosa fare da grande e cominciare a fare delle scelte che ti portino in quella direzione. Se lo studio dell'economia ti appassiona e pensi di averne le capacita', ti invito a cambiare idea e a cercare di farlo anche come lavoro. Se questo e' l'obiettivo, un PhD e' assolutamente necessario, possibilmente in un dipartimento diciamo "top 20" negli Stati Uniti.

 

prima cosa: grazie per l'interessante spiegazione del sistema americano che, visto da qui viene spesso mitizzato o demonizzato a prescindere.

Riguardo l'abolizione del titolo di studi non concordo con voi ma, in ogni caso il vostro è un'interessante punto di vista.

Bell'articolo

 

 In questa interessante disputa nessuno fa riferimento ad un elemento cruciale: nelle università USA ed in quelle private italiane il CdA non è composto a soverchiante maggioranza da rappresentanti dei docenti. Lo stesso vale per moltissime università del Regno Unito.  Un CdA che non rappresenti solamente interessi corporativi mi sembra uno dei fattori più importanti per determinare una concorrenza, sia essa simulata (come vuole AFT) o reale (come propongono molti economisti)

 

credo sia anche per quello che si propone di trasformarle in fondazioni.

 

scusate se arrivo in ritardo, ho letto quasi tutti i commenti, e ho alcune considerazioni...

Posso dire di nutrire un certo scetticismo verso questa fede nella capacità del mercato di dare e raccogliere i giusti segnali e di fornirli agli attori.Credo che tutti qui condividano il successo delle università private nel portare la ricerca a livelli elevati. Cosa qualcuno sottolineava, da quanto mi sembra di capire, è che l'altra faccia della medaglia di questo sistema di supereccellenza sia un popolo di laureati che in Italia avrebbe problemi a passare gli esami della nostra Università.


Michele dice che esiste la possibilità di una selezione non solo inter ma anche intra universitaria,. Verissimo, ma voglio sottolineare che ciò sia possibile solo qualora chi deve assumere un laureato abbia una conoscenza molto vasta del mondo accademico. E questo è vero solo per il processo di selezione al dottorato. 

In qualsiasi azienda, a meno che non si possa vantare un premio nobel come professore, o altri casi molto limitati, chi si occupa del recruitment è totalmente estraneo a questa logica. O, per essere più corretti, è del tutto indifferente.

Un esempio? Beh, in finanza, negli USA, il processo di recruitment viene avviato nel mese di settembre di un anno per iniziare a luglio dell'anno successivo. In altre parole, un grad student di una scuola di public affairs o di un MBA ottiene il lavoro all'inizoi del suo secondo anno di corsi.

Ciò significa una cosa sola. Alla banca o istituzione che lo assume non importa proprio nulla di cosa studierà il loro prescelto nell'anno in corso.

Io traggo delle mie conclusioni. Per arrivare a lavorare in certi posti negli USA serve avere un master da una università prestigiosa. Questo master però non dà alcuna prova di competenze o skills o altro. Tant'è che su due anni di corso, alle aziende finanziarie non frega proprio nulla di cosa uno studente faccia nel secondo. Il fatto di essere iscritto ad un master ci dice solo che lo studente aveva buoni voti nell'undergrad (cosa che potevamo sapere già prima) e che era disposto ad accendersi un prestito o usare i soldi dei genitori per ottenere quel lavoro a Wall Street (cosa che non dà alcuna garanzia circa la sua volontà nè le sue capacità).

Le mie competenze di economia sono limitate rispetto a chi scrive su questo forum. Non mi sembra però sbagliare se se sottolineo che questo sistema è lungi dall'essere efficiente. Non mi sembra sia molto diverso da cosa in Italia si chiama "valore legale del titolo di studi". Solo che qui viene presentato in modo diverso.

Altro esempio? Il settore pubblico. Negli USA, per il settore pubblico in generale, molte posizioni privilegiate (PMF, ad esempio) sono aperte solo ai "grad students". Ergo: anche qui abbiamo il valore legale del titolo di studi. E anche qui,  a nessuno interessa un bel niente delle conoscenze acquisite nella grad schoolì. Infatti, il test per ottenere il PMF è un test di logica (tipo GRE, ma più facile). La barriera all'ingresso è il grad level. Il mercato cosa fa? Appunto, nulla. Noi sappiamo che alcuni studeni preferiscono continuare ad indebitarsi o usare i soldi dei genitori per poter accedere a determinati lavori. Ma che questi studenti ricevano una preparazione d'eccellenza non ci è dato sapere. Nè è di alcun interesse a chi li assume. 

Ovviamente qui qualcuno potrebbe sottolineare che il settore pubblico è un esempio debole per sostenere la mia tesi. Ebbene, torniamo al settore privato. Prima, giusto per dare un'altra utile indicazione, mi si lasci spendere due parole su un altro esame per la carriera nel settore pubblico, quello per la carriera diplomatica. In Italia è uno degli esami più difficili, negli USA le domande (viste da me di persona) sono di questo tipo: "qual è quell'Isola che è anche uno Stato e che fa parte del Continente Africano?", "Che parallelo divide la Corea del Nord dalla Corea del Sud?". Ebbene, per essere un sistema di istruzione di eccellenza, il dipartimento di stato ha delle aspettative significativamente basse relativamente alla preparazione dei candidati. In Italia, se il concorso diplomatico avesse queste domande non ci sarebbero bocciati.

Dicevo, torniamo al settore privato. Se il mercato, come Antonio spiega, fa il suo ruolo, e quindi dà alle aziende e alle organizzazioni internazionali delle informazioni utili, ossia che ci sono degli studenti preparati e motivati più di tanti altri, per quale motivo le Scuole di Public Affairs e le Business School spendono così tante risorse nel "career service"? L'università forma gli studenti. La reputazione di ottima preparazione dovrebbe da sola essere sufficiente a permettere agli studenti a trovare un lavoro.

Il problema è che il mercato è messo volentieri da parte. Perchè le Business Schools e le School of Public Affairs sanno che i loro studenti vogliono solo un lavoro. Punto. E quindi investono là dove è più remunerativo. E la buona formazione non è cosa garantisce agli studenti un lavoro.

Al primo incontro con il career service della mia università (quest'anno la seconda in Internazional Relations negli USA), il grande capo dice una cosa che mi lascia di sasso:

(cito a memoria) "lo so che avete anche da studiare, ma se volete trovare un lavoro, dovete partecipare alle attività del career service".

E quali erano le attività del career service? Udite udite: one-day lesso per come usare il pacchetto di word. Lezioni di un giorno per imparare ad usare stata e altre cose simili.  

Concludo. Michele giustamente chiede se gli studenti che vanno negli USA a studiare siano stupidi. La mia risposta è semplice: no. Ma la domanda è esattamente la stessa che si fa quando un consumatore compra un portafoglio di Gucci: perchè compri quello, quando potresti averne uno simile che pero' costa t30 volte di meno? Semplice: perche' uno e' da figo, l'altro no. La stessa cosa vale per l'undergrad, e i master. Non ce ne frega del contenuto, basta che la scatola sia bella.

Se si vuole trovare un lavoro in una organizzazione internazionale piuttosto che in qualche grande multinazionale o banca d'affari, aiuta molto avere un titolo di studio da una prestigiosa università americana (it is fucking necessary, direbbe qualche mio amico). Il paradosso, però, è che questo requirement non è dovuto alla migliore preparazione che qui viene data, ma semplicemente da una questione di marchio e dal lavoro dei vari career offices... 

 

  

Mauro non so nemmeno da dove cominciare... mi pare che fai molta confusione.

 

Io traggo

delle mie conclusioni. Per arrivare a lavorare in certi posti negli USA

serve avere un master da una università prestigiosa. Questo master però

non dà alcuna prova di competenze o skills o altro. Tant'è che su due

anni di corso, alle aziende finanziarie non frega proprio nulla di cosa

uno studente faccia nel secondo. Il fatto di essere iscritto ad un

master ci dice solo che lo studente aveva buoni voti nell'undergrad

(cosa che potevamo sapere già prima) e che era disposto ad accendersi

un prestito o usare i soldi dei genitori per ottenere quel lavoro a

Wall Street (cosa che non dà alcuna garanzia circa la sua volontà nè le

sue capacità).

 

 

Le mie

competenze di economia sono limitate rispetto a chi scrive su questo

forum. Non mi sembra però sbagliare se se sottolineo che questo sistema

è lungi dall'essere efficiente. Non mi sembra sia molto diverso da cosa

in Italia si chiama "valore legale del titolo di studi". Solo che qui

viene presentato in modo diverso.

 

 

 

Mauro sei completamente fuori strada secondo me... Prima cosa: se fosse vero che alle aziende non interessa cosa imparano le persone che poi vanno ad assumere, come spieghi il fatto che non vadano direttamente a prenderli dall'undergrad? li prenderebbero due anni più giovani e con una financial situation meno pesante, quindi pronti ad accettare un salario più basso. Non lo fanno: eppure basterebbe, secondo la tua logica. Dobbiamo concludere quindi che a qualcosa il master o il MBA serve, in termini di formazione. Non solo: l'ammissione al master già di per sè è una scrematura, un processo di selezione che ammette solo i migliori tra migliaia di applicanti, e come già detto l'azienda questo processo non lo deve pagare, quindi tanto di guadagnato. Terzo: gli MBA/master non sono evidentemente tutti uguali, altrimenti sarebbbe equivalente per una persona farlo a Harvard o al peggior community college, non credi? Non è solo questione di marchio che ti mettono addosso, è anche questione che, per schifose che siano le lezioni, la probabilità che impari qualcosa seguendo una lezione di economia monetaria da Bob Lucas è strettamente maggiore che se la lezione te la fa Antonio Mele. Quarto: per molti lavori probabilmente non serve tutta la formazione teorica che l'università italiana da, e magari ne serve una di tipo diverso da quella che l'università italiana da. I miei amici ingegneri sanno la fisica e la matematica quasi come un fisico, ma sono usciti dall'università senza saper usare MathCad, alcuni senza neanche avere mai aperto Excel: hanno quindi dovuto spendere soldi e/o tempo ad imparare per conto loro. Può darsi che nel sistema americano si vada nell'estremo opposto, ma nota che quello che serve per il lavoro non lo decide l'università, lo decide l'azienda: nel momento in cui Harvard sfornerà laureati o MBA non in grado di fare il lavoro che le aziende richiedono, allora le aziende prenderanno laureati o MBA di Yale o chessoio.

Infine, nota che tale sistema È TOTALMENTE DIVERSO DAL VALORE LEGALE DEL TITOLO DI STUDIO. Il valore legale del titolo di studio dice che tutte le lauree e i master sono identici, mentre questo sistema di mercato si basa esattamente sul fatto che il master o la laurea di harvard sono cose diverse da quelle di canicattì.

 

Dicevo,

torniamo al settore privato. Se il mercato, come Antonio spiega, fa il

suo ruolo, e quindi dà alle aziende e alle organizzazioni

internazionali delle informazioni utili, ossia che ci sono degli

studenti preparati e motivati più di tanti altri, per quale motivo le

Scuole di Public Affairs e le Business School spendono così tante

risorse nel "career service"? L'università forma gli studenti.

La reputazione di ottima preparazione dovrebbe da sola essere

sufficiente a permettere agli studenti a trovare un lavoro.

Il

problema è che il mercato è messo volentieri da parte. Perchè le

Business Schools e le School of Public Affairs sanno che i loro

studenti vogliono solo un lavoro. Punto. E quindi investono là dove è

più remunerativo. E la buona formazione non è cosa garantisce agli

studenti un lavoro.

 

Di solito il career service è sponsorizzato in parte proprio dalle aziende. è un servizio che l'università da al suo alunno (e quindi è uno dei criteri che tu pesi prima di fare application: come ti aiutano a trovare lavoro), e un costo in meno per l'impresa, che quindi contribuisce volentieri. La buona formazione è condizione necessaria ma non sufficiente. A parità di formazione (e di altre caratteristiche), la tua probabilità di trovare un buon lavoro dipenderà molto dal career service.

 

 

Concludo.

Michele giustamente chiede se gli studenti che vanno negli USA a

studiare siano stupidi. La mia risposta è semplice: no. Ma la domanda è

esattamente la stessa che si fa quando un consumatore compra un

portafoglio di Gucci: perchè compri quello, quando potresti averne uno

simile che pero' costa t30 volte di meno? Semplice: perche' uno e' da

figo, l'altro no. La stessa cosa vale per l'undergrad, e i master. Non

ce ne frega del contenuto, basta che la scatola sia bella.

 

Guarda che stai sostenendo che il laureato di Harvard e il laureato del communty college sono identici sotto il profilo della formazione; stai quindi sostenendo che i responsabili delle Human Resources di tutte le aziende del mondo che preferiscono il laureato di Harvard a quello del community college sono un branco di deficienti che badano solo alla scatola. Mah... possibile che non ce ne sia nemmeno uno che abbandoni questa strategia fallimentare, se è tanto conveniente prendere quello del community college che gli costa trenta volte meno e gli fa lo stesso lavoro? Altra cosa: la scatola conta, è vero, ma per contare deve continuare ad essere bella. Se le aziende si rendono conto che Harvard sta sfornando solo gente ignorante e inetta, si spostano su altre università per reclutare, e la scatola Harvard diventa una scatola meno bella (si chiama reputation, dai che non te lo devo raccontare io...). Affinchè questo non succeda, Harvard deve continuare a stare un gradino sopra le altre. Ergo, quella che APPARE una bella scatola, per restare tale deve anche ESSERE una bella scatola, nel senso di avere dentro qualcosa di buono.

Tra l'altro, te lo devo proprio dire: comparare e prendere come benchmark la preparazione tua e di tuo fratello rispetto quella del laureato medio della Gloriosa Università del Popolo di Torino mi pare veramente poco scientifico, voi siete largamente al di fuori delle due deviazioni standard dalla media ;-)

 

 

Non è una cosa direttamente inerente al topic ma non mi sono trattenuto... Cliccare qui per scoprire come, secondo la Gelmini, la meritocrazia equivalga alla penalizzazione dei meritevoli.

Non ho parole, è uno di quei provvedimenti di cui solo un governo italiano (in particolare quello di BS, ma non solo) sarebbe capace...

 

 

AK, puoi rimettere il link? Non l'hai messo, meglio hai messo una specie di anchor che rinvia alla nostra pagina. Sarei curioso di leggere la cosa a cui fai riferimento. Grazie.

 

Strano, mentre scrivevo il post sembrava funzionare, poi in fase di pubblicazione si è rotto il link...

È questo:

ansa.it/opencms/export/site/notizie/rubriche/daassociare/visualizza_new.html_99279206.html

In sostanza, hanno abolito il premio di 25 punti per i maturati con il massimo dei voti per le prove di accesso alle facoltà a numero chiuso... 

mah a me sembra invece che quei punti in piu tendevano a premiare i licei facili (sia in termini geografici che in termini di contenuti), non trovi? la maturità (e ancor meno il liceo) non è un SAT dove le conoscenze vengono valutate in modo identico per tutti i candidati.

 

Massi', queste son pezzette che mettono e tolgono da un anno all'altro, come gli esami di riparazione a settembre. Di fatto fanno tanto rumore, la gente ne parla, ci si schiera come fosse questione di vita e di morte ma in buona sostanza non servono a nulla e nulla cambia.

 

 

Insomma, non ho particolari posizioni su cui arroccarmi, volevo solo dire che quando una ministra proclama di lavorare per la meritocrazia e poi toglie i punti ai meritevoli io ci vedo una notevole contraddizione...

Il discorso sui test d'ammissione è ancora un'altra cosa: io sarei contrario in assoluto (la selezione deve avvenire in itinere, bocciando nel corso del primo anno un po' di fannulloni che si iscrivono all'Università tanto per provare), però, visto che esiste, secondo me i 25 punti andavano dati ai meritevoli. Una soluzione intermedia è far valere il titolo di maturità solo nella stessa regione in cui lo si è ottenuto: così i "meritevoli" calabresi avranno facilitazioni per l'Università di Arcavacata, ma non per la Bocconi.

Esattamente questo sistema vige in Germania (anche se con storture venate di razzismo e non sempre fondate): ad esempio, so che nelle università della Baviera e del Baden-Würtemberg gli studenti della ex-DDR vengono ammessi con un esame apposito (anche se spesso sono i più bravi).

 

 Una soluzione intermedia è far valere il titolo di maturità solo nella

stessa regione in cui lo si è ottenuto: così i "meritevoli" calabresi

avranno facilitazioni per l'Università di Arcavacata, ma non per la

Bocconi.

 

Questa mi sembra davvero pura follia.

 

 

Artemio, mi pare che non condividiamo proprio gli assunti base, quindi non so quanto sia utile continuare a discuterne... Ti spiego a cosa serve avere uno screening all'ingresso, poi tu trai le tue conclusioni. 

Come qualsiasi attività umana soggetta a limiti di capacità produttiva (il numero di posti nelle aule è finito, il numero di docenti è finito, il numero di laboratori è finito, e via cantando), anche l'università deve fare rationing. Per lo stesso principio per cui al cinema non ti fanno entrare quando arrivi tardi e non ci sono più posti in sala, così all'università devono ammettere solo un numero limitato di persone. La capacità produttiva si può adattare nel tempo ad un cambio permanente di domanda, difficilmente si adatta nel breve periodo. Ergo, l'università può ammettere solo un numero finito di studenti. A questo punto, può usare il criterio del cinema: first comers served first. Ma concorderai con me che un cinema non è una università: mentre per il cinema i clienti sono tutti uguali e la loro conoscenza della cinematografia non influenza la performance del film che il cinema proietta, invece la qualità dello studente influenza pesantemente la performance sia nella carriera accademica che nel mondo del lavoro della università stessa. Per questo, l'università deve selezionare i migliori, quelli che hanno maggiori probabilità di concludere con successo il corso di studi e di entrare nel mercato del lavoro con successo. La selezione può essere fatta con infiniti criteri, ciascuno con i suoi limiti e i suoi vantaggi, ma deve essere fatta, proprio perchè la capacità produttiva è limitata. La soluzione non è fare lo screening DOPO l'ammissione perchè a quel punto hai sprecato capacità produttiva per insegnare la matematica a delle capre mentre potevi insegnarla a gente con maggiore talento. 

Infine: valenza solo regionale del titolo di maturità? ma scherzi vero? a parte che sarebbe illegale, ma sorvoliamo. A parte che come già detto i voti di maturità non sono indicativi nemmeno nello stesso istituto per classi diverse. A parte queste quisquilie, l'effetto sarebbe una segregazione universitaria assolutamente inefficiente: ti dico solo che, ai miei tempi, in bocconi il 40% degli studenti proveniva dalla lombardia, il resto da altre regioni. Lo stesso vale sono sicuro per altri atenei come La Sapienza e bologna, per certo, ma tanti altri. Di fatto tu vorresti aumentare le barriere per questi studenti a scegliersi l'università che preferiscono a parità di altre condizioni, a me pare davvero una fesseria, limita gli incentivi delle università a competere al di fuori della regione , tanto per cominciare. e varie altre conseguenze che non sto a raccontarti. di nuovo, a te le conclusioni.

 

Metto qui, anche se forse ha poco a che vedere con il tema di questo post, la segnalazione di un cortese lettore.

Come esempio di "la laurea non serve a nulla" mi sembra veramente notevole, quasi imbattibile! 

 

Con la laurea in ingegneria possono riparare la sbarra se non si alza.

 

riporto il testo della bozza del decreto legge (grassettando le parti importanti secondo me):

www.cittadinolex.kataweb.it/article_view.jsp

Art.

(Facoltà di trasformazione in fondazioni delle università)

1. In attuazione dell’articolo 33 della Costituzione, nel rispetto

delle leggi vigenti e dell’autonomia didattica, scientifica,

organizzativa e finanziaria, le Università pubbliche e le Università

libere legalmente riconosciute possono deliberare la propria

trasformazione in fondazioni di diritto privato. La delibera di

trasformazione è adottata dal Senato accademico a maggioranza assoluta

ed è approvata con decreto del Ministro dell’istruzione,

dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro

dell’economia e delle finanze. La trasformazione opera a decorrere dal

1° gennaio dell’anno successivo a quello di adozione della delibera.

2.

Le fondazioni universitarie subentrano in tutti i rapporti attivi e

passivi e nella titolarità del patrimonio dell’Università. Al fondo di

dotazione delle fondazioni universitarie è trasferita, con decreto

dell’Agenzia del demanio,  la proprietà dei beni immobili già in uso

alle Università trasformate.

3. Gli atti di trasformazione e di

trasferimento degli immobili e tutte le operazioni ad essi connesse

sono esenti da imposte e tasse.

4. Le fondazioni universitarie

sono enti non commerciali (aggiunta mia: cioè enti diversi dalle società che non svolgono attività di impresa in modo prevalente o esclusivo)e perseguono i propri scopi secondo le

modalità consentite dalla loro natura giuridica e operano nel rispetto

dei principi di economicità della gestione. Non è ammessa in ogni caso

la distribuzione di utili, in qualsiasi forma. Eventuali proventi,

rendite o altri utili derivanti dallo svolgimento delle attività

previste dagli statuti delle fondazioni universitarie sono destinati

interamente al perseguimento degli scopi delle medesime.

5. I

trasferimenti a titolo di contributo o di liberalità a favore delle

fondazioni universitarie sono esenti da tasse e imposte indirette

diverse dall’I.V.A. e da diritti dovuti a qualunque altro titolo e sono

interamente deducibili dal reddito del soggetto erogante. Gli onorari

notarili relativi agli atti di donazione a favore delle fondazioni

universitarie sono ridotti del 90 per cento.

6. Contestualmente

alla delibera di trasformazione vengono adottati lo statuto e i

regolamenti di amministrazione e di contabilità delle fondazioni

universitarie, i quali devono essere approvati con decreto del Ministro

dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il

Ministro dell’economia e delle finanze. Lo statuto può prevedere

l’ingresso nella fondazione universitaria di nuovi soggetti, pubblici o

privati.

7. Le fondazioni universitarie adottano un regolamento di

Ateneo per l’amministrazione, la finanza e la contabilità, anche in

deroga alle norme dell’ordinamento contabile dello Stato e degli enti

pubblici, fermo restando il rispetto dei vincoli derivanti

dall’ordinamento comunitario.

8. Le fondazioni universitarie hanno

autonomia gestionale, organizzativa e contabile, nel rispetto dei

principi stabiliti dal presente articolo.

9. La gestione

economico-finanziaria delle fondazioni universitarie assicura

l’equilibrio di bilancio. Il bilancio viene redatto con periodicità

almeno triennale. Resta fermo il sistema di finanziamento pubblico.

10.

La vigilanza sulle fondazioni universitarie è esercitata dal Ministro

dell’istruzione, dell’università e della ricerca di concerto con il

Ministro dell’economia e delle finanze. Nei collegi dei sindaci delle

fondazioni universitarie è assicurata la presenza dei rappresentanti

delle Amministrazioni vigilanti.

11. La Corte dei conti esercita

il controllo generale sulla gestione delle fondazioni universitarie e

riferisce annualmente al Parlamento.

12. In caso di gravi

violazioni di legge afferenti alla corretta gestione della fondazione

universitaria da parte degli organi di amministrazione o di

rappresentanza, il Ministro dell’istruzione, dell’università e della

ricerca nomina un Commissario straordinario con il compito di

salvaguardare la corretta gestione dell’ente ed entro sei mesi da tale

nomina procede alla nomina dei nuovi amministratori dell’ente medesimo,

secondo quanto previsto dallo statuto.

13. Fino alla stipulazione

del primo contratto collettivo di lavoro, al personale amministrativo

delle fondazioni universitarie si applica il trattamento economico e

giuridico vigente alla data di entrata in vigore della presente norma.

14.

Alle fondazioni universitarie continuano ad applicarsi tutte le

disposizioni vigenti per le Università statali in quanto compatibili

con il presente articolo e con la natura privatistica delle fondazioni

medesime.

 

 

pieno di punti di domanda.

http://www.lavoce.info/articoli/pagina1000470.html

". Sembrerebbe – ma il condizionale è d’obbligo – che, come è del tutto ragionevole, la trasformazione comporti la piena “contrattualizzazione” del personale docente, con conseguente disapplicazione dell’attuale stato giuridico."


"...alla già ricordata previsione che resta fermo il sistema di finanziamento pubblico” è stata aggiunta la seguente specificazione “a tal fine, costituisce elemento di valutazione, a fini perequativi, l’entità dei finanziamenti privati di ogni fondazione”. Il che significa se intendiamo bene, che quanto è maggiore l’apporto privato tanto minore sarà il contributo pubblico."

 

 

http://www.corriere.it/cronache/08_giugno_24/cattedra_docenti_3b5d3e60-41b7-11dd-b0b2-00144f02aabc.shtml

...non fosse che finira' in un nulla di fatto, come e' logico che sia.

 

PS: mi pare che AFT avesse gia' accennato alla cosa, ma non ritrovo il commento...

 

Articolo del Riformista sul nepotismo in universita'  (fonte: Dagospia)

 

Vedere i figli sistemati, con un posto di lavoro sicuro, è una legittima ambizione di tutti i genitori. Anche dei professori universitari, ovviamente. Quello che è meno ovvio è che sono innumerevoli i casi di figli o familiari di professori che vincono un concorso nella stessa materia, magari nella stessa università e spesso nella stessa facoltà dei genitori.


SARDEGNA. Antonella e Cinzia Balestrieri, figlie di Angelo, già preside della facoltà di Medicina di Cagliari, sono sistemate nella stessa facoltà un tempo presieduta da papà.


DALLA SARDEGNA ALLA PUGLIA. Antonio Quaranta, preside della facoltà di Medicina dell'Università di Bari, ha il figlio Nicola tra i suoi professori. Ma non è nulla in confronto a quanto succede a Economia. Giovanni Girone, professore di statistica, ha tra i suoi colleghi la moglie Giulia Sallustio Girone e i due figli Gianluca e Raffaella e il di lei marito Francesco Campobasso. Una riunione della famiglia Massari, poi, non può che farsi in facoltà. Dove ce ne sono già sei Il professor Giovanni Tatarano, dal canto suo, a Economia forse ci passa anche il Natale: lui e i suoi due figli, Marco e Maria Chiara, sono già lì: basta far arrivare la signora…


Anche la famiglia Dell'Atti sta messa bene: 4 rappresentanti, mentre i Caputi Jambrenghi, poveretti, sono solo due. E le cose non vanno molto meglio a Veterinaria. Sempre a Bari, poi, c'è l'università privata Lum-Jean Monnet, il cui rettore, Emanuele Degennaro, dal padre ha ereditato la proprietà dell'ateneo e il titolo di Magnifico, nonostante sia solo un professore a contratto. Sul sito della Crui - sarà solo una coincidenza - il suo curriculum appare non disponibile. I maligni potrebbero sospettare che sia inesistente. Uno degli allievi del professor Girone, Corrado Crocetta, poi ha superato il maestro. Era da poco diventato professore a Foggia che la moglie Laura Antonucci Crocetta ha vinto un posto di ricercatore nella sua stessa facoltà. Pare che abbiano le scrivanie nella stessa stanza.


CALABRIA. L'ex rettore dell'Università della Calabria, Giuseppe Frega, ha il figlio ricercatore nella sua stessa facoltà, mentre l'ex preside di Lettere, Franco Crispini, da poco pensionato, ha lasciato all'Università non solo i ricordi di una vita, ma anche le due figlie, Ines e Alessandra.

EMILIA ROMAGNA. Non si salva neanche l'antico ateneo bolognese, dove il figlio del rettore Calzolari ha trovato posto come professore straordinario, anche se, pare, sia stato solo danneggiato dall'essere "il figlio di". A sostenerlo, però, non sono i colleghi o una commissione di esperti, ma l'illustre genitore. Il rettore di Modena, Gian Carlo Pellacani, certo non sente la mancanza dei figli anche se vivono fuori di casa: può incontrarli quando vuole all'università.


DALL'EMILIA ROMAGNA ALLA TOSCANA. Il passo è breve e le assonanze molte. I figli del rettore e del prorettore dell'Università di Firenze, Marinelli e Surrenti, sono ricercatori nella stessa facoltà dei genitori. Ed è ricercatrice nella facoltà di papà anche la figlia del preside di Medicina Gensini.

Le cose non vanno meglio a Siena: Gian Paolo e Federica Pessina, padre e figlia, insegnano a Farmacia, dove si nota anche la presenza, come dottorandi, dei figli del professor Maurizio Botta. La cattedra di anatomia della facoltà di Medicina, poi, è da tre generazioni in mano alla famiglia Bertelli e il professor Sergio Mancini ha nel suo stesso dipartimento il figlio. L'ex rettore Piero Tosi e il figlio Gian Marco, invece, lavorano in due diversi dipartimenti. Tranquilli, la facoltà è la stessa.


LAZIO. Alla Sapienza lavorano le due figlie del rettore Renato Guarini. Il collega che guida Tor Vergata, Alessandro Finazzi Agrò, ha in facoltà il figlio e qualche nipote. Sempre a Tor Vergata, il preside di Medicina, Renato Lauro, e il professore di biochimica Giorgio Federici, poveretti, si devono accontentare di godere della compagnia di un solo discendente diretto.


DAL LAZIO ALLA CAMPANIA. Anche qui il passo è breve e la realtà molto simile. A Napoli, infatti, sono stati addirittura gli studenti a denunciare la situazione, organizzando il "Barone day". Secondo una Confederazione di studenti sarebbero 105 i casi di legami familiari tra docenti all'interno della Federico II. I professori Sciarelli, padre e figlio, insegnano economia aziendale, Stefano Ecchia, beato lui, può seguire passo per passo la carriera della figlia Bruna, ricercatrice nel suo dipartimento. Gaetano Motta, invece, ha ereditato la cattedra di otorinolaringoiatria un tempo di papà Giovanni, nel 2001 condannato proprio per avere favorito il figlio, diventato ordinario a soli 32 anni. E, nonostante ciò, ancora al suo posto. Un altro figlio, Sergio, almeno ha cambiato dipartimento. A Caserta le cose vanno un po' diversamente: alla Jean Monnet, spopolano i figli di politici. Ma questa è un'altra storia.


SICILIA. A Messina l'ex preside della facoltà di veterinaria Battesimo Macrì ha in facoltà il figlio Francesco. Mentre a Palermo la facoltà di Agraria è tutta una grande famiglia. Al dipartimento di Economia dei sistemi agroforestali, 10 professori su 19 sono parenti o affini. Il preside della facoltà, Salvatore Tudisca, ha tra i suoi professori la moglie Anna Maria Di Trapani, mentre Antonino Bacarella, ordinario di economia agroalimentare, guarda al futuro, ai giovani, e ha tra i suoi colleghi la figlia Simona e il nipote.

Questa è l'Italia e l'elenco potrebbe essere molto molto più lungo…

 

Il fenomeno del nepotismo nelle università italiane (e specialmente nelle facoltà mediche) è grave, ma l'articolo su Il Riformista è pessimo. Le informazioni sono incomplete e sembrano mirate. Ad esempio non si parla della splendida carriera nella stessa facoltà della moglie e della figlia del preside della facoltà di medicina de La Sapienza, ma si insiste sulle figlie del rettore, che ad età piuttosto avanzata hanno posizioni assolutamente marginali in una facoltà molto lontana da quella che per anni il rettore ha presieduto. Che i figli dei professori abbiano maggiori probabilità di fare i professori è un fenomeno naturale, si verifica anche per i figli dei magistrati, dei diplomatici e dei militari. Edoardo Amaldi era figlio e padre di professori universitari . Ettore Majorana proveniva da una famiglia di scienziati (il più noto Quirino Majorana), il matematico Terracini (fratello del politico) ha avuto un figlio epidemiologo, che ha avuto una figlia matematica. Il grande matematico Vito Volterra ha avuto un figlio professore di diritto romano. Per non parlare dei numerosissimi casi stranieri. Ho dimenticato ad esempio di menzionare i Bernoulli. Il guaio è che in Italia i padri sono spesso nelle condizioni di aiutare la carriera dei figli e che ne approfittano. Negli SU il fenomeno del nepotismo accademico non esiste, ma esiste il concetto "nepotism", proprio perché sono state adottate (non so se come prassi o negli statuti delle università) regole per evitare il nepotismo: due parenti stretti non possono essere impiegati dalla stessa università. Queste regole, fino agli anni settanta, quando cessarono di applicarsi ai coniugi sotto la spinta del movimento femminista, impedivano, ad esempio, a marito e moglie di insegnare nella stessa università. Si ricorda ad esempio il caso di due famosissimi statistici (di sesso diverso) costretti a "vivere nel peccato" perché se si fossero sposati uno dei due avrebbe dovuto licenziarsi da Berkeley (quando ero lì nel 1969-70, la signora era chair del dipartimento di statistica, ed il marito se non in pensione era prossimo alla pensione). Sono certo che le "nepotism rules" si applicano ancora a padri  e figli. Non si applicano più ai coniugi perché le femministe hanno sostenuto con successo che era il coniuge "più debole" ad essere espulso dal sistema universitario per consentire al maschio di far carriera. Regole simili nel pubblico impiego italiano sono state travolte dall'evoluzione delle normative e dei costumi. Per l'università sarebbe forse sufficiente stabilire che due parenti stretti non possano essere impiegati dalla stessa sede universitaria né per sedi diverse come docenti dello stesso settore scientifico. D'altra parte, debbo dire che quasi tutti i matematici figli di matematici che conosco sono molto più bravi dei genitori, in questo seguendo la regola generale: i matematici italiani più giovani sono in genere più bravi dei più vecchi.

 

Vorrei sintetizzare alcuni punti sui quali si è consolidato il mio convincimento:

1) una delle prime caratteristiche del sistema americano che andrebbe adottata in Italia, prima di pensare ad una privatizzazione del sistema universitario, è l'obbligo per i docenti universitari di non svolgere altra attività esterna di tipo professionale. Nelle facoltà di giurisprudenza, il problema è particolarmente sentito. La maggior parte dei docenti svolge la professione forense, dedicando una parte minima ed insufficiente del loro tempo all'attività didattica ed a quella di ricerca. Spesso, anzi, dopo aver vinto il concorso da associato, i docenti smettono addirittura di pubblicare. Ciò comporta la traslazione del carico didattico sui ricercatori, dottorandi e, più in generale, collaboratori, che vedono sottratto molto del loro tempo alla ricerca.

2)sarebbe opportuno obbligare i docenti a trascorrere un minimo di ore al mese in facoltà. Spesso addirittura ricercatori di ruolo, ormai confermati ed un po' datati, si presentano in facoltà solo un paio di volte al mese. Questo è vero spreco di danaro pubblico.

3) I contratti a tempo determinato non risolvono il problema. Come è noto a tutti, gli affidamenti vengono deliberati ogni anno dal consiglio di facoltà: per gli affidamenti a contratto, il consiglio solitamente si limita a ratificare la proposta di un docente di ruolo senza chiedersi nemmeno chi è il soggetto a cui il corso viene affidato. Difficile che vengano fatte obiezioni: oggi ti appoggio io, domani magari mi appoggi tu. Ma chi controlla la qualità del soggetto incaricato?

4) Perchè non è possibile licenziare quei docenti che non lavorano, non fanno ricerca, non pubblicano? A proposito, ultimamente mi pare di notare che si stia creando un meccanismo di selezione avversa: docenti assenteisti vengono messi su corsi di prestigio come meccanismo di stimolo al lavoro, mentre coloro che lavorano con costanza vengono "emarginati" o relegati a ruoli di secondo piano perchè tanto sono una garanzia comunque di efficienza, nella piena consapevolezza che svolgeranno i compiti loro assegnati. Premiamo e stimoliamo dunque i fannulloni!

Prima di passare ad una riforma drastica, dagli esiti imprevedibili, magari riflettiamo sul sistema attuale e vediamo se proprio non si può fare niente.

 

tutte le cose che dici sono vere non solo a giurisprudenza;

"La maggior parte dei docenti svolge la professione forense,

dedicando una parte minima ed insufficiente del loro tempo all'attività

didattica ed a quella di ricerca. Spesso, anzi, dopo aver vinto il

concorso da associato, i docenti smettono addirittura di pubblicare.

Ciò comporta la traslazione del carico didattico sui ricercatori,

dottorandi e, più in generale, collaboratori, che vedono sottratto

molto del loro tempo alla ricerca." Questa in particolare.

 

svolgere attivita' esterne non e' il problema: il problema e' quali attivita' interne uno non fa. cosa uno fa nel suo tempo libero (se il giardiniere nel suo giardino (gratis), la denuncia dei redditi per se (gratis), o la denuncia del reddito di altri (a pagamento), is nobody's business, a meno che non implichi una riduzione le attivita' di didattica o di ricerca.

Tra l'altro il lavoro universitario ha un output molto piu' facilmente misurabile di altre attivita' professionali. Numero di lezioni fatte, quantita' di lamentele degli studenti, qualita' dell'insegnamento svolto; piazzamento accademico degli studenti di dottorato; quantita' e qualita' degli articoli e/o libri pubblicati (tutte queste cose sono facilmente misurabili da esperti che restino anonimi: chiacchiere con 10 studenti, presenza in una lezione, lettura del cv e dei lavori, ecc): datemi tre ore e riesco a classificare un docente in una di quattro categorie (ottimo, buono, mediocre, pessimo). Chi non produce venga licenziato (o penalizzato).

Misuriamo la performance sulla base dell'output, non degli input, che invece, sono difficilmente quantificabili. La presenza in facolta' vuole dire poco, se in ufficio uno legge il giornale, o visita siti web, o fa le denunce dei redditi dei clienti. Personalmente, io faccio ricerca molto meglio a casa che in ufficio (vero, rispetto a un biologo ho il vantaggio di non aver bisogno di laboratori).  

 

Molte univ 

 

parto con alcune banalità:

Nell'università italiana gli studenti, "acquirenti" del servizio didattica, non contano praticamente nulla. non pagano se non in minima parte per il servizio che ricevono (e di cui percepiscono poco il costo opportunità)-no representation without taxation (:-, non sono in maggioranza disposti a muoversi dalla sede sotto casa, anche perchè non sono supportati da borse di studio e servizi adeguati, e sono scoraggiati da un mercato del lavoro poco dinamico, e in cui ha un peso notevole il settore pubblico (in cui vale il famoso "valore legale"..). Lo stato, che finanzia il servizio, paga in in pratica in base alla quantità, un tanto al chilo. In poi effetti la taxation c'è eccome, ed il sistema costa, solo che a coloro a cui dovrebbe interessare di più viene tolta la voce, ed i costi si perdono nel mare magnum della spesa pubblica, con l'elettorato che nel complesso più o meno se ne frega.

Per quanto riguarda l'altro servizio offerto dall'università, la ricerca, non mi dilungo dato che si sa come sono finiti i flebili sforzi per valutarla e tenerne conto in sede di finanziamento. 

Ora è forse una "conseguenza imprevedibile" il fatto che il sistema universitario che fornisce questi servizi più o meno senza concorrenza, dati questi incentivi, sia la palude che è e che funzioni per la gran parte secondo il modello cosca? Il miracolo, piuttosto, è che nonostante tutto ci siano nell'università pubblica persone in gamba che tengono veramente al loro lavoro, e relativamente tante oasi che tutto sommato funzionano.

Pensare che basti fare un pò di "fine tuning" legislativo mi sembra troppo ottimistico. E penso che obbligare magari i professori a stare a giocare al solitario in ufficio per qualche ora in più alla settimana avrebbe ben poco effetto, se non addirittura allontanerebbe qualcuno bravo, che ha incarichi importanti nel settore privato ma porta in aula competenze meno stantie dello standard, oltre magari a qualche opportunità di avere un buon inserimento nel mercato del lavoro per gli studenti tramite networking. 

La mia opinione è che per un sistema così non si può davvero far niente o molto poco. O si cambiano radicalmente gli incentivi in gioco, con una bella dose di concorrenza, oppure ci teniamo l'università che abbiamo, e forse meritiamo.

ciao (:

 

 

 

una delle prime caratteristiche del sistema americano che andrebbe adottata in Italia ... è l'obbligo per i docenti universitari di non svolgere altra attività esterna di tipo professionale.

 

La mia esperienza mi porta a dire quasi il contrario. Penso che spesso per gli studenti possa essere meglio avere in cattedra un professionista navigato, piuttosto che un ricercatore mediocre. In ogni caso, avere la possibilita' di confrontarsi con persone dai profili e dai punti di vista diversi e'  una cosa che arricchisce. Il vero problema mi sembra la qualita' intrinseca delle persone che salgono in cattedra, non il loro percorso professionale. 

Poi, sono d'accordo, e' importante assicurarsi che l'impegno didattico venga preso seriamente, dedicando ad esso tutto il tempo necessario.

 

Anch'io non mi interesso di ciò che fanno i miei colleghi nel tempo libero o come professione esterna. Mi interessa però se i loro hobbies e la loro professione li portano ad una produzione scientifica pari a zero negli ultimi nove anni, a costringere gli studenti a seguire tre/quattro ore di fila di lezione della stessa materia per poter venire in università non più di due volte alla settimana, a fare viaggi di ore per seguirli nelle loro località di vacanze per avere un colloquio sul lavoro di ricerca per la tesi, per non continuare con altro...

Anche io, a dispetto dei mie colleghi delle materie scientifiche, posso anche lavorare a casa dove spesso lavoro meglio che in facoltà. Tuttavia, credo anche nel mio ruolo educativo e dell'aspetto didattico del mio lavoro: l'obbligo di garantire almeno trenta ore al mese di presenza in dipartimento per me non sarebbe un problema, vi posso assicurare che per molti altri sarebbe una vera spada di Damocle.

E veniamo all'aspetto del problema della coniugazione tra aspetto professionale ed attività accademica. In una facoltà come quella di giurisprudenza questo aspetto è particolarmente sentito. Posso assicurare che se è vero che un ricercatore mediocre è meglio che non salga in cattedra, è altrettanto vero che è bene evitare anche certi avvocati. Notai, magistrati, avvocati, svolgono nella realtà compiti molto diversi. E' chiaro che questo aspetto condiziona, inevitabilmente, l'attività didattica. Non è un bene che gli studenti studino una materia solo dalla prospettiva, ad esempio, dell'avvocato. La facoltà di giurisprudenza non deve formare solo avvocati, ma persone che nel futuro affronteranno svariate realta. Il compito del docente universitario è allora non solo quello della ricerca fine a sé stessa ma anche quello di mostrare sensibilità rispetto a ciò che accade nel mondo del lavoro, cercando di trovare quel metodo didattico in grado di sintetizzare scienza e pratica che davvero può essere utile per lo studente. Se poi il docente non è in grado di farlo, allora sono d'accordo, è meglio che non salga in cattedra.

 

 

E veniamo all'aspetto del problema della coniugazione tra aspetto professionale ed attività accademica.

 

 

Una delle critiche che piu' sento fare alle facolta' in cui bazzico (facolta' tecniche) e' che non prepara professionisti perche' i docenti non hanno contatti col mondo della professione.

Avere docenti che esercitano anche la professione e', secondo me, un modo per fare "uscire dalla torre d'avorio" il corpo insegnante e fagli acquisire un'esperienza "di campo" che poi possano trasmettere. Se non ci fosse la necessita' di trasmettere anche dell'esperienza personale, sempre secondo me, la figura del docente sarebbe sostituibile da libri di testo. Quello che e' il "di piu'" che un docente puo' (e deve) dare e' proprio lo spiegare le applicazioni alla realta' delle teorie che sono riportate nei libri.

Magari in facolta' "umanistiche" le esigenze sono diverse.

 

 

Scusate, ma sono un po' (anzi, molto) stupito che dell'art.16 di questo:

http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/apriTelecomando.asp?codice=16PDL0006940

non abbia ancora parlato nessuno su nfA (n.b.: il maxiemendamento domani al voto di fiducia della Camera lascia immutato il testo, salvo insignificanti correzioni lessicali).

Dato che in questa sede molti avevano esplicitamente perorato l'opzione "fondazioni", mi aspettavo ovaçion y musica (lo spagnolo - solo maccheronico, ahimé - non è casuale... ;-). Tutti già in ferie?

Segnalo anche che negli atenei italiani sta per scoppiare un putiferio (scioperi, occupazioni, ecc.): il tutto però avverrà a settembre, dopo le meritate ed irrinuciabili vacanze!

 

 

certo. vuoi occupare ad agosto quando gli uffici sono chiusi e il rettore è alle Bahamas?

l'occupazione suppongo arriverà ad ottobre e suppongo sarà l'ultima per molto tempo perchè questa volta non sarà tollerata. ovviamente poi dipende da cosa deciderà il CRUI. potrebbero trovare utile sfruttare la protesta e quindi tollerarla fino ad ottenere garanzie economiche da Tremonti...

 

 

Non sono in grado di valutare le conseguenze della trasformazione degli Atenei in Fondazioni, ma vedo questo passaggio nella Mozione del CUN del 17/7/08 :

"Il rafforzamento dell’autonomia accentua le responsabilità, ma non

può accompagnarsi a politiche di totale deregolazione, che, affidando il SUR a dinamiche

spontanee, rischiano di penalizzare le specificità inerenti alle singole aree di ricerca e di accentuare,

in particolare, le differenziazioni e sperequazioni di carattere sociale e territoriale che già pesano su

molti atenei italiani."

Vuoi vedere che finalmente e' la volta che gli Atenei italiani sono costretti a dimostrare quello che valgono davvero, invece di essere tutti trattati allo stesso modo?

 

 

http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/esteri/calabresi-america/calabresi-america/calabresi-america.html

 

 

Nell'articolo che citi Repubblica prova a propinarci la favoletta del povero universitario

americano sommerso di debiti che non arriva alla fine del mese. Mica male come disinformazione, prendere un aneddoto che descrive l'esperienza lavorativa, peraltro ancora incompleta, di una persona particolarmente sfigata, incapace, o comunque che, scegliendo un particolare percorso professionale, non ha l'interesse di ripagare al piu' presto i debiti contratti durante gli studi.

La verita' e' che le professioni citate nell'articolo (avvocati, medici, amministratori) hanno salari d'entrara altissimi, che piu' che giustificano le alte rette che vengono richieste dalle scuole professionali post-laurea. L'intervistata si lamenta di dover pagare un debito di $65000 con un salario annuo di $45000. L'articolo non chiarisce che il salario mediano di partenza per un avvocato americano e' $62000. Come chiarisce la figura in questo articolo, un bel po' di neo-avvocati ha salari che si aggirano su cifre ben superiori ai $100000. L'articolo non chiarisce nemmeno che tali salari aumentano vertiginosamente dopo pochi anni con differenziali che superano l'intero debito dell'intervistata. 

 

 

Che articolo indecente, veramente indecente!

Con il finale strappalacrime e falso al contempo

 

"Io penso che sia osceno che un ragazzo debba indebitarsi per tutta la vita per poter studiare.



Pensa al talento che viene sprecato e perduto perché una famiglia non

può permettersi di finanziare un'istruzione che ormai ha dei costi

eccessivi ed esorbitanti. L'isolamento crescente del sistema scolastico

dalla società e dai suoi bisogni è tremendo.


C'è chi avrebbe le qualità, la passione, la voglia di studiare ma non

può farlo, la società dovrebbe incoraggiare e sviluppare il talento,

non soffocarlo nei debiti. È una sconfitta per l'America e per tutti,

ogni tanto mi chiedo chissà chi sarebbe stato il grande medico che

avrebbe fatto un'importante scoperta scientifica o l'avvocato in grado

di scrivere una pagina di storia. Non lo sapremo mai perché gli abbiamo

bloccato la possibilità di andare a scuola".

 

Se così fosse, perché il tasso di partecipazione universitaria è così alto negli USA, e più che doppio di quello italiano?

Se così fosse, perché fanno a botte ed usano tutti gli strumenti disponibili per entrare nelle scuole più costose, stile WUStL, Vanderbilt, NYU o Duke? Idem per le scuole professionali, da legge a business, dalle scuole di medicina e quelle di ingegneria?

Ma questo Calabresi chi è? Perché i corrispondenti esteri dei grandi giornali italiani sono mediamente degli incompetenti che raccontano balle, e gli italiani se le credono?

P.S. Proprio ieri, durante una bella escursione in montagna con un nuovo amico italiano, eccellente professionista, e la sua famiglia ho scoperto che pure lui, seppur uomo di vasta cultura e molto più informato della media, credeva alla favola dei vecchi e dei poveri USA privi di assistenza sanitaria. Quando gli ho svelato che Medicare (anziani) e Medicaid (poveri) messi assieme fanno una percentuale del PIL USA maggiore di quella che l'Italia spende per l'intera sanità pubblica, mi ha guardato alquanto sorpreso. Non mi sono stupito: se i grandi quotidiani diffondono le balle contenute in questo sconcio d'articolo, come potrebbe essere altrimenti?

 

Ciao brighella,

ma perchè parli con questa inflessione, cosa sei un personaggio goldoniano?

Oppure un combattente della serenissima, ti ricordi? Quei Big Jim che scalarono il campanile di san Marco con il carro-armato fatto in casa?

 

Ovviamente scherzo :-)...penso che NFA protegga le varietà culturali locali, o no?

 

mmmmm... i commenti sembrano concordi: l'articolo di Repubblica propone una visione distorta della realtà. Cionondimeno a me qualche dubbio rimane. Si parla di debiti tra i 50 K$ ed i 150 K$ a seconda del corso di studi. Supponiamo pure che in molti casi le retribuzioni a cui aspirare siano coerenti con queste cifre. Siamo davvero sicuri che non esista una "coda della distribuzione" delle retribuzioni incompatibile con queste cifre? Ed in questo caso: le professioni scarsamente retribuite sono da considerarsi un errore del sistema? Qualcosa che verrà cancellato dalla legge della domanda e dell'offerta (nessuno le vorrà più accettare e QUINDI spariranno OPPURE i relativi salari aumenteranno)? O diventeranno professioni da immigrati (disposti ad accettare salari sottodimensionati)?

Personalmente sono più vicino alle professioni di tipo tecnico-scientifico, ed in questo campo la mia esperienza personale (che ovviamente non è una statistica affidabile) mi dice che negli USA è ormai raro trovare specialisti giovani che non siano asiatici o di origine asiatica. Non credo ciò dipenda da ragioni genetiche, bensì da ragioni economiche.

Qualcuno vuole commentare su questo?

 

 

Cionondimeno a me qualche dubbio rimane. Si parla di debiti tra i 50 K$

ed i 150 K$ a seconda del corso di studi. Supponiamo pure che in molti

casi le retribuzioni a cui aspirare siano coerenti con queste cifre.

Siamo davvero sicuri che non esista una "coda della distribuzione"

delle retribuzioni incompatibile con queste cifre?

 

Ovviamente ci saranno delle code, ma un sistema si dovrebbe giudicare prima sulle medie. Il sistema universitario USA produce, fatto il rapporto con la popolazione italiana, piu' laureati, piu' Nobel, piu' brevetti, piu' articoli su riviste scientifiche e cosi' via. Certamente il sistema USA per l'individuo apre piu' opportunita' ma anche piu' rischi: probabilmente non e' possibile evitare i secondi a parita' di opportunita'. Il sistema italiano evitera' qualche rischio, ma in media produce meno laureati, meno Nobel, meno brevetti, meno ricchezza. Inoltre il sistema italiano e' diseguale (l'indice di Gini se ricordo bene ha raggiunto i livelli USA di 0.34 da 0.29 di un decennio fa) con l'aggravante che le disuguaglianze tendono ad essere ereditarie e di famiglia, mentre negli USA almeno in parte sono causate dai diversi meriti individuali indipendentemente dalla nascita.

 

Personalmente sono più vicino alle professioni di tipo

tecnico-scientifico, ed in questo campo la mia esperienza personale

(che ovviamente non è una statistica affidabile) mi dice che negli USA

è ormai raro trovare specialisti giovani che non siano asiatici o di

origine asiatica. Non credo ciò dipenda da ragioni genetiche, bensì da

ragioni economiche.

 

Io lavoro in Fisica sperimentale delle particelle e la mia esperienza e' che negli USA la maggioranza dei ricercatori e docenti in questa materia sono nativi USA. Certamente la presenza di stranieri e' molto elevata ma ben lontana dall'essere esclusiva.  Tra l'altro ho letto che perfino in Giappone il numero di dottorandi stranieri nelle discipline scientifiche e' vicino al 50%.  Per quello che capisco, i nativi che vogliono arricchirsi e non hanno interessi personali forti scelgono negli USA (e immagino anche in Giappone) Medicina, Ingegneria, Legge ed Economia. Rimangono a fare materie scientifiche solo i giovani con interessi specifici.  Poi, visto che gli USA sono un paese ricco che per di piu' paga bene ed e' aperto al merito, e visto che le differenze di lingua e cultura contano meno proprio per le materie scientifiche, c'e' un'attrazione naturale dovuta a motivi economici dei migliori scienziati provenienti da paesi piu' poveri.

 

 

Chemist, mi sembri confuso... le code, per definizione, rappresentano porzioni piccole del campione (senno non sono code). Mi stai dicendo che, tra quelli che studiano medicina o legge c'è qualche sfigato e/o meno talentuoso di quello che pensava che finisce per guadagnare poco e fatica a ripagare il debito contratto? Beh, ma è la stessa cosa per chiunque contragga un debito (non esiste tasso di default zero, le banche lo sanno benissimo)!  La storia strappalacrime descritta da Calabresi e' una di queste. come diceva andrea moro, poi, questa tizia ha 29 anni: dio mio, la sua carriera è ancora all'inizio! forse muovere il culo e cercare un altro lavoro meglio pagato non sarebbe una cattiva idea, anziche perdere tempo a dare la colpa al "sistema" e chiedere aiuto a Babbo Natale Obama...

La storia strappalacrime di quelli che non riescono a ripagare il debito e non ce la fanno ad arrivare a fine mese l'abbiamo sentita e risentita nei mesi scorsi: chi si era comprato una reggia con piscina e parco con un mutuo subprime ora non riesce a pagare il debito... e vorrei ben vedere! stesso discorso vale per questa ragazza: si è fatta male i conti, evidentemente, non era cosi brava come pensava forse, oppure deve solo cambiare lavoro e guadagnare di piu. in tutti e tre i casi, la colpa è sua, mica del sistema.  

Infine: la soluzione implicitamente suggerita è di aumentare i prestiti garantiti dallo stato o comunque di sussidiare tali prestiti (prima o dopo l'inizio del repayment è identico) e di espanderne l'erogazione in modo generalizzato. Sai cosa implicherebbe? il tasso di default salirebbe alle stelle, esattamente come è successo per i mutui subprime. E la conseguenza sarebbe la stessa: a pagare il conto alla fine toccherebbe al taxpayer.