La dimensione delle nazioni

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Un libro di Alesina e Spolaore sulle dinamiche economiche dietro gli spostamenti dei confini politici nel corso del tempo.

Ho avuto modo di ascoltare l'argomento di questo libro già nel 1998 durante un seminario accademico alla Georgetown University, dove stavo concludendo il mio Ph.D. Il paper presentato allora mi colpì perché era la prima volta che sentivo un argomento economico, anziché etnico o storico, sulla dimensione di uno stato. Quel giorno a Georgetown Alberto Alesina presentò un draft del lavoro che venne poi pubblicato due anni dopo come "Economic Integration and Political Disintegration" nella rivista accademica American Economic Review. Assieme ai suoi coautori, Enrico Spolaore e Romain Wacziarg, la ricerca venne approfondita risultando nella pubblicazione del libro "The Size of Nations" (MIT Press, 2003) che sorprendentemente non è ancora stato tradotto in italiano.

La tesi della ricerca è in apparenza azzardata, perché sostiene che la globalizzazione facilita la creazione di nuovi stati. Come mai un economista di fama internazionale si occupa di confini geografici anziché di deficit, disoccupazione o tassi d'interesse? Questo perché anche i confini politici, al contrario di mari e monti, sono il frutto di decisioni umane. Essendo scienza sociale, l'economia studia l'interazione tra persone e l'equilibrio a cui si converge tramite le diverse preferenze e scelte. Alcuni di questi equilibri, come ad esempio le quotazioni del Nasdaq, cambiano con velocità istantanea. Altri, come invece gli equilibri geopolitici, hanno la dinamica dei ghiacciai: sembrano immobili, ma tutto d'un tratto si possono osservare enormi spostamenti inaspettati, dovuti a graduali pressioni interne.

La tesi di Alesina e coautori incomincia ponendosi delle domande molto semplici. Perché nel periodo protezionistico ottocentesco e nella bellicosa prima metà del Novecento osserviamo imperi che fagocitano piccole realtà politiche preesistenti? E perché invece nel dopoguerra c'erano solo una settantina di stati nel mondo, e gradualmente con l'avanzare del commercio internazionale e della globalizzazione economica oggi ne abbiamo quasi duecento?

Questa intuizione su una correlazione tra apertura commerciale e moltiplicazione (e rimpicciolimento) degli stati trova conferma nelle analisi econometriche di Alesina e colleghi. Non solo esiste una causalità statistica tra apertura commerciale e la nascita di nuovi stati tipo la Repubblica Ceca e la Slovacchia, o i baltici Estonia, Lettonia e Lituania. Ma negli anni di apertura globale abbiamo in genere anche una miglior prestazione economica in paesi di dimensioni ridotte piuttosto che nei grandi stati come la Germania, la Francia e l'Italia.

Nell'ultimo numero di questo agosto, Newsweek presentava in copertina la lista dei migliori paesi al mondo, secondo diversi metri di misura che spaziavano dalla qualità della vita, all'educazione, alla sanità, fino al dinamismo economico. Con una formula ponderata basata sulle diverse categorie, e sulla consulenza di esperti tra cui il Nobel Joseph Stiglitz, Newsweek concludeva che i migliori paesi al mondo tendono ad essere piccoli. Della classifica di Newsweek, nove dei primi dieci sono considerati demograficamente piccoli: Finlandia, Svizzera, Svezia, Australia, Lussemburgo, Norvegia, Canada, Olanda, Giappone e Danimarca. Questa è stata forse una rivelazione per i lettori di Newsweek, ma non certamente per il mondo accademico a conoscenza della ricerca di Alesina e colleghi. Loro difatti, più di una decina di anni prima della divulgazione di Newsweek, già avevano sviluppato anche un modello teorico per spiegare il perché del successo economico dei piccoli stati.

Per cominciare, la dimensione ideale di uno stato non viene misurata in chilometri quadrati e nemmeno in popolazione. Esiste un grado di omogeneità culturale (a prescindere dalla composizione etnica) che rende i 30 milioni di abitanti della vastità canadese meno eterogenei dei 10 milioni di fiamminghi e valloni inguaiati nella ristretta pianura belga. Il modello di Alesina e colleghi assegna un costo politico a questa eterogeneità. Più distante è la media democratica rispetto la realtà del singolo cittadino, meno efficace sarà il servizio pubblico che questo riceverà. Fin qui l'approccio aggiunge poco di originale rispetto alla preesistente letteratura accademica: più grande ed eterogeneo uno stato, più distante sarà percepita la politica della capitale.

Esistono però anche dei vantaggi alle dimensioni di uno stato. In caso di guerra, più grande lo stato, più grande l'esercito e minore il rischio di venire invasi. Inoltre, in caso di protezionismo, i confini politici rappresentano anche dei confini commerciali e perciò un produttore preferirà far parte di un impero piuttosto che di una città-stato. Durante l'Ottocento e buona parte del Novecento, il mondo era dominato da una politica protezionistica e da minacce militari. Non a caso molte realtà politiche minori sparirono in questo periodo (pensiamo all'unificazione italiana, ma anche a quella tedesca) appunto perché al tempo era economicamente insostenibile essere piccoli e isolati. I pochi piccoli stati superstiti all'Ottocento erano situati sull'Atlantico e potevano contare sullo sfruttamento coloniale.

Questa non era ad esempio la situazione rinascimentale. Dato il periodo di inferiore tecnologia bellica e a relativamente minori ostacoli commerciali, città-stato come Venezia, Genova e Amsterdam avevano accumulato ricchezze equivalenti a quelle del Regno di Francia, ma garantendo un tenore di vita medio più elevato di quello del francese medio.

Il libro di Alesina e Spolaore fa notare che oggi ci stiamo allontanando sempre di più dal protezionismo ottocentesco. Nell'era dell'Unione Europea non ha assolutamente senso per la Slovenia e la Slovacchia preoccuparsi di invasioni militari. Entrambi questi stati nati meno di vent'anni fa godono di una politica locale indipendente, e non succube di decisioni prese in capitali distanti per accontentare realtà più eterogenee. Ma allo stesso tempo la loro economia, le loro ditte, i loro imprenditori non sono svantaggiati rispetto ai corrispettivi italiani e tedeschi. Hanno tutti lo stesso accesso al mercato europeo. I loro ristretti confini politici non rappresentano dei confini commerciali, perché il loro mercato è il mondo intero, per un imprenditore estone come per un imprenditore francese. Come per darwinismo economico, il successo di uno snello stato confinante aumenta le pressioni identitarie all'interno di grandi contenitori politici formatisi nell'Ottocento.

Prendendo spunto da questo libro, queste sono le mie considerazioni. L'ascesa della Lega degli ultimi vent'anni non a caso combacia con un declino economico del reddito medio italiano rispetto alla media europea, in un continente popolato da una maggioranza di stati più piccoli ed efficienti dell'Italia. E non si tratta solo di vantaggi aritmetici di regioni ricche a scapito di regioni povere. Il recente rafforzamento di un "partito del Sud", sintomo di una polarizzazione geografica della politica, rispecchia un equivalente disagio da più latitudini verso la politica dei compromessi della capitale. L'esempio della più povera Slovacchia che dopo l'indipendenza cresce di più dei ricchi cugini cechi, e della periferica Cipro che grazie ad una indovinata politica indipendente cresce a ritmi impensabili nel Mezzogiorno, ci indica che il ghiacciaio può scricchiolare da più frangenti.

Guardando solo la teoria esposta da Alesina e i suoi coautori ormai già una dozzina di anni fa, non è immediato immaginare un nesso con la situazione politica ed economica di fiamminghi e valloni, di catalani o di siciliani. Da piccoli guardavamo alla mappa politica come se fosse statica tanto quanto quella geografica. Ora, grazie al lavoro di Alesina, Spolaore e Wacziarg abbiamo un tentativo di spiegare in termini economici le dinamiche di come anche i confini, pur se lentamente, si possono spostare nel tempo.

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Commenti

Ci sono 70 commenti

Sono colpito da questo passo nellapresentazione "In The Size of Nations, they argue that the optimal size of a country is determined by a cost-benefit trade-off between the benefits of size and the costs of heterogeneity."

Mi sa che implicitamente si assume la possibilità di sommare costi e benefici tra individui diversi e quindi che questi siano oggettivi. Sin dagli '30 grazie a Robbins questa operazione è stata dimostrata impossibile, illogica se non in situazione di equilibrio quando le aspettative di tutti gli operatori sono identiche. Anche Blaug riconosce che è oggi un patrimonio comune dell'economia.

Sarei mollto curioso di capire come fa il mainstream odierno a superare questa contradizione. O semplicemente al ignora?

La mia risposta non centra molto col libropero' in un ipotetico mondo potresti forse guardare solo ai costi e benefici del median voter, del re, del signorotto locale, a seconda della situazione. Pero' sarebbe un mondo molto ipotetico...

 

Phileas,

il problema fondamentale e' se abbia senso fare confronti interpersonali di utilita' (cioe' se ha senso fare affermazioni del tipo: Mr A preferisce x a y piu' di quanto Mr preferisce y a x). Non credo si possa dire che Robbins abbia 'dimostrato' nulla, semmai argomentato che certi confronti interpersonali di utilita' si fondano su 'giudizi di valore' e in questo senso non sono 'scientifici' (Jevons aveva una posizione simile e diceva che 'every mind is unscrutable to every other mind and no common denominator is possible' [piu' o meno, vado a memoria]).

Guarderei piuttosto al teorema di impossibilita' di Arrow, che puo' essere interpretato come una dimostrazione delle difficolta' in cui si incorre quando l'input per una decisione sociale sono soltanto gli ordinamenti di preferenza (senza confrontare le intensita' di quelle preferenze) degli individui coinvolti.

In molte situazioni si possono trarre utili conclusioni usando esclusivamente le preferenze, non comparabili, degli individui. Un mercato Walrasiano ideale e' Pareto efficiente e questa e' una cosa confortante da sapere. Poi c'e' un' enorme insieme di allocazioni Pareto efficienti, alcune delle quali 'perfectly disgusting' (come dice A. Sen), fra cui il policy maker deve scegliere. Qualche giorno fa Aldo e Giulio, che credo si possano definire due 'economisti mainstream moderni' per usare la tua espressione, si sono lanciati in confronti fra oggetti del tipo (3,3), (9,2) eccetera, dove i  numeri rappresentano le utilita' di due individui. Se uno deve scegliere fra (9,2) a (3,3) e dice di preferire la prima allocazione, sta implicitamente giudicando che 1 unita' di utilita' per il secondo individuo conta meno di 6 unita' di utilita' per il primo (a quei livelli di utlita'). Si parlava anche di 'costi eccessivi' della distribuzione, implicitamente assumendo di poter confrontare l'intensita' dei costi con i potenziali guadagni dei messi meggio.

Quindi, per ripondere alla tua domanda, a dispetto di Jevons, Robbins e i positivisti, gli economisti moderni si nutrono di confronti interpersonali di utilita', ma vanno cauti su come applicarli. C'e' una vasta letteratura e se dovessi scegliere una guida per districarmici mi affiderei a malpassotu.

C'e' da dire poi che esiste una schiera di economisti applicati che se ne impipa altamente dei problemi concettuali inerenti alla cost-benefit analysis, somma tranquillamente guadagni monetari (e non utilita') etc.. Non ho letto il libro di Alesina et al., ma dubito che utilizzino cost-benefit in maniera cosi' ingenua, e se lo fanno non mi resta che dire 'o tempora, o mores'.

 

"Per cominciare, la dimensione ideale di uno stato non viene misurata in chilometri quadrati e nemmeno in popolazione. Esiste un grado di omogeneità culturale (a prescindere dalla composizione etnica) che rende i 30 milioni di abitanti della vastità canadese meno eterogenei dei 10 milioni di fiamminghi e valloni inguaiati nella ristretta pianura belga. Il modello di Alesina e colleghi assegna un costo politico a questa eterogeneità. Più distante è la media democratica rispetto la realtà del singolo cittadino, meno efficace sarà il servizio pubblico che questo riceverà. Fin qui l'approccio aggiunge poco di originale rispetto alla preesistente letteratura accademica: più grande ed eterogeneo uno stato, più distante sarà percepita la politica della capitale."

Se questa tesi è vera, è anche corretto argomentare che l'immigrazione, aumentando l'eterogeneità di uno stato, oltre che la sua popolazione, lo allontana dalla sua dimensione ideale? E che questo effetto è tanto più accentuato quanto più gli immigrati provengono da realtà distanti da quelle dello stato di destinazione, in termini di lingua, costumi, religione, valori? 

Ecco, l'esempio del Canada l'avevo messo apposta e avevo messo tra parentesi "a prescindere dalla composizione etnica" per una ragione.

Guardiamo anche gli Stati Uniti, che sono ancora piu' grandi. Ci sono african-americans, hispanics, indiani, asians in percentuali considerevoli in mezzo alla maggioranza bianca. Pero' ovunque tu vada le proporzioni di questi gruppi sono pressapoco sempre cosi (pressapoco). Quindi, se guardi Dallas, Chicago o Seattle vedi la stessa America. Da questo punto di vista io considererei gli Stati Uniti come geograficamente omogeneo. Non e' che la Florida e' composta da gente radicalmente diversa dal Maine.

Dunque, se l'immigrazione risulta in integrazione, o perlomeno si diluisce uniformemente nella popolazione esistente, non vedo come possa creare tensioni interne. Nel caso contrario, tipo il Kosovo che ha visto negli anni un aumento di popolazione albanese, allora magari si crea la situazione dove dicono arrivederci ai serbi.

La storia è interessante. Ma non capisco come un paese come il Giappone, che ha 120 milioni di abitanti in un territorio ristretto, possa essere considerato demograficamente piccolo. Non è che alcuni dati vengono un po' piegati a sostegno della tesi finale?

9 su 10

 

Questa intuizione su una correlazione tra apertura commerciale e moltiplicazione (e rimpicciolimento) degli stati trova conferma nelle analisi econometriche di Alesina e colleghi.

 

Bell'articolo. Pero' mi vengono spontanee anche due osservazioni di carattere politico.

1. La sovranita' nazionale come e' intesa al giorno d'oggi e' molto piu' limitata che nell'ottocento. Sia da organismi sovranazionali quali l'Unione Europea, che dalle alleanze militari come il patto atlantico. Di fatto, l'Europa (con le parziali eccezioni di Francia e UK) ha appaltato la propria difesa agli US. Rinunciando di conseguenza ad una buona parte della propria sovranita' nazionale.

2. A partire dal secondo dopoguerra, con la vittoria del modello anglosassone si e' definitivamente affermato il principio di autodeterminazione dei popoli (qualsiasi cosa significhi) tanto caro a Wilson. D'altro canto e' ovvio che non sia possibile conciliare il suffragio universale con un impero coloniale. Con l'eccezione delle Filippine, gli US non hanno mai posseduto vere e proprie colonie, limitandosi ad esercitare un certo grado di controllo sui governi di alcuni stati nella sua sfera di influenza. Il regno unito e' riuscito a smantellare il proprio impero coloniale senza eccessivi spargimenti di sangue (in effetti sospetto anche per ragioni di insostenibilita' economica).

Insomma, la correlazione e' interessante, ma non penso che esista una casualita' unidirezionale. Controesempio: perfino l'URSS, al di fuori della sfera democratica e liberale,  non si e' mai sognata di annettere formalmente i paesi del blocco di Varsavia, pur controllandoli completamente.

 

"Controesempio: perfino l'URSS, al di fuori della sfera democratica e liberale,  non si e' mai sognata di annettere formalmente i paesi del blocco di Varsavia, pur controllandoli completamente."

Beh, ha annesso Estonia, Lettonia e Lituania, più alcune regioni della Polonia orientale, secondo quanto previsto dal patto Molotov/von Ribbentropp.

C'e' chi dice che stati di piccola dimensione corrono piu' rischi - vedi Islanda:

http://www.voxeu.org/index.php?q=node/3857

Grazie per questo articolo, veramente interessante. La tesi di Alesina & Co. mi sembra ben fondata.

L'ascesa della Lega degli ultimi vent'anni non a caso combacia con un declino economico del reddito medio italiano ............

Non ho letto il libro ma l'italianizzazione che ne hai compiuto parlando di lega, mi fa sorgere una curiosità. Rispetto alle tesi di Alesina e Spolaore il federalismo in Italia sarebbe più efficiente ipotizzando i confini geografici delle regioni così come sono o renderebbero preferibile l'ipotesi delle macro-regioni?

il libro non trattava di federalismo pero' mi sembra naturale domandarsi, come fai tu, perche' non possa bastare una politica decentrata.

Io credo che un minimo livello di omogeneita' (anche solo economica, senza portare in ballo la cultura e altro) sia necessario per avere una federazione funzionante. Per esempio, riesco ad immaginarmi una federazione tra stati americani e stati canadesi. Ma non riesco a fare lo stesso per uno stato federale composto da stati americani e stati messicani.

 

Personalmente suggerirei di fare attenzione a trarre conclusioni dalla tabella di Newsweek, perche' il campione non e' casuale.

Newsweek considera 100 paesi, di cui 22 grandi (+ di 50M di abitanti), 25 medi (tra 20M e 50M) e 53 piccoli (- di 20M). Stando alla wikipedia, nel mondo i paesi grandi sarebbero 24, quelli medi 33 e quelli piccoli 113 (dai 20 milioni a 500 mila abitanti, suppergiu' la taglia del Lussemburgo, se consideriamo anche i microstati arriviamo a 166).

Quindi, i paesi grandi ci sono quasi tutti, di quelli medi ce ne sono i tre quarti mentre dei paesi piccoli ce n'e' meno della meta'. In piu', i paesi piccoli sono stati scelti soprattutto in base alla localizzazione: quasi tutti quelli europei, qualche paese asiatico e pochi africani. Insomma, dei paesi piccoli si e' preso un campione non rappresentativo della popolazione, distorto a favore dei paesi piu' ricchi.

Un'analisi alternativa, potrebbe essere fatta guardando dati piu' completi, ad esempio quelli sul PIL pro capite della CIA (191 paesi), sempre presente su wikipedia. Ovvio, il PIL pro capite non e' l'indice di bonta' calcolato da Newsweek ma credo che la correlazione sia positiva e forte.

Guardando i dati CIA, il risultato e' che i primi 10 paesi (escludendo ancora i microstati) sono: Liechtenstein, Qatar, Lussemburgo, Norvegia, Svizzera, Danimarca, Irlanda, Emirati Arabi, Olanda e Stati Uniti: 9 piccoli e 1 grande. Pero' se consideriamo gli ultimi 10, vediamo che le proporzioni sono grossomodo le stesse: 8 piccoli, 1 medio e 1 grande. Per la cronaca, gli ultimi 10 paesi considerati dalla CIA sono Burundi, Congo, Somalia, Malawi, Liberia, Guinea-Bissau, Eritrea, Niger, Sierra Leone e Nepal.

Dai dati sembrerebbe che i paesi piccoli tendano a presentarsi nelle code della distribuzione in misura superiore alla loro frequenza relativa e in modo simmetrico. Credo (ma non ne sono completamente certo) che il motivo di questo fenomeno sia da ricercarsi nel fatto che quando consideriamo i dati nei paesi grandi, abbiamo un aggregato che schiaccia la varianza interna e quindi spinge il paese verso il centro della distribuzione, mentre nel caso dei paesi piccoli questo non avviene.

 

 

Insomma, dei paesi piccoli si e' preso un campione non rappresentativo della popolazione, distorto a favore dei paesi piu' ricchi.

 

Mi pare che questo non cambi di una virgola la classifica che propone Lodovico: 9 sui 10 più ricchi non cambiano se ne aggiungi 60 di poveri. E' distorto a favore dei più ricchi, non dei più piccoli.

 

Pero' se consideriamo gli ultimi 10, vediamo che le proporzioni sono grossomodo le stesse: 8 piccoli, 1 medio e 1 grande. Per la cronaca, gli ultimi 10 paesi considerati dalla CIA sono Burundi, Congo, Somalia, Malawi, Liberia, Guinea-Bissau, Eritrea, Niger, Sierra Leone e Nepal.

 

Mi pare che la tesi sia: se vivi in un mondo dove i commerci internazionali sono facili e la probabilità di guerre bassa, ti conviene essere piccolo.

I 10 paesi citati mi pare abbiano molto poco da commerciare se non prodotti minerari e che proprio per questo molti di loro siano in guerra permanente o quasi. Inoltre 9 su 10 sono africani. Se guardi la lista Newsweek  trovi la stessa cosa: 9 su 10 africani, molti piccoli. Credo che l'Africa, quanto a globalizzazione e sicurezza dalle guerre offra pochino. E comunque non è che là i grandi se la passino meglio...

 

The Size of Nations" (MIT Press, 2003) che sorprendentemente non è ancora stato tradotto in italiano

 E perchè avrebbe dovuto esserlo? Tutti quelli che possono leggere il libro (che non è facilissimo per un non economista/political scientist) sono in grado di leggere l'inglese. Casomai traduciamo dal cinese o dal giapponese (se già non disponimao della versione inglese). Meglio ancora, facciamo tradurre in inglese i lavori italiani, che non li legge nessuno

Credo sia leggibilissimo, saltando tutte le equazioni, anche da un pubblico piu' ampio, percio' potrebbe anche essere tradotto in italiano.

 

Perché nel periodo protezionistico ottocentesco e nella bellicosa prima metà del Novecento osserviamo imperi che fagocitano piccole realtà politiche preesistenti? E perché invece nel dopoguerra c'erano solo una settantina di stati nel mondo, e gradualmente con l'avanzare del commercio internazionale e della globalizzazione economica oggi ne abbiamo quasi duecento? Questa intuizione su una correlazione tra apertura commerciale e moltiplicazione (e rimpicciolimento) degli stati trova conferma nelle analisi econometriche di Alesina e colleghi.

 

 

Non ho ovviamente letto il libro e nulla posso ovviamente dire sulle analisi econometriche a supporto, tuttavia, ho qualche dubbio che sulla tesi di fondo, ossia che gli stati nascano grazie 

 

all'avanzare del commericio internazionale e della globalizzazione

 

Intendiamoci, questi fattori possono certamente rendere più agevole del passato la sopravvivenza di un piccolo stato, però non credo che possano esserne la causa genetica.

Se guardiamo alla storia recente(dal '700 in poi), abbiamo quattro periodi in cui si è assistito ad una proliferazioni di nuovi stati

Fine '700-prima metà dell''800, con la nascita dei vari stati americani

primo dopo-guerra: dissoluzione degli imperi centrali, zarista ed ottomano, con nascita dei nuovi stati dell'Europa centrale e del medio-oriente

secondo dopo-guerra: decolonizzazione in Africa e Asia

crollo Unione Sovietica: nuovi stati post-sovietici

Ora,  mi pare che in nessuno di questi periodi il libero scambio abbia giocato un ruolo chiave, mentre la vera levatrice è stata la guerra (compresa quella "fredda" persa dall'URSS) e tutti i conseguenti sovvertimenti sociali.

Certo, si può dire che dietro la guerra ci sono sempre interessi economici, ma non mi sentirei di dire che che i fanti della legione cecoslovacca che combattetvano sul Piave a fianco degli italiani avessero in mente più il libero scambio che non l'dea di nazione.

Tra l'altro, tutta la seconda metà dell'800 sino al 1914 è stata una fase storica dominata dal libero scambio e da una prima globalizzazione e non mi pare che ciò abbia favorito la nascita di piccoli stati, anzi è stata l'epoca dei grandi imperi coloniali, mentre il primo dopoguerra - con forte protezionismo e diminuzione degli scambi internazionale, ha visto nascere Polonia, Finlandia, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Estonia, Lituania, Lettonia, Iraq, Kuwait, Giordania ecc. ecc. non certo perchè gli scambi erano più facili, ma perchè la guerra aveva posto fine agli imperi sovranazionali.

Intendiamoci, questi fattori possono certamente rendere più agevole del passato la sopravvivenza di un piccolo stato, però non credo che possano esserne la causa genetica.

Assolutamente daccordo.

tutta la seconda metà dell'800 sino al 1914 è stata una fase storica dominata dal libero scambio

Non ne sono del tutto sicuro. C'e' stato un aumento dei volumi di commercio internazionale dovuto all'innovazione tecnologica nei trasporti, pero' era un periodo di dazi e tariffe elevate. Aggiungo un aneddoto locale: dal 1866 al 1915 nelle prealpi era diffusissimo il contrabbando tra Regno d'Italia e Austria (Trentino), immagino perche' non potevano commerciare liberamente.

Mah, non lo so perchè non ho letto il libro, ma a me vien da dire che sono più le relazioni all'interno dello Stato che la dimensione in sè, oltre le ovvie affinità culturali.

Uno stato (federale o come lo volete chiamare) che mantenga al "centro" solo difesa, politica estera e opere pubbliche interstatali/regionali è uno stato leggero, costa poco e rende "economiche" certe cose.

I paesi piccoli sono avvantaggiati perchè basta poco, ma veramente poco, a far salire reddito medio e servizi, nei paesi grandi avrai maggiori disuguaglianze/distorsioni, ma solo laddove lo Stato tenderà ad accentrare, e gli apparati dello stato siano altamente inefficienti.

Adesso non so quante variabili Alesina ha inserito in questo libro, nè le variabili utilizzate da Newsweek, ma secondo me le "dimensioni ottimali" non esistono, esistono le funzioni ottimali. Trovo assurdo che a livello centrale siano decisi livelli di spesa, gestione dei servizi, e tutte le altre amenità che lo Stato italiano regola all'infinito (ad esempio), e nel frattempo il livello stesso dei servizi sia così vario. Non è una questione di dimensioni, ma di funzioni, le une possono essere indipendenti dalle altre, ma guardiamo alle funzioni. Almeno così la penso.

"E perché invece nel dopoguerra c'erano solo una settantina di stati nel mondo, e gradualmente con l'avanzare del commercio internazionale e della globalizzazione economica oggi ne abbiamo quasi duecento?

Questa intuizione su una correlazione tra apertura commerciale e moltiplicazione (e rimpicciolimento) degli stati trova conferma nelle analisi econometriche di Alesina e colleghi. Non solo esiste una causalità statistica tra apertura commerciale e la nascita di nuovi stati tipo la Repubblica Ceca e la Slovacchia, o i baltici Estonia, Lettonia e Lituania. Ma negli anni di apertura globale abbiamo in genere anche una miglior prestazione economica in paesi di dimensioni ridotte piuttosto che nei grandi stati come la Germania, la Francia e l'Italia."

da profano, mi pongo una domanda. gli anni successivi al dopoguerra hanno visto ache muovere i primi passi del processo di integrazione europea che ha condotto prima all'istituzione della cee, poi della CE sino alla UE. molti degli stati hanno ceduto parte delle propria potestà in favore di un'istituzione transnazionale, costruendo quello che potrebbe essere definito un grosso stato federalista sui generis (otre che un'ara di libero scambio). si può facilmente rammentare la foga e la premura con le quali i paesi dell'ex blocco sovietico hanno dato l'avvio al processo di adesione. tutto ciò non cozza (almeno dal punto di vista storico) con il ragionamento sviluppato nel testo di Alesina?

anche dal punto di vista economico -  sul cui piano mi posso ritenere un neofita al limite della pippa- non si può ritenere che le performance di alcuni piccoli stati quali la slovacchia o l'estonia non sarebbero stati tali se questi non si fossero trovati nell'alveo della comunità europea?

un saluto, gianuca

Credo che la UE sia molto più un'area di libero scambio che un soggetto politico unitario (quello che tu chiami grosso stato federalista sui generis) ed è proprio in quest'ottica che è possibile leggere l'adesione dei paesi dell'ex blocco sovietico (compresi quelli che si sono divisi politicamente con molto entusiasmo!).

Non ho letto il libro ma la tesi mi sembra assolutamente ragionevole e l'esempio da te portato non mi sembra contraddica, ma sia perfettamente spiegabile in quest'ottica.

Piuttosto, come affronta l'autore il fatto che gli stati prima si sono divisi e poi si è arrivati a una performance economica sufficiente a sostenerne l'esistenza?  Mi viene da pensare che sia l'unico modo: c'è una spinta secessionista che crea un nuovo soggetto politico a priori e la performance economica positiva è poi solo lo strumento per mantenere in vita questa realtà.  Probabilmente se la performance economica positiva fosse arrivata prima non si avrebbe avuto una spinta secessionista.  Ma allora l'economia ha un ruolo un po' secondario (permette, ma non muove).  Mi piacerebbe esaminare un modello (magari nel libro c'è) che veda l'economia come il motore del fenomeno.

Gli stati piccoli sono più vulnerabili ai cigni neri... se hanno vicini pacifici esternalizzano questo rischio con un sistematico “free riding”, talvolta un po’ parassitistico.
Ad esempio la difesa, l’assistenza sanitaria in caso di pandemia, i mezzi per bonificare in caso di affondamento di petroliera, gli investimenti per istruire il capitale umano che andrà a lavorare nello staterello, i Canadair in caso di incendi boschivi, la protezione civile in caso di terremoto, le investigazioni specialistiche di alto livello in caso di attentato, ecc. sono di fatto sistematicamente a cura del grande vicino benevolo.
Ma se il grande vicino cambia atteggiamento il cigno nero arriva subito.
Per dire, il 10 maggio 1940 il Lussemburgo è stato invaso dal Hitler in poche ore.
Certo, è facile essere il Lussemburgo felice con il PIL pro capite più alto d’Europa finché i vicini sono tranquilli.
Ma la sostenibilità di questa posizione dipende da un fattore esogeno.

Invece la Svizzera in difesa investe un bel po, ogni adulto ha un fucile, i passi e cavalcavia con gli alloggiamenti per farli saltare, ecc.

Hitler preferì invadere la Russia :)

Battute a parte, non tutti gli stati piccoli sono come li descrivi.Anche Israele non scherza.

 

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