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Recensione di "L'invenzione dell'economia", di Serge Latouche

La scorsa è stata un'estate da dimenticare sotto vari profili, ma non voglio tediarvi con (dis)avventure personali. Una pessima idea è stata per esempio quella di leggere Latouche, su sollecitazione di un amico (bell'amico, direte voi!). Brutto libro non solo per i contenuti ma anche perché scritto davvero male, oltre ad essere noioso assai.

La fascetta di copertina è accattivante: promette di spiegarci perché i mali del mondo vengano dagli economisti. Un Voltremont francese, mi son detto, ed ho accettato il libro, curioso di sapere come abbiano fatto quattro dozzine di persone in 300 anni a cambiare il corso dell'umanità. Vi svelo subito che una risposta non l'ho trovata. Se questa è davvero la tesi del libro, l'autore rende il compito di capirla piuttosto arduo. Magari sono io che sto diventando senile.

Avevo letto, ovviamente, di Latouche e delle sue teorie della "decrescita" e mi aspettavo di trovarne almeno una descrizione che ne spiegasse i fondamenti teorici. Nulla di tutto ciò. Il libro è scritto malissimo. Senza leggere qualche commento preventivo (per i curiosi: qui una rassegna stampa) è difficile capire di cosa parli, e sospetto che i commentatori mentano spudoratamente quando pensano di averlo capito. Come minimo, rendono a Latouche un favore enorme. Insomma, se vi aspettate un libro che inizi con la frase: "Questo libro vi spiega perché la crescita fa male, e perché è colpa degli economisti da Adam Smith in poi aver convinto il mondo che sia vero il contrario" e che passi poi, sistematicamente, a spiegare questa posizione, ve lo sognate. Il libro è tutto il contrario: un pastiche delle cose che il signor Latouche sa (poche, alla fin fine e sempre le stesse) o che ha letto e gli sembrano "fighe" (ancora meno, ancor più le stesse ed alquanto scontate).

Dal punto di vista di chi non conosce Latouche e le sue idee, invece, il libro si presenta come un sommario piuttosto atipico della storia del pensiero economico (ovviamente si parte da Aristotele, Platone & Co.), con un eccesso piuttosto sorprendente di autori francesi, alcuni dei quali erano a me sconosciuti (assumiamo pure che l'ignorante sia il sottoscritto, e che il bias non sia dovuto ad un imprudente nazionalismo dell'autore).

Tutto qui. O quasi: sparsi qua e la si trovano alcuni paragrafi o frasi che rimandano vagamente alle posizioni per cui Latouche è famoso, e con le quali il libro è stato sapientemente pubblicizzato. Per chi queste posizioni non le conosce, sorge il dubbio di stare leggendo le opinioni di una persona fra il confuso e il disinformato. Per chi le conosce sorge un dubbio diverso: ma come avrà fatto il signor Latouche con questa pessima retorica a convincere così tanta gente di star dicendo cose meritevoli di attenzione? Boh.

Un esempio fra tutti. Il capitolo sul lavoro (non ricordo il numero e la pagina né posso cercarli: il libro l'ho prontamente restituito) più o meno inizia con la frase "Il lavoro è un'invenzione della borghesia". Ho menzionato questa chicca ad un paio di amici; hanno, bontà loro, sostenuto che tutto sommato questa non è neanche un'idea di Latouche, risale a Marx, etc... etc... Troppo buoni cari amici. Io capisco che in certe bocche una frase del genere possa avere anche un contenuto, se non condivisibile, almeno meritevole di discussione (non credo, ma facciamo finta). Ma Latouche pensa proprio, o almeno cerca di convincerci, che i contadini nel medioevo fossero più felici dei nostri contemporanei, e che la fatica derivi da qualcosa che ha a che fare con la borghesia ed il capitalismo, con l'ossessione per la crescita ed il consumo, e così via. Chissà se, intellettuale fighetto com'è, ha mai avuto due minuti per leggersi Angelo Beolco, tanto per dire uno che veniva dalle parti mie ... Sulla base di cosa e come sostenga tale idiozia, non l'ho capito nè cerca di spiegarlo lui, con la sua retorica da intellettuale in stato confusionario.

In generale, non sono un grande fan del rasoio di Occam, ma preferisco pensare che sia stato il comportamento di milioni di individui ad influenzare il pensiero di Bentham piuttosto che viceversa. Se qualcuno sostiene l'opposta direzione causale (le teorizzazioni di Bentham sull'utilitarismo hanno convinto centinaia di milioni di felici imbecilli morti di fame che erano utilitaristi e volevano consumare di più ed avere più tempo libero ...) vorrei lo facesse sulla base d'un ragionamento chiaro, corredato magari da qualche base empirica. Agli imprenditori (che includono i bottegari) piace massimizzare i profitti perché nei dipartimenti di economia si usano modelli che dicono che lo fanno, o viceversa? Di nuovo, ha mai letto Boccaccio, tanto per menzionare uno che non è delle parti mie? Se davvero abbiamo (noi economisti) questo enorme potere di manovrare i desideri e i comportamenti della gente, siamo davvero pagati poco, e non solo in Italia!

Il tutto provoca un gran fastidio nel lettore informato: la sensazione è che l'autore ti stia prendendo in giro, o sia d'una ignoranza abissale: non si rende conto Latouche che il metodo economico può persino razionalizzare le policy che va raccomandando? Per esempio, se al signor Latouche piace la cucina a fuoco lento, sarà disposto a rinunciare a parte del suo reddito pur di mangiarsi lo stufato cotto sul prato con il legno di rovere tagliato con l'accetta. Niente di scandaloso per la teoria economica da 200 anni a questa parte, dunque perché gli economisti dovrebbero essere responsabili delle magagne di questo mondo, dell'ossessione per la crescita, per il consumo, e quant'altro?

Il sospetto è che sia proprio la confusione ad alimentare il successo di queste posizioni. Non voglio in queste righe trattare sistematicamente il tema della decrescita, ma è mia opinione che ogni tentativo di parlarne chiaramente (usando la logica ed i dati, due strumenti cui siamo affezionati) giunga a smontare il giocattolo in modo piuttosto brutale. Se necessario, torno volentieri sull'argomento in separato post.

Lasciamo perdere la decrescita, comunque, e proviamo a riprendere l'idea di base del libro e a svilupparla.

(1) È possibile che lo studio dell'economia, nel senso di scienza economica (neo)classica, possa portare ad un cambiamento non dico di preferenze ma almeno di comportamenti? Questa domanda mi ricorda un interessante studio di Ariel Rubinstein (NYU), che in un esperimento trova che i comportamenti dei laureandi in economia differisce sostanzialmente da quello dei laureandi in altre discipline. L'osservazione (comunque da ri-verificare empiricamente) non mi stupisce granché ma è comunque interessante. Ovviamente rimane da verificare che questo cambiamento dei comportamenti sulla base del sistema di beliefs che si acquisisce peggiori, secondo una qualche metrica, il benessere della società del suo complesso. Il tema ricorda quello trattato recentemente da Aldo e Michele e rimanda ad una seconda, forse più importante, domanda: (2) è possibile che questi cambiamenti siano socialmente dannosi secondo una qualche definizione (ragionevole, se possibile) di società e di danno?

Ecco, da un pessimo libro sono riuscito almeno a trovare un paio di spunti di riflessione interessanti. Se ci aggiungete che, tornato nella Music City, ho occasionalmente la possiblità di sintonizzarmi sulla mia stazione country preferita ed ascoltare i testi più ridicoli della storia della musica, direi che il mio umore è tornato a livelli normali.

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