Stiglitz: nuovo libro vecchie idee

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La recensione è stata scritta per la Stampa (non so se è stata pubblicata). Spero l'acuto e rompiballe lettore di nFA mi voglia passare il conseguente tono un po' formale e didascalico.

Esce in questi giorni negli Stati Uniti l’ultimo libro di Joseph Stiglitz, in cui l’economista premio Nobel di Columbia raccoglie le sue considerazioni sulla crisi economica e sulle prospettive future dell’economia americana e mondiale. Stiglitz è, assieme a Paul Krugman, una delle voci più chiare e forti della cultura economica di sinistra negli Stati Uniti. Stiglitz è anche un economista che, molto più che Krugman, ha avuto un impatto fondamentale sulla disciplina economica: è uno degli economisti più citati in accademia, responsabile di un nuovo campo di studi, l’economia dell’informazione.

Purtroppo questo libro è un esercizio di retorica invece che non di divulgazione di solidi e ragionati argomenti economici: 300 pagine di furore iconoclasta (più 60 di note al testo). L’analisi economica è nascosta tra pagine e pagine di tirate moraliste su avarizia e pazienza, slogan no-global, stilettate ai nemici accademici, visioni onirico-religiose di un nuovo ordine socialdemocratico, e così via. Per non parlare dei l’avevo-detto-io e delle critiche volpine all’uva dell’amministrazione Obama.

La furia retorica porta Stiglitz ad interpretazioni a dir poco superficiali dei suoi stessi contributi alla teoria economica (capitolo 9) e ad analisi addirittura incoerenti di alcuni aspetti cruciali della crisi. Per esempio, (nel capitolo 2) Stiglitz lamenta che la pratica di cartolarizzare i propri crediti (ad esempio i mutui) da parte delle banche le abbia portate a una eccessiva distribuzione del rischio al dettaglio, e quindi a non monitorare i debitori a sufficienza. Ma se così fosse, perché mai le banche sarebbero state travolte dal crollo del mercato immobiliare e dalla conseguente incapacità di recuperare i crediti? Il fatto è che le banche, al momento dello scoppio della bolla, detenevano una buona parte delle attività cartolarizzate che avevano prodotto. Stiglitz accetta questo fatto quando nel libro ironizza sulla comprensione della finanza da parte dei manager delle banche, ma finge di non apprezzare che questo stesso fatto lo porta ad una contraddizione con l’argomento che egli usa per dimostrare i danni prodotti dalla cartolarizzazione dei crediti.

Un altro elemento di confusione analitica si ha quando (nel capitolo 3) Stiglitz enuncia le doti di un eventuale importante futuro stimolo fiscale (di entità ben superiore a quello passato dal Congresso democratico). Da una parte lo stimolo è visto come l’unica politica efficace di fronte alla disoccupazione generata dalla crisi, dall’altra Stiglitz propende per forme di spesa pubblica con effetti di lungo periodo, forme di spesa che portino gli Stati Uniti più vicino al modello della socialdemocrazia di stampo europeo e del welfare state cui egli ideologicamente aspira. Uno stimolo fiscale dovrebbe essere, sostiene Stiglitz, rapido ed efficace e al contempo dovrebbe agire sullo sviluppo infrastrutturale del paese, affrontare i problemi ecologici del pianeta, aumentare la produttività di lungo periodo, favorendo il passaggio dalla manifattura ai servizi, e addirittura migliorare la situazione finanziaria del sistema pensionistico. Di tutto, di più. E perché non far vincere agli americani il mondiale di calcio? Qui si confondono due ruoli possibili ma distinti della finanza pubblica: intervenire ad indirizzare il sistema economico e produrre occupazione a breve termine per ridurre i costi della recessione. Possiamo discutere sulla desiderabilità di questi interventi, ma presentarli unitamente, come se creare occupazione a breve richiedesse un welfare state svedese nel lungo periodo, è semplicemente un colpo di mano intellettuale.

A tutti questi esercizi retorici discutibili va aggiunto un uso cavalleresco dei dati [amerikanata, col significato di "usare i dati da marrano"; grazie Palma]. Ad esempio Stiglitz usa nella analisi degli effetti della spesa pubblica un moltplicatore keynesiano (l’aumento di PIL indotto da un dollaro di spesa pubblica) di breve periodo pari a 1,5, senza citare, nemmeno delle note, altre stime. Ma 1,5 è tra le stime più alte ottenute e ottenibili, mentre molte stime anche recenti e di provenienza non sospetta riportano valori estremamente più bassi, 0,4 o addirittura 0,2. Questa incertezza sulle stime del moltiplicatore è dovuta al fatto che il moltiplicatore non è un parametro economico strutturale: esso varia a seconda di condizioni economiche, aspettative, politiche monetarie e fiscali, e quant’altro (ragione prima questa per cui l’analisi macroeconomica keynesiana classica è essenzialmente scomparsa dalla disciplina ormai da decenni). Presentare senza caveat la stima più favorevole al proprio argomento è un altro esempio di come, nel libro, la battaglia poltica offuschi l’analisi economica. Photographer's Guide Canon DSLR

Ma proviamo a distillare più chiaramente l’analisi economica della crisi prodotta da Stiglitz in questo libro. In particolare, Stiglitz discute in dettaglio degli effetti dell’allentamento della regolamentazione finanziaria da parte dell’amministrazione Bush e della Federal Reserve di Alan Greenspan. Questa è questione fondamentale e, a mio parere, costituisce l’elemento più interessante dell’analisi del libro. Mercati finanziari poco regolamentati possono essere efficienti solo se gli operatori (le banche) internalizzano i rischi che accumulano. Se le autorità finanziarie offrono invece una implicita garanzia all’attività finaziaria di banche e altre istituzioni finanziarie, una severa regolamentazione dell’assunzione del rischio è necessaria per garantire mercati efficienti. Stiglitz argomenta con chiarezza come questa combinazione di leggera regolamentazione e implicita garanzia pubblica sia stata all’origine della crisi. A questo proposito Stiglitz lamenta, a ragione a mio parere, la decisione dell’amministrazione Obama di non rinegoziare le politiche e le garanzie dell’amministrazione precedente e di salvare quindi le banche a condizioni estremamente favorevoli per gli azionisti. Il costo di questa decisione è che l’uscita dalla crisi sarà rallentata dalla ridotta capacità e volontà delle banche di assumere nuovi rischi estendendo credito a famiglie e imprese. Tutto giusto, non fa una piega.

Purtroppo la passione politica di Stiglitz e la sua propensione a combattere battaglie ideologiche francamente superate, ci privano della sua analisi riguardo alle vere questioni economiche che questa crisi ci ha posto e a cui ancora non sappiamo dare risposta: perché la politica monetaria espansiva della Federal Reserve di Greenspan ha indotto bolle finanziarie in mercati specifici (titoli tecnologici prima e attività immobiliare poi) invece che non inflazione generale come ci si sarebbe potuti attendere? Come possono le autorità finanziarie garantire in maniera credibile che non salveranno le banche in futuro? Come possono disegnare un sistema di transazioni finanziarie che garantisca trasparenza? E’ possibile produrre misure contabili di successo di lungo periodo dell’attività d’impresa cui condizionare efficacemente gli incentivi dei manager? E tante altre, che ignora.

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