La ricchezza della nazione

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Recensione di un sorprendente pamphlet di Anders Chydenius, datato 1765.

Chydenius, chi era costui? Fate bene a chiedervelo, perché anche per me questo nome era misterioso prima di leggere questo piacevole pamphlet -- e di pamphlet letteralmente si tratta, secondo la definizione dell'UNESCO (sic!), perché conta esattamente 48 pagine.

 

Chydenius non è famoso come i filosofi, i banchieri e i medici che nel '700 la facevano da economisti: Adam Smith, autore del ben più noto e voluminoso 'La ricchezza delle nazioni' (apparso undici anni dopo questo libretto, nel 1776, con pressoché identico titolo), Bernard Mandeville, David Hume, Richard Cantillon, Francois Quesnay, per citare solo i più noti. Eppure le idee economiche che contiene non sono meno ricche di quelle che hanno reso celebri questi altri personaggi. Sono anzi, per certi versi, sorprendentemente più moderne e proverò a darne un breve assaggio.

Anders Chydenius era nato in Svezia (in Ostrobothnia, una regione che oggi è parte della Finlandia) nel 1729 e 'la faceva' anche lui da economista (essendo prete, uomo di cultura e membro della Dieta svedese) in un secolo in cui gli economisti accademici non esistevano -- un secolo d'oro per qualcuno.

L'obiettivo del libro è fornire una guida alla buona legislazione e regolamentazione economica. Una guida, chiarisce subito l'autore, basata sull'esperienza e sull'osservazione dei fatti -- questo rende secondo me il libretto estremamente interessante: si tratta di fatto delle induzioni di un empirico piuttosto che delle deduzioni di un filosofo. E' una guida, si scopre andando avanti nella lettura, che consiste nel dimostrare quali leggi e regolamenti siano dannosi piuttosto che nel suggerire come e dove regolamentare.

Chiarisco subito che i regolamenti che Chydenius ha in mente sono quelli che riguardano l'allocazione delle risorse. In particolare, al tempo in cui scriveva vigevano in Svezia leggi che impedivano ai contadini di trasferirsi dalla campagna alla città e più in generale impedivano a un individuo di intraprendere certe carriere (questo distorceva l'allocazione del lavoro), limitavano il commercio sia interno sia internazionale (questo distorceva l'allocazione della produzione), e proteggevano o sussidiavano alcune categorie di produttori (questo distorceva entrambe le cose). Se vogliamo tenere a mente analoghi regolamenti in Italia dobbiamo pensare a cose come gli ordini professionali (di cui ha già detto Gianluca), l'uniforme remunerazione del pubblico impiego (di cui hanno già detto Andrea e Sandro), o quell'obbrobrio che il governo chiama "incentivi", ad esempio.

Lo scopo della legislazione economica, afferma Chydenius, è non danneggiare la ricchezza della nazione, che nella definizione dell'autore corrisponde a quello che oggi chiamiamo PNL (prodotto nazionale lordo, ossia il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti da produttori nazionali). La prospettiva è già originale, non vi pare? Ancora oggi i legislatori sono convinti (o vogliono far credere) che la regolamentazione dell'attività economica sia cosa necessaria all'aumento del reddito nazionale, mentre Chydenius si accontentava di riconoscerla come inevitabile per ragioni politiche e per questo si preoccupava di suggerire criteri per renderla il meno dannosa possibile.

Nella pagine iniziali Chydenius afferma che condizioni necessarie alla prosperità sono la divisione del lavoro e il commercio, sia tra individui sia tra nazioni, e che il criterio per la divisione del lavoro tra nazioni sia la specializzazione nel settore o nei settori a più elevata produttività del lavoro. Queste sono chiare anticipazioni non solo del principio della divisione del lavoro enunciato da Adam Smith (ma prima di lui da Platone) ma anche dell'idea che quello che conta per il commercio internazionale è il vantaggio comparato e non quello assoluto, un'idea resa celebre da David Ricardo.

Il problema, secondo Chydenius, è che le leggi distorcono la naturale tendenza degli individui a creare ricchezza mediante specializzazione e scambio. Per quattro ragioni:

  1. La regolamentazione economica è molteplice e ogni pezzo di legislazione persegue obiettivi diversi e indipedenti. Questa frammentazione crea necessariamente un sistema scriteriato e quindi, molto probabilmente, dannoso.
  2. Nessuno statista e nessun regolatore possiede sufficiente conoscenza per organizzare l'attività economica in modo da massimizzare la 'ricchezza della nazione'. Questo è un punto fondamentale che anticipa le osservazioni di Hayek e la genesi di mechanism design.
  3. Anche se lo statista e il regolatore possedessero tutta la conoscenza necessaria, i loro incentivi non sono necessariamente allineati a quelli della collettività. Questo, invece, è il bread&butter di chi studia political economy.
  4. Infine, anche se gli incentivi fossero invece allineati, resta il fatto che anche la più perfetta regolamentazione cambierà sempre meno rapidamente delle circostanze economiche. Citando letteralmente:

Fra le migliaia di possibilità, la legge - sebbene sia la migliore possibile - è pertanto utile solo in un'unica circostanza, vale a dire quella per cui è stata concepita, ma dannosa in tutte le altre.

A me quest'ultima sembra una perla. I giuristi ci spiegheranno che per questo c'è il principio di generalità del diritto. Bene, fatevi avanti e discutiamone.

    L'inevitabile risultato è la creazione di rendite di ogni tipo (da quella del monopolista a quella del politico), che Chydenius ritiene particolarmente dannose perché ingolfano il motore della prosperità, ossia l'aumento della produttività:

    In una società, più opportunità ci sono per alcuni di vivere sulla fatica degli altri, meno questi stessi altri possono godere dei frutti del loro lavoro e più si affossa la laboriosità. I primi diventano arroganti, mentre i secondi diventano disperati ed entrambi negligenti.

    Cosa suggerisce di fare, in conclusione, Chydenius? Naturalmente ridurre il numero di leggi e regolamenti che vincolano la libertà economica:

    Un'unica legge, vale a dire quella di ridurre il numero delle nostre leggi, è da allora diventata una materia di lavoro piacevole per me, la quale voglio altamente raccomandare come principale e più importante, prima che ne siano inventate di altre nuove.

    Non so se ci sia riuscito. Probabilmente no. Anzi, sicuramente no. Questa raccomandazione è altamente impopolare tra chi trae legittimazione dalla produzione di leggi, nonostante il fumo (letterale) della propaganda. Ma di certo aveva ottime ragioni, che sono ottime ancora oggi, per provarci.

     

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