Il pluralismo in Italia, un'analisi economica

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Il tema pluralismo dell'informazione in Italia è terreno di scontro duro e vivace ma raramente di analisi teoriche ed empiriche accurate. Questo bel libro di Michele Polo era quindi necessario. Il libro, oltre a fornire una serie di dati utili per la comprensione del sistema informativo italiano, affronta l'analisi del settore con gli strumenti della moderna economia industriale. Chi conosce anche solo superficialmente le vicende italiane sa benissimo che non è certo un'analisi ben fatta che può portare a un cambiamento dell'attuale disastrosa situazione. Ma noi siamo accademici, e le analisi ben fatte ci piacciono a prescindere.

Avvertimento: l'autore è un mio amico e collega, ci conosciamo da più di vent'anni.

Siccome il libro mi è piaciuto e il post sarà in buona misura un lungo consiglio per l'acquisto mi pare opportuno, giusto per evitare di apparire troppo zuccheroso, iniziare dicendo cosa non mi è piaciuto. Si tratta di due cose, una sostanziale e l'altra formale.

Quella sostanziale è che a mio avviso manca una discussione di perché il pluralismo, soprattutto nella forma in cui è inteso in Italia, è importante. Prima che mi prendiate per pazzo, cerco di spiegarmi con un esempio molto semplice. Considerate due mondi possibili. Nel primo esiste un unico giornale in cui scrivono giornalisti competenti che hanno come unico obiettivo quello di raccontare gli avvenimenti politici ed economici con la massima obiettività possibile. Essendo esseri umani non sempre ci riescono e qualche volta sbagliano anche in modo clamoroso, ma gli errori tali sono considerati e i giornalisti fanno del loro meglio per evitarli. La loro carriera si basa infatti su questo: quelli che fanno meno errori sono considerati più bravi e vanno avanti, quelli che di errori ne fanno tanti rischiano il licenziamento. Nel secondo esistono due giornali, di opposte tendenze politiche. Nessuno dei due cerca di riportare le notizie in modo obiettivo. Al contrario, le notizie vengono accuratamente selezionate in modo da far comodo alla parte politica che si rappresenta. Esagerazioni, sottovalutazioni e perfino pure e semplici menzogne sono all'ordine del giorno. I giornalisti pensano che il loro dovere principale sia quello di favorire la parte politica di riferimento, anche a scapito della verità, e la loro carriera è di fatto basata sulla fedeltà con cui servono la propria parte politica.

Il primo mondo è un mondo senza pluralismo informativo, mentre il secondo è un mondo in cui il pluralismo c'è. Credo però che, almeno tra i lettori di questo blog, tutti preferiremmo vivere nel primo mondo. Ora, è chiaro che è meglio un mondo con due giornali menzogneri ma di segno opposto rispetto a un mondo in cui esiste un unico giornale menzognero di regime, e se questa è la scelta è giusto preoccuparsi di garantire che almeno ci sia pluralismo nella menzogna. Però mi sarebbe piaciuto un capitolo addizionale, antecendente agli altri, in cui Michele Polo ci spiegasse perché è così difficile raggiungere l'obiettivo di una stampa indipendente, scevra da distorsioni e gestita in modo competente. E' un tema questo di grande importanza, e non solo in Italia. Gli Stati Uniti hanno visto, con il sorgere e il diffondersi delle televisioni via cavo, una espansione di canali con chiara distorsione politica. Il successo di questi canali fa pensare che parecchi ascoltatori siano più interessati alla conferma dei propri pregiudizi che alla fornitura di informazione competente e imparziale. Come e perché questo sia successo e cosa fare per stimolare la produzione di informazione di qualità sono temi assai complicati e sui quali è difficile trovare dati affidabili (pensate alla difficoltà di elaborare un indice di imparzialità per un giornale). Michele Polo ha affrontato solo marginalmente questa discussione, preferendo dare per scontato che l'unico mondo possibile è quello in cui gli organi di informazione tendono a essere distorti e l'unica variabile su cui si può ragionevolmente intervenire è la disponibilità di distorsioni di diverso segno e natura. E' un approccio sensato e realistico in un libro che guarda in primo luogo al caso italiano, ma ripeto che avrei preferito vedere la questione meglio discussa.

Quella formale riguarda il titolo, quel ''perché il mercato non basta''. Chi legge il libro capisce chiaramente quel che l'autore intende dire e in che senso è necessario regolare alcuni settori dei media, segnatamente televisioni e giornali (Polo spiega anche che nel caso di radio e internet il mercato funziona assai bene e non ha bisogno di interventi). Però, visto che in Italia i problemi principali derivano dalla pesante interferenza statale particolarmente nel settore televisivo, forse un sottotitolo differente sarebbe stato più chiaro e avrebbe meglio riflesso il contenuto del libro. Ad ogni buon conto, questa è decisamente una cosa minima.

Bene, detto questo veniamo alle ragioni per cui questo libro è ottimo e va letto da tutte le persone interessate al tema. Il libro è dedicato all'analisi dei mercati dei media, che hanno come prodotti principali intrattenimento e informazione. In particolare, i quattro mercati presi in considerazione sono quelli della televisione, della carta stampata, della radio e di internet. E' probabile che un giorno questi mercati tenderanno a unificarsi o più esattamente, per dirla con gergo da economisti, che il grado di sostituibilità tra i diversi prodotti diventerà estremamente alto. Finora però questo è successo solo in misura assai parziale, soprattutto in Italia, per cui è legittimo ipotizzare che per il futuro prossimo tali mercati resteranno fortemente segmentati. L'evidenza empirica a nostra disposizione inoltre mostra che i diversi mezzi informativi hanno una importanza molto differente nella formazione dell'opinione pubblica. Una indagine del CENSIS del giugno 2009 mostra che, durante la campagna elettorale per le elezioni europee, il 69,3% degli elettori ha usato come fonte informativa il telegiornale mentre solo il 2,3% ha usato internet. Questi numeri sono destinati a cambiare nel tempo (la preponderanza del mezzo televisivo è assai più accentuata nella parte più anziana e meno educata della popolazione) ma il cambiamento sarà lento.

Questa segmentazione fa sì che abbia senso analizzare separatamente questi quattro mercati, che risultano essere assai diversi sia per struttura di costi sia per caratteristiche della domanda. Cominciamo dalle buone notizie. Radio e internet non presentano problemi di sorta. I costi di ingresso sono bassi, la domanda diversificata e le barriere alla concorrenza praticamente inesistenti. La conseguenza è lo sviluppo di autentici mercati concorrenziali, con un basso indice di concentrazione e nessuna seria minaccia al pluralismo. In questi mercati quindi il mercato basta e avanza. Per televisioni e giornali invece la storia è molto diversa.

Dato che lo spazio è limitato ignorerò la carta stampata (che pure è trattata diffusamente nel libro) e mi concentrerò sulla televisione, che resta il mezzo principale di formazione dell'opinione pubblica. Ignorerò inoltre, sempre per motivi di spazio, i canali a pagamento, che pure sono destinati a diventare importanti e sono discussi nel libro, e mi concentrerò sui canali ''in chiaro''. In Italia i primi 6 canali raccolgono circa l'80% dell'audience. Questo è noto, ma la cosa interessante è che non è un'anomalia: cifre molto simili si osservano negli altri paesi europei.  Questo porta a concludere che il mercato in questione è un oligopolio naturale, in cui forze tecnologiche e di mercato portano alla sopravvivenza di un numero limitato di imprese. L'altra cosa interessante è che, abbastanza curiosamente, questo numero limitato di imprese non sembra dipendere dalle dimensioni del mercato: i canali televisivi in chiaro sono pochi sia in Spagna sia negli Stati Uniti, nonostante il fatto che il mercato statunitense sia enormemente più grande. Come è possibile? La spiegazione avanzata nel libro è che l'industria televisiva è caratterizzata da ''costi fissi endogeni''. In sintesi, funziona così. I canali televisivi competono per audience, che a sua volta genera incassi pubblicitari. L'audience è principalmente legata ai contenuti. Una vasta fetta del pubblico tende ad avere gusti abbastanza omogenei ed è attratto da alcuni eventi specifici, come la finale di Champions League o il festival di Sanremo, o da alcune personalità (si pensi a Michele Santoro o Paolo Bonolis). La concorrenza per il diritto a trasmettere tali eventi e ingaggiare tali personalità è ciò che genera i costi fissi endogeni. In sostanza, una situazione concorrenziale con molte piccole televisioni è impossibile perché la gara tra le diverse imprese per accaparrarsi eventi e personalità che generano audience fa alzare i costi. D'altra parte, ottenere tali eventi e personalità fa aumentare gli introiti pubblicitari. Il risultato di questo processo è che solo poche imprese possono sopravvivere e competere. Si noti che questo spiega anche perché mercati con dimensione assai diversa tendono ad accomodare un numero simile di imprese: quanto più grande il mercato tanto più si è disposti a pagare per eventi e personalità che portano pubblico, per cui i costi di acquisizione di contenuti desiderabili cresce di pari passo. Questa è la differenza tra costi fissi endogeni e i più standard costi fissi esogeni (per esempio il costo dei ripetitori).

In una situazione di oligopolio naturale è logico che il mercato non basti ed è naturale prevedere un intervento dell'autorità antitrust. Michele Polo fa però notare che questo è insufficiente; tra le varie ragioni ne riporto un paio che trovo particolarmente convincenti. In primo luogo il pluralismo dell'informazione è un bene in sé, o se vogliamo usare un linguaggio più tecnico genera esternalità positive. Nell'analisi antitrust tradizionale, per esempio, per approvare una fusione si comparano i risparmi in termini di costi di produzione con i possibili costi sociali in termini di maggiori prezzi derivanti da un aumentato potere di mercato. Se i risparmi sono sostanziali l'autorità antitrust può giungere anche ad approvare la creazione di un monopolio. Ma questo ignora il fatto che nel caso della produzione di informazione la diversità è un bene in sé, per cui ad esempio un monopolio non dovrebbe mai essere ammesso. Per questo l'autore del libro propone un filtro aggiuntivo, nella forma di una autorità separata da quella antitrust e dedicata alla difesa del pluralismo.

La seconda ragione ha a che fare con l'opportunità di vigilare sulla proprietà dei mezzi di informazione. Nell'analisi antitrust classica, se una impresa di sardine compra una impresa di scarpe nessun intervento viene richiesto, dato che non c'è ragione di supporre che da tale acquisizione derivi alcun danno sociale. Nel caso della proprietà dei media le cose stanno diversamente. Il controllo dell'informazione può essere scambiato con favori politici, un fatto che risulta particolarmente dannoso se i proprietari operano in settori soggetti a intensa regolamentazione pubblica.  La vicenda Alitalia è da questo punto di vista esemplare. Intesa-San Paolo, Pirelli e Benetton hanno tutte partecipato alla cordata di acquisizione e al tempo stesso hanno importanti quote in RCS, l'editoriale che controlla il Corriere della Sera. Difficile quindi stupirsi dell'atteggiamento genuflesso di questo giornale rispetto all'operazione. E' quindi opportuno, nel caso della produzione di informazione in settori caratterizzati da oligopolio naturale, imporre vincoli alla proprietà assai più stringenti che negli altri settori economici. La situazione ideale è ovviamente quella in cui i media sono in mano a editori puri senza interessi in altri campi.

Il capitolo finale del libro è dedicato all'analisi della regolamentazione attuale in Italia e a come andrebbe cambiata. Anche se in tutti i paesi il numero di canali televisivi è ridotto, l'Italia è un caso speciale perché viene permessa la proprietà di canali multipli da parte di un unico operatore. La Germania è l'unico altro paese in cui ciò è permesso. Le caratteristiche del mercato sono tali per cui l'equilibrio, in assenza di regolamentazione, porta verso il gruppo multicanale. Infatti un unico operatore può coordinare l'occupazione di diverse nicchie di mercato usando diversi canali (per esempio con un canale dedicato al pubblico più giovane e uno dedicato al pubblico più anzano) e usando potenziali sinergie, spingendo fuori mercato le imprese monocanale. Queste tendenze sono presenti sia in Italia sia in Germania, ma in Italia sono estreme: come è noto, per la televisione in chiaro la situazione è abbastanza vicina al duopolio perfetto.

Michele Polo spiega bene come l'attuale regolamentazione del settore risulti totalmente inefficace. Infatti i vincoli alla concentrazione vengono posti tenendo conto di un ''Sistema Integrato di Comunicazione'', un aggregato, come dice l'autore, risulta essere ''così ampio ed eterogeneo che, al suo interno, qualunque impresa appare come un piccolo o medio operatore''. I limiti di concentrazione sono definiti rispetto a questo aggregato, ed è facile vedere come in tal modo posizioni dominanti in alcuni settori (a caso, la televisione) riescano a sfuggire alle maglie della regolamentazione. La questione della appropriata definizione del mercato di riferimento è in verità assai standard nell'analisi antitrust, ed è spesso fonte di accese battaglie legali tra regolati e regolatori. E' ovvio infatti che quanto più si allarga il mercato di riferimento tanto più difficile sarà riscontrare posizione dominante (per esempio, un monopolista nel mercato delle scatolette di tonno può apparire come una piccola impresa nel mercato dei prodotti ittici). Nel caso dei media, la legge ha praticamente imposto la soluzione più vicina agli interessi del regolato; dato il modo in cui si è venuta sviluppando la normativa del settore, immagino che tale fatto non sorprenderà nessuno.

La proposta di Michele Polo è di guardare invece alle posizioni dominante nei singoli settori (televisione, giornali, radio e internet). Più esattamente, l'approccio generale dovrebbe essere quello di ''contrastare le posizioni dominanti nei singoli mercati, consentire la creazione di gruppi multimediali''. Per il caso della televisione la sua proposta è di intervenire sul duopolio attuale richiedendo agli attuali duopolisti di vendere almeno parte dei loro canali. Personalmente sarei un po' più radicale e richeiderei direttamente il divieto di controllare più di un canale nazionale, ma metterei tranquillamente la firma anche allal proposta di Polo. Purtroppo temo che in questo campo le proposte moderate di riforma abbiano la stessa possibilità di essere realizzate di quelle radicali, ossia zero.

Le proposte però non si fermano qui. Il sistema di regolazione italiano, oltre a fare ben poco per garantire il pluralismo, presenta anche alcuni tratti abbastanza curiosi. Uno di questi è il tetto all'affolamento pubblicitario che limita la quantità di pubblicità che può essere trasmessa dalle televisioni in chiaro. Polo spiega bene perché tale regolamentazione è inutile; in principio dovrebbe aiutare i giornali costringendo impedendo alle aziende che fanno pubblicità di usare esclusivamente il mezzo televisivo, ma in pratica le aziende non vedono la pubblicità televisiva e quella su carta stampata come sostituti. Si tratta quindi di una regolamentazione inutile e che andrebbe tolta.

Le proposte non si fermano qui, per esempio Polo discute anche come riformare il sistema dei contributi alla stampa, come regolare la proprietà dei media e varie altre cose, ma il pezzo è già troppo lungo per cui non vado oltre. Concludo semplicemente dicendo che questo è un libro da cui ho imparato parecchio. L'analisi è chiara e con solidi fondamenti teorici, i dati presentati sono altrettanto chiari e le proposte di riforma condivisibili. Non capita spesso.

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