Gli Imperi del Mare

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Una lapide sul castello di Porto Recanati - dove vivo - ricorda il capitano Paolo Gigli che guidò alla battaglia di Lepanto centonove recanatesi, di cui "non men che sei ritornarono".

In uno scambio di battute, qualche settimana fa, si parlava con Alberto Lusiani della battaglia di Lepanto, combattuta nel 1571 tra le flotte cristiana e musulmana. È stata l'occasione per andarsi a leggere e rileggere due libri sull'argomento.

Si tratta di "Imperi del mare" di Roger Crowley e "La Croce e la Mezzaluna" di Arrigo Petacco. Di taglio più giornalistico il secondo e un po' più storiografico il primo, ma entrambi di lettura assai piacevole e non troppo difficile. I fatti sono affascinanti e terribili, dato che si racconta di massacri, guerre, razzie e violenze per noi oggi inimmaginabili.

Il Mediterraneo, a partire dalla seconda metà del '500 fu il teatro di una costante pressione da parte delle flotte ottomane contro le coste e le isole cristiane. In particolare, ad essere minacciate erano le isole greche (allora per la maggior parte in mano veneziana) e le coste dell'Italia meridionale e della Spagna. I turchi, oltre che da voglia di conquista, miravano anche e soprattutto a rifornirsi di schiavi che, smerciati nei grandi mercati di Algeri, Tunisi e Istanbul erano indispensabili per consentire il commercio marittimo, dato che rappresentavano il carburante umano senza il quale le galee non erano in grado di viaggiare.

Tutti i paesi costieri del sud Italia hanno le loro storie e tradizioni di saccheggi e massacri perpetrati dai pirati saraceni e tutta la costa del Mezzogiorno è puntellata dalle torri di avvistamento che furono edificate proprio per avvertire in tempo l'avvicinarsi delle navi pirata, spesso comandate da rinnegati cristiani, magari nati in Calabria, Sicilia o Serbia. Dopo la conquista di Rodi nel 1522 e la cacciata dei suoi Cavalieri che andarono a ricostruire il loro dominio a Malta, fu una continua escalation che culminò nell'assedio di Malta del 1565 e, soprattutto, nella conquista di Cipro, strappata ai veneziani dopo un epico assedio della città di Famagosta durato un anno, con 80.000 morti tra i turchi e il terribile supplizio del comandante veneziano, Marcantonio Bragadin, torturato, scuoiato vivo ed impagliato dopo essersi arreso. A Venezia, mi dice Michele, si commenta ancora "Non scordarti di Marcantonio Bragadin!"

Le vicende di Cipro accelerarono l'alleanza cristiana: vincendo reciproci sospetti e rivalità l'impero spagnolo e Venezia aderirono alla Lega Santa promossa da Pio V, papa inquisitore e nemico delle eresie. A temere per la propria stessa sopravvivenza era Venezia, che dopo aver cercato una decennale politica di convivenza con l'impero turco, fatta di corruzione dei gran visir, doppio gioco, neutralità ostentata durante l'assedio di Malta, si ritrovava ora col rischio concreto di vedere i mori in laguna. Fu quindi in una atmosfera di fine imminente e di ultima spiaggia che fu costituita la flotta della Lega Santa, che sempre tra sospetti e timori reciproci, riuscì tuttavia a sconfiggere il turco a Lepanto.

La battaglia di Lepanto è, a suo modo, una battaglia "italiana" (termine controverso e un po' poco preciso data l'epoca storica; a breve discutiamo più a fondo la composizione delle truppe). Non nel senso politico, ovviamente, ma nel senso nazionale del termine. Sebbene la flotta fosse comandata da Giovanni d'Austria, figlio naturale di Carlo V e quindi fratellastro di Filippo II di Spagna, erano italiani i principali comandanti, dal veneziano Sebastiano Venier, al genovese Gianandrea Doria, al romano Marcantonio Colonna ed erano italiani la maggior parte delle navi e degli equipaggi, dato che la componente spagnola della flotta era in realtà composta soprattutto da galee napoletane o siciliane e solo pochi furono i vascelli esclusivamente spagnoli (qui l'ordine di battaglia).

Naturalmente Venezia, che aveva maggior interesse a fermare i turchi oltre che maggiori risorse e competenze, fornì la maggior parte delle navi, mentre le spese furono sopportate al 50% dalla Spagna, da Venezia per un terzo, dal Papa per un sesto ed il resto dagli altri "soci" di minoranza, vale dire il ducato di Savoia, Genova, i Cavalieri di Malta ed il Granducato di Toscana e naturalmente in egual misura fu ripartito poi il bottino.

Va poi ricordato, che in una battaglia navale dell'epoca, la nave col suo equipaggio rappresentava solo una parte del potenziale militare, dato che altrettanto importanti erano i fanti e gli archibugieri imbarcati che conducevano gli arrembaggi.

I veneziani erano a corto di fanti e dovettero far ricorso a 1.200 calabresi per rafforzare le proprie fila, oltre che contare sui propri rematori che per la maggior parte non erano schiavi e quindi idonei al combattimento, mentre il resto della fanteria imbarcata era composta, oltre che da tremila mercenari tedeschi, da circa novemila italiani e da altrettanti spagnoli.

In realtà molti "spagnoli" provenivano dai possedimenti italiani dell'Impero di Filippo II, tanto che a difendere la "Real", nave ammiraglia di Giovanni d'Austria, dall'abbordaggio della "Sultana", nave ammiraglia turca, furono i soldati e gli archibugieri del "tercio" di Sardegna.

Entrambi i libri consigliati raccontano la battaglia e i numerosi episodi di valore, di odio e di violenza che accaddero: dalla rivolta degli schiavi cristiani su alcune galee turche, ai quali pure era stata promessa la libertà in caso di vittoria, agli schiavi turchi sulle galee cristiane ai quali erano stati invece raddoppiati i ceppi affinché fosse chiaro che sarebbero andati a fondo con la nave in caso di sconfitta (Michele da buon economista si chiede quale dei due sistemi fosse incentive compatible), al settantacinquenne ammiraglio Venier che lanciava dardi con la sua balestra, alla galea dell'Ordine di Malta nella quale solo il comandante fu ritrovato in vita, alla testa dell'ammiraglio turco Alì Pascià issata sull'albero maestro della Real dopo la vittoria e così via.

Si trattò di una anticipazione dei massacri che le guerre future avrebbero portato: in sole quattro ore morirono più di quarantamila uomini e più di cento navi vennero distrutte. Si trattò anche di una guerra ideologica, dove l'ideologia era la religione delle rispettive flotte, con le navi cristiane che innalzavano la croce su ogni pennone mentre le navi turche erano guidate dalla bandiera verde dell'Islam issata sulla Sultana, sulla quale era stato ricamato innumerevoli volte il nome di Allah. Come disse Miguel de Cervantes, che combattè a Lepanto, venendo ferito ad una mano,

"fu la giornata più avventurosa che abbiano avuto le armi cristiane".

Dopo Lepanto la spinta turca perse vigore, senza ovviamente che la minaccia scomparisse, e ancora sino al '700 le coste meridionali d'Italia furono esposte al pericolo dei pirati saraceni, ma se il Mediterraneo non divenne un lago turco è stato "merito" di Lepanto. Ancora una volta riporto le parole di Cervantes, attraverso Don Chisciotte:

In quel giorno che riuscì per la Cristianità sì felice, essendosi disingannato il mondo dell'errore in cui stava che i turchi fossero invincibile in mare.

I libri consigliati sono una buona occasione per riscoprire un periodo storico oggi poco conosciuto. Ma forse è meglio così: considerando che si trattò effettivamente di scontro tra Islam e Cristianesimo, alla Lega (non santa, ma Nord) potrebbe venir voglia di farci un film, dopo quello su Alberto da Giussano e Barbarossa.

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