Fatto lo stato, mancano ancora i cittadini

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Secondo il Il libro-manifesto dell'Istituto Bruno Leoni, il rapporto tra stato e individuo in Italia è alla base di tutti i problemi irrisolti dei primi 150 anni di vita del nostro paese e il punto di partenza per porvi rimedio nei 50 anni che ci separano dal bicentenario. Il libro, in realtà, riesce a dare al tempo stesso di meno e di più di quel che promette. Vediamo perché.

Che gli italiani si sentano spesso più sudditi che cittadini risponde al senso comune di chiunque abbia un minimo di confidenza con il nostro paese; è appunto con la definizione di suddito che si apre a raccolta di saggi brevi curata da Nicola Rossi per l'Istituto Bruno Leoni (grassetto nostro):

 

Sùddito agg. e s. m. (f. -a) [dal lat. subdĭtus, part. pass. di
subdĕre «sottomettere, assoggettare», comp. di sub- e dare
«dare»]. – 1. agg., letter. Sottoposto a un’autorità sovrana: la
regina Cui questo regno è s. e devoto (Dante). 2. sost. a. Ogni
soggetto che si trova in condizione di dipendenza dalla sovranità
dello stato; in partic., e in antitesi a cittadino, il soggetto che
dipende dalla sovranità dello stato senza esserne membro: i s.
coloniali; gli apolidi sono s. dello stato che li ospita. Nell’uso
corrente indica anche chi è subordinato a uno stato organizzato
in monarchia assoluta, oppure il cittadino considerato non in
rapporto allo stato ma al monarca:

 

La sensazione viene meticolosamente confermata man mano che, nel  corso del libro, il rapporto stato-invididuo viene esaminato nelle numerose sedi in cui si manifesta. Se il profilo fiscale, come è facilmente immaginabile, la fa da padrone fin dall'introduzione, non mancano altri interessanti punti di vista meno usuali, come l'ottica dell'investitore estero, testimoniata da Fabio Scacciavillani, il voltafaccia sulle energie rinnovabili, raccontato da Carlo Stagnaro, il proliferare legislativo a scopo autoassolutorio illustrato da Pietro Ichino. L'apice dello squilibrio si raggiunge con il concetto di ''abuso di diritto'', spiegato da Franco Debenedetti. Quest'ultimo concetto, come spiega Debenedetti nel suo saggio, è stato introdotto non per via legislativa ma mediante una sentenza della Corte di Cassazione. L'idea è semplicemente che i contribuenti devono evitare quegli atti ''che si traducono in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale''. In sostanza, l'amministrazione fiscale può perseguire un contribuente anche se nessuna legge è stata formalmente infranta, se ritiene che certe operazioni siano state compiute unicamente per massimizzare il risparmio fiscale. 

Da qualsiasi angolo lo si guardi, il rapporto appare sempre squilibrato, improntato a regole che sarebbero inaccettabili in un contratto tra pari e questo squilibrio si presenta come una chiave di lettura particolarmente efficace per inquadrare praticamente tutte le disfuzioni del nostro paese, dalla pressione fiscale insostenibile che i sudditi sono costretti a sopportare, alla scarsa produttività di un apparato statale che può permettersi impunemente un atteggiamento autoreferenziale e slegato dalle logiche di mercato, alla selva di regole distorsive ed eccezioni interminabili.

Al lettore di nfA la lettura risulterà per molti versi familiare, visto che molti dei temi trattati sono stati e sono ancora oggi affrontati di frequente su questo sito. La principale differenza di approccio consiste nel fatto che mentre su questo blog l'accento è in prevalenza sul profilo  economico,il volume curato da Rossi pone maggiore attenzione agli aspetti politico-giuridici, sebbene, come è facile immaginare,  i due punti di vista costituiscono molto spesso due facce della stessa medaglia.

Ma vediamo perché diciamo che il libro finisce per dare al tempo stesso di più e di meno di quello che promette.

Perché dia di meno è presto detto. Nessuno, ma proprio nessuno, può sperare di definire un'agenda politica per i prossimi 50 anni. Fate per un momento mente locale su cosa era l'Italia 50 anni fa, nel 1962. Era un paese in cui si poteva finire in galera se si parlava di contraccezione. Era un paese in cui il divorzio era illegale. Era un paese in cui l'analfabetismo era ancora un problema diffuso, e non solo per le generazioni più anziane. Last but not least, era un paese in cui l'Inter non aveva ancora vinto una Coppa dei campioni (non c'entra nulla, ma certe cose vanno ricordate). Insomma, era una paese radicalmente differente da quello attuale e sull'orlo di enormi cambiamenti (particolarmente rapidi per l'Inter). Se qualcuno avesse provato a scrivere un programma per i diritti civili 50 anni fa dubitiamo fortemente che molti temi che tanto agitano il dibattito corrente, dal matrimonio omosessuale al trattamento delle cellule staminali, avrebbero ricevuto la minima attenzione. Non sappiamo di cosa si discuterà nel 2062, e il più vecchio di noi due teme fortemente che non riuscirà mai a saperlo, ma molto probabilmente sarà qualcosa che al momento non riusciamo neanche a immaginare. Poco male comunque. La promessa di un programma per i prossimi 50 anni è chiaramente esagerata ma il libro resta ottimo, e senz'altro aiuta a chiarire la prospettiva e definire un programma almeno per le prossime due legislature. Non c'è bisogno di più.

La ragione per cui invece il libro da più di quello che promette è un pelino più sofisticata. Il libro fornisce non solo un programma ma anche una base di analisi che meglio aiuta a capire il rapporto tra Stato e cittadini a partire dall'unificazione del paese. Da questo punto di vista è veramente illuminante il primo capitolo, scritto da Giorgio Rebuffa, sullo scontro dottrinale che nei primi decenni dell'unificazione si svolse tra differenti scuole giuridiche, in particolare riguardo alle basi del diritto amministrativo. Il saggio rischia di generare scoramento: se le radici della asimmetria tra Stato e cittadino sono così profonde, se l'idea della supremazia della macchina amministrativa pubblica rispetto ai diritti degli individui è così intimamente connessa con la nostra cultura giuridica (se non con la nostra cultura tout court), cosa possiamo fare?

Perfino legiferare in modo corretto sembra non produrre risultati. Il concetto di ''abuso del diritto'' di cui parla Debenedetti è infatti di origine giurisprudenziale. Si aggiunga il capitolo in cui Natale d'Amico racconta la triste storia dello statuto dei diritti del contribuente, una legge piena di buone intenzioni approvata una dozzina di anni fa (e a cui contribuì in modo determinante proprio d'Amico) e il quadro risulta ancora più deprimente.

Ma farsi prendere dallo scoramento sarebbe sbagliato. Il modo giusto di leggere il libro è quello di prendere coscienza di quanto lavoro ci sia da fare per riformare lo Stato italiano e di quanto profonde siano le sue storture. Ma il fatto che un lavoro sia immane non è una buona ragione per evitarlo. È al contrario una buona ragione per mettersi all'opera subito e in modo deciso, avendo la chiara nozione che molte delle incrostazioni e inefficienze contro cui si finirà per combattere hanno radici che non è esagerato definire secolari. Sta diventando di moda l'espressione ''rivoltare lo Stato come un calzino''. Questo libro aiuta a capire non solo perché questo va fatto ma anche perché è così difficile farlo.  È quindi una chiamata alle armi per un rinnovamento profondo sia della macchina amministrativa sia della società italiana. Quanto tale chiamata sarà efficace lo vedremo nei prossimi anni.

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