Devozioni senza Speranza

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Con il suo nuovo libro, il Senatore MarcelloPera si dimostra incapace di rispettare l’esortazione di Pietro (1Pt 3,14-17: “Pronti sempre a rendere ragione della speranza che è in voi”) e ci lascia con più dubbi che speranze. Indifferenti al Mistero ci travagliamo piuttosto dinnanzi a un più profano mistero: come possono argomentazioni così deboli passare nei giornali e nelle case editrici senza provocare un'alzata di scudi?

L’ultima fatica del Senatore Marcello Pera (d’ora in poi M.P.) riguarda, ancora una volta viene da dire, la questione assai dibattuta del ruolo che la religione, nello specifico quella cristiana e cattolica, dovrebbe avere nella sfera pubblica per motivare e sostenere l’esistenza di uno spazio pubblico, politico, nel quale i cittadini possano unanimemente riconoscersi. Secondo M.P. il cristianesimo potrebbe assolvere a una precisa funzione di generazione dei valori morali non solo nello spazio ridotto delle singole nazioni, ma addirittura nell’intera Europa.

La tesi di Pera può essere sintetizzata come segue. Diagnosi: L’Europa, e tutti i singoli stati nazione che appartengono all’Unione Europa, vivono una scristianizzazione che induce a) una perdita di valori morali nei singoli e nelle collettività politiche; b) lascia gli stati dell’Unione Europea privi di un collante capace di dare un’anima alla già raggiunta unificazione monetaria e burocratica. Terapia: bisognerebbe riconoscere che il liberalismo, già parzialmente assurto a ideologia di fondo dell’Unione Europea,è intimamente legato al Cristianesimo, sia dal punto di visto storico sia dal punto di vista teorico. Senza questo riconoscimento previo, l’Europa è destinata a rimanere senza radici, perché priva dell’afflato vivificatrice del Cristianesimo, e lo stesso liberalismo sarebbe condannato ad un triste solipsimo edonistico, divenendo la copertura ideologica al consumismo e al capitalismo “senza regole”.

PARSDESTRUENS

Lo spettro delle possibili obiezioni a questa tesi è assai ampio, ne prenderò in esame solo alcune.

Obiezione empirica. Sostenere che il Liberalismo, privato della sua radice religiosa, è destinato a scomparire è empiricamente falso. Poniamo pure che il liberalismo sia effettivamente preda di una scristianizzazione in atto, o anche pienamente compiuta: forse che esso è scomparso come ideologia politica o economica? Io direi di no, almeno a giudicare dalle pubblicazioni accademiche sul liberalismo politico o dalle discussioni, accademiche e non solo, in merito a come meglio interpretare e implementare quei principi di libertà economica che si esercitano nei mercati. Dunque, il liberalismo come ideologia politica o filosofica, e come prescrizione di politica economica, continua ad esistere, seppure i suoi presupposti cristiani siano, secondo M.P., caduti in oblio.Secondo questa prima obiezione, dunque, il Senatore farebbe bene a circoscrivere con più precisione i termini della discussione, precisando che ciò che lui discute non sono il liberalismo e il cristianesimo in quanto tali, ma la sua personale descrizione di cosa cristianesimo e liberalismo dovrebbero essere, da soli o in combinazione. Quanto appena detto è banale, del resto tutti quando parlano, parlano di quanto interessa loro; però in questa luce, le parole di M.P. perdono l’ineluttabilità della diagnosi irreversibile e si presentano nella luce più fioca di una auspicio idiosincratico.

Obiezione anti-storicistica. Con ironia si dice che i filosofi corrano rischi professionali di particolare natura: certo, si salvano dal cadere da ponteggi non in sicurezza, ma corrono il rischio di confondere ciò che pensano con ciò che accade. Mettiamo in sicurezza M.P. Assumiamo ancora una volta la bontà della sua tesi storico-filosofica, ovvero che vi sia una filiazione diretta tra il Cristianesimo e il Liberalismo, e che dunque l’ultimo non sia che un fenomeno interamente derivato dal primo, secondo linee di sviluppo culturale, ideologico e addirittura teologiche, perfettamente trasparenti e accessibili a tutti gli studiosi di storia della filosofia politica. In realtà, tale consenso interpretativo è assente tra gli studiosi che si occupano di tali questioni, ma assumiamo pure che tale consenso esista.

Ebbene, come potremmo ricavare, da questo fatto, l’obbligo per il liberalismo (in realtà qui l’obbligo sarebbe tipicamente ascrivibile a quanti si professano liberali, mi si passi comunque quest’uso metonimico dei termini) di stare entro la tradizione culturale cristiana, che secondo M.P, avrebbe generato il liberalismo medesimo? In punto di fatto, se è vera la diagnosi di M.P., non sussiste una costrizione de facto per i liberali a stare dentro quella tradizione, perché appunto il liberalismo (si) sarebbe già scristianizzato. Dunque la sua più che una diagnosi è ancora una volta una partecipata invocazione a che le sue personali preferenze, un liberalismo religioso, si realizzino per il maggior numero di persone. Inoltre, è assai ironico che colui che non manca di ricordare, giustamente con orgoglio, i suoi legami intellettuali con il filosofo Karl Popper, si produca poi in forme di storicismo così scoperte: è stato proprio Popper a criticare le miserie dello storicismo.

Ma dove starebbe lo storicismo di M.P.? Esso risiederebbe nell’idea, che lui dovrebbe giudicare erronea, di poter stabilire nella Storia gradi di sviluppo prevedibili a partire da una ricostruzione filosofica del passato, e di poter ricavare da tali ricostruzioni filosoficamente generali principi di condotta per il futuro. Poniamo dunque che la sua ricostruzione storica e filosofica sia corretta, in che senso potremmo dire che è la rilettura di certi filosofi o teologi, o il semplice di studio del momento generativo di un’ideologia, a poter essere sufficiente per giustificare l’accettazione di quanto sostenuto da certi autori o l’accettazione in toto della base dottrinaria da cui si presume sia derivato il liberalismo? Se anche fosse vero che il liberalismo è derivato dal Cristianesimo, potremmo comunque, al giorno d’oggi, reputare che quel legame debba andare superato. Mi pare che qui M.P. ricada ancora in un rischio professionale tipico della pratica filosofica: presentare i propri argomenti ricavando l’autorevolezza di questi a partire dallo svolgimento storico-filosofico di idee che guarda caso mettono capo proprio alle tesi che interessano l’autore. In genere, tali stratagemmi argomentativi sono sempre sospetti, perché si rischia di forzare i classici del pensiero a sposare tesi che forse quelli non avrebbero sottoscritto; in questi casi è fondamentale dunque che l’attribuzione di certe tesi ad autori defunti, come John Locke edImmanuel Kant, avvenga nella più stretta adesione alle parole di questi, in maniera filologicamente rispettosa ed argomentata. Se non lo si fa, ci si espone all’obiezione che segue.

Obiezione contro l’autorità (presunta). Usare frasi singole di autori giudicati “importanti”, al fine di sostenere tesi estranee agli autori discussi - senza neppure una discussione filologica dei testi e del tipo di coerenza che essi presuppongono rispetto a quanto sostenuto dall’autore complessivamente - è nulla più che un argomento ad auctoritatem. Infatti, laprofessione di fede di alcuni filosofi poteva forse essere strumentale a garantirsi protezione politica o a conformarsi a prescrizioni di fede della comunità di appartenenza; in quei casi esse perderebbero molto dell’alone nobile che possiedono a prima vista. Se fra 150 anni, l’ipotetica adesione al Cristianesimo di un mio lontano discendente, nel frattempo iscrittosi a Forza Italia, fosse giustificata sulla base dell’argomento che un celebre filosofo liberale di Forza Italia era anche cristiano, chi potrebbe ricavare da tale rivelazione un argomento decisivo perché un liberale debba essere necessariamente cristiano? Se noi non possiamo accertare, se non a prezzo di un poderoso lavoro filologico, le vere intenzioni retrostanti alcune frasi sul Cristianesimo pronunciate, per esempio da Kant, possiamo più ragionevolmente tralasciare gli aspetti del suo pensiero più direttamente collegati con le sue vicende personali di fede ed enfatizzare aspetti più promettenti della sua concezione morale, al punto da elaborare una concezione dell’autonomia morale molto più radicale di quanto inizialmente pensato da Kant. Un lavoro filosofico ambizioso come quello di M.P avrebbe dovuto fare almeno una delle due cose: o argomentare filologicamente a favore delle sue riletture dei classici del liberalismo o mostrare come argomentativamente esse possano essere conciliate con la ricezione e interpretazione condivisa di quegli autori. Mancando entrambe, l’uso di frasi fuori contesto può costituire l’elegante intestazione epigrafica del libro o dei capitoli, ma non una convincente argomentazione a favore delle tesi dell’autore.

L’obiezione instrumentum regni. Raramente tesi tanto ardite, ai nostri giorni, sono affermate con tanta baldanza. La baldanza risiede nel collegare in maniera esplicita la costruzione di una nuova sovranità politica, l’Unione Europea, con l’adozione di un apparato ideologico-religioso. Una simile proposta rende minacciosa la costruzione politica che su quelle fondamenta vorrebbe erigersi e impoverisce il cristianesimo, e il cattolicesimo, del loro afflato universale, collegandoli in maniera speciale a una porzione esigua del mondo, l’Europa. Il progetto politico diviene minaccioso perché potenzialmente esclusivo ed escludente di chi non si riconosca nella concezione liofilizzata di Europa di M.P.; la religione è degradata, a mio parere, perché si associa in maniera troppo scoperta ad un progetto politico, divenendo appunto instrumentum regni. Anche a questo proposito, è singolare l'entusiasmo con il quale le gerarchie vaticane plaudono ad un simile progetto: come possono tollerare che la loro fede diventi mezzo di giustificazione di un processo politico su cui non hanno un controllo diretto? Non temono di poter essere essi stessi utilizzati per fini che non sono religiosi ma politici?

PARS COSTRUENS

Nella parte precedente ho dato a intendere che alcune tesi di M.P. potessero essere accolte, seppure con beneficio d’inventario, al fine di mostrare che anche se vere esse non avrebbero potuto sottrarsi comunque a critiche esterne ad esse. Adesso intendo svolgere un’argomentazione più costruttivamente slegata dalle parole del senatore.

Una riflessione su cosa sia il liberalismo e come sia più coerente intenderlo, alla luce dei suoi presupposti teorici e della sua genesi storica, è cosa assai complessa, ma si può cercare di semplificare tale coacervo di questioni riducendolo ai suoi elementi primi, siano essi storici o teorici. A voler trovare uno sfondo teorico accettabile e informato di cosa sia il liberalismo, si può iniziare da qui, se invece si desidera una riflessione meno filosofica e più “politica” si può guardare qui.Ovviamente esistono molte forme di liberalismo: andando in ordine sparso, vi sono versioni repubblicane; deliberativiste; versioni market friendly; proposte interessate alla neutralità della sfera pubblica, ecc. Tutte però sono interessate ad argomentare a favore della libertà individuale, seppure con mezzi che possono apparire opposti (e.g. espansione o contrazione della spesa sociale). In linea di massima si può dire che il fine normativo e politico-morale al quale il liberalismo tende è la realizzazione della libertà dell’individuo.

Questo obbiettivo si realizza in una molteplicità di ambiti: nella limitazione dei poteri dello stato sia dal punto di vista politico, con la divisione dei poteri fra organi separati dello stato, sia dal punto di vista economico, con la generale promozione delle libertà di intrapesa economica; sia dal punto di vista morale con l’ascrizione agli individui di una specifica condizione di dignità. Le basi filosofiche dell’ideologia liberale sono le più varie, anche se si riconoscono degli elementi costitutivi orginari che sono: il giusnaturalismo, che dovrebbe fondare l’eguale dignità riconosciuta in capo agli individui; il contrattualismo, che pone dei vincoli di legittimazione alla fondazione e all’esercizio del potere; e il principio della libertà economica, inizialmente associata a movimenti come quelli dei fisiocrati, dai quali peraltro proviene il motto celebre del laissez-faire. Per quanto la definizione che ho proposto sopra sia assolutamente minimalista, essa coglie l’aspetto decisivo di cosa significhi essere liberale, ovvero la protezione e l’espansione della libertà degli individui. Credo che questa mossa sia necessaria per trovare un punto di appoggio che permetta di abbandonare le secche del dottrinarismo testuale che ci impelagherebbero in oscure discussioni su quale autore abbia meglio espresso il liberalismo o lo abbia incarnato in maniera più compiuta. Andiamo dunque alle implicazioni che derivano dalla mia assunzione normativa che sarà minimale, ma è nondimeno assai esigente. Quale che sia la parabola storica che si preferisce per spiegare la genesi del liberalismo, quali che siano gli autori che si privilegiano, lo sfondo assiologico dell’individualismo è chiaro e prevede che alla libertà dell’individuo spetti una priorità di diritto su pretese contrarie da chiunque avanzate e a qualunque titolo: politico, morale o economico.

Se la mia idea minimale di liberalismo è dunque condivisibile non si vede come il liberalismo potrebbe sposare una sola religione, connotata con i tratti comunitari di una tradizione estesa addirittura a tutta l’Europa, assunta inoltre come mezzo per consolidare consenso intorno ad un progetto politico europeista. Si consideri inoltre che i contenuti di quella religione siano alienati ad un potere, quello ecclesiale della Chiesa Cattolica, che presenta tutti i tratti di illimitatezza di funzioni e potere contro i quali il liberalismo si è sempre opposto. L’idea di M.P., del cristianesimo come religione civile di una comunità politica, sarebbe già di suo in contrasto con l’ideale dell’autonomia morale individuale, che subirebbe una amputazione delle sue facoltà di giudizio religioso, allo scopo di conferire stabilità a una costruzione politica. Questa ascrizione teorica è intollerabile, sotto qualunque punto di vista, perché renderebbe le coscienze degli uomini un mezzo per la realizzazione di finalità politiche eteronome.

Tale idea appare ancora più scriteriata se poi il contenuto di quella religione civile non solo è inteso in senso collettivistico e storicistico (che deve valere per tutti in quanto comunità storicamente determinata da quanto accaduto in passato) ma la precisazione dei suoi contenuti è demandata all’autorità che invoca per sé stessa un potere spirituale infallibile e non soggetto ad alcun controllo! Come può tutto ciò definirsi in linea con le idee cardine del liberalismo di preservare la libertà individuale e di limitare il potere dello stato e di ogni entità autocratica?

PS: il libro di M.P. che ho discusso sopra è stato presentato in diversi articoli di giornali, ma fra i tanti mi preme segnalare questo. Più volte si è ironizzato sui giornalisti del Corriere, per quello che dicono, per quello che tacciono e per come fanno entrambe le cose. Anche questo articolo, sebbene non discuta questioni economiche, si espone alle stesse critiche. La giornalista non esprime nessun pensiero autonomo sul libro che, in teoria starebbe recensendo, ma si limita a intercalare la sua prosa, invero assai poco utile, alle frasi virgolettate di M.P., che dunque si gestisce in tutta autonomia una sorta di spazio pubblicitario. Fin qui dunque saremmo ancora nel campo delle omissioni della giornalista. Il peggio però viene quando la signora Calabrò si lancia in simili affermazioni:

 

Si potrebbe dire che le «equazioni laiche» di Pera — ordinario di Filosofia della scienza a Pisa, studioso di Karl Popper, già coautore insieme all'allora cardinale Ratzinger del bestseller Senza radici — a livello della «ragion pratica» o della phronesis aristotelica, fanno il paio con quello che sul piano della metafisica è il teorema di Gödel, che dimostra matematicamente la necessità dell'esistenza di Dio.

 

Intanto, cosa c'entrano la phronesis aristotelica e la ragion pratica di Kant con le affermazioni di M.P.? E poi, da quando, un teorema matematico dovrebbe dirimere una questione relativa all'esistenza di Dio? Infine, di quale teorema sta parlando, visto che il matematico boemo ne ha dimostrato diversi, di teoremi?

Ecco, è proprio scorrendo queste righe che si percepisce la profondissima crisi della cultura umanistica italiana: essa si caratterizza ancora per quest'uso intimidatorio delle parole e degli autori classici, buttati tutti in un unico calderone (Aristotele, Kant e Godel), allo scopo poi, neppure nascosto, di giustificare progetti politici e ideologici di tipo clericale.

 

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