Cento anni di Ulisse

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Il 2 Febbraio ricorre il centenario della pubblicazione dell’Ulisse di James Joyce, il quale chiese all’editore di farlo uscire in corrispondenza del proprio quarantesimo compleanno. La travagliata vicenda della pubblicazione e di quel che ne seguì merita un racconto a parte. Sylvia Beach, l’americana proprietaria della libreria Shakespeare & Company di Parigi, accettò di pubblicarlo dopo che Joyce aveva offerto il manoscritto a praticamente tutte le case editrici di lingua inglese, che lo avevano sistematicamente rifiutato. Troppo rischioso, vista la reputazione dell’autore: persino i tipografi si negavano di comporre i caratteri per la stampa dei suoi scritti. Infatti il libro fu bandito quasi subito, per più di dieci anni, negli Stati Uniti, e non solo. 

All’Ulisse mi sono appassionato circa 8 anni fa (responsabile: Michele), e da allora non lascia il mio comodino (e non credo lo lascerà). Vorrei raccontarvi perchè, corredando la spiegazione con una breve guida alla lettura. Premetto che sono un economista, non un esperto di critica letteraria, quindi prendete tutto con le necessarie pinze.

Titolo: Ulysses
Autore: James Joyce

Non ho mai corso una maratona ma, da quel che raccontano i miei amici che l’hanno fatto, leggere l’Ulisse amatorialmente credo sia come correre una maratona da dilettanti. Un’impresa monumentale, faticosa, spesso dolorosa, ma alla fine appagante se si arriva al traguardo. C'è chi ci mette 5 ore e chi la corre più volte, altri l’abbandonano dopo pochi chilometri. A tre quarti della strada, ti chiedi chi te l’abbia fatto fare. Un mio amico mi ha raccontato del contrasto, correndo la maratona di New York, fra il silenzio in cui si attraversa Queensboro bridge ed il “boato che quasi ti respinge all’entrata di Central Park”, e della soddisfazione che cresce all’avvicinarsi dell’arrivo. In modo simile, all’ultimo degli episodi dell’Ulisse si arriva stremati. Tuttavia, la lettura delle ultime pagine (45, nella mia versione in inglese) contenenti il monologo interiore di Molly Bloom (diviso in 8 capoversi per un totale di circa 22mila parole, senza alcuna punteggiatura), è come un boato esilarante che inizia con “Yes”, finisce con “Yes” e ti fa gridare “Yes! Yes! Yes!”. Questa apoteosi finale ripaga di tutte le fatiche di una lettura difficile, anche noiosa, certamente dispendiosa di energie, ma piena di emozioni e rivelazioni.

Joyce scrisse il libro in circa 7 anni, iniziando nel 1914, quando abitava a Trieste con la famiglia dove faceva, fra le altre cose, anche ripetizioni di lingua inglese ad un certo Hector Schmitz, più conosciuto come Italo Svevo, ma allora del tutto sconosciuto in entrambi gli appellativi. Vi ci era arrivato quasi per caso, emigrato da un’Irlanda che sentiva troppo stretta, ancora sotto la dominazione britannica ma anche sotto il giogo spirituale della sua cultura cattolica, tema che viene ripreso in Ulisse.

Il libro è diviso in tre parti numerate, a loro volta suddivise in un totale di 18 capitoli che in realtà tutti chiamano episodi, perché corrispondenti ad altrettanti episodi menzionati nell’Odissea di Omero. La sua trama è piuttosto scarna, lo spoiler che segue più che rovinare il piacere della lettura aiuta a capire cosa aspettarsi. Tutto il racconto si svolge nella giornata del 16 Giugno 1904, che commemora il primo appuntamento di Joyce con Nora Barnacle, di cui si innamorò subito, e per sempre. Inizia alle 8 del mattino descrivendo la colazione di Stephen Dedalus - alter ego dell’autore -  e di altri due occupanti della Martello Tower di Dublino (una fortificazione costruita durante le guerre napoleoniche). Nel secondo episodio, Stephen va ad insegnare in una scuola e fa conversazione con il direttore per poi recarsi, nel terzo episodio, a passeggiare nella spiaggia vicina immerso nei suoi pensieri intellettualoidi. Questo episodio inizia con un memorabile, ma quasi incomprensibile, monologo interiore:

Ineluctable modality of the visible: at least that if no more, thought through my eyes. Signatures of all things I am here to read, seaspawn and seawrack, the nearing tide, that rusty boot. Snotgreen, bluesilver, rust: coloured signs. Limits of the diaphane. But he adds: in bodies. Then he was aware of them bodies before of them coloured. How? By knocking his sconce against them, sure. Go easy. Bald he was and a millionaire, maestro di color che sanno. Limit of the diaphane in. Why in? Diaphane, adiaphane. If you can put your five fingers through it it is a gate, if not a door. Shut your eyes and see

Ineluttabile modalità del visibile: almeno questo, se non altro ancora, il pensiero attraverso i miei occhi. Impronte di tutte le cose che sto qui a leggere: molluschi, resuidi di mare, la marea che s’avvicina, quello scarpone arrugginito. Verdemocciolo, bluargento, ruggine: segni colorati. Limiti del diafano. Ma lui aggiunge: nei corpi. Quindi era consapevole del loro essere corpi prima dell’essere colorati. Come? Ma sbattendoci contro il bastone, ovvio. Rilassati. Calvo lui era, e milionario. Maestro di color che sanno. Limiti del diafano dentro. Ma perché dentro? Diafano, adiafano. Se riesci ad infilarci cinque dita è un cancello, altrimenti una porta. Chiudi gli occhi e guarda.

Confusi? Spero di sì, altrimenti siete strani. Stephen sta riflettendo sulla teoria aristotelica dell’essenza delle cose, su come vengono percepite, attraverso la vista, dalla nostra mente. La chiave per capire l’argomento è una frase in italiano presa del quarto canto dell' Inferno di Dante (Maestro di color che sanno), difficilmente conosciuta da un lettore anglofono (ma anche italiano, visto che a scuola pochi fanno quel canto).  Ma una prima regola di lettura di questo libro impone di accettare che non è importante capire cosa stia pensando Stephen, né conoscere Aristotele o Dante; tantomeno le centinaia di autori citati o a cui si fa riferimento nell’opera. Probabilmente aiuta, ma non è necessario; anzi, pretendere di capire tutto significa spesso essere costretti ad abbandonare la lettura (cosa che, mi dicono, molti fanno). È più utile invece capire il modo in cui Joyce entra nella mente di Stephen e descrive cosa sta succedendo in quella mente. La visione del colore di oggetti arrugginiti serve a fargli ricordare i suoi studi filosofici e immediatamente la mente corre alla descrizione che Dante fa di Aristotele, alla sua biografia (era di famiglia benestante) e al suo (probabile) aspetto fisico (in un paio di occasioni aveva teorizzato che la calvizie fosse segno di prestanza sessuale). Joyce descrive l’erudizione di Stephen (che sembra conoscere tutto, e in molte le lingue) per esporci immodestamente la sua, che non è poca, ma lo perdoniamo tale è la sua capacità di coinvolgere (non lo fece Virginia Woolf, che dopo la prima lettura lo trovò pretenzioso e manierista, anche se poi finì per usare simili tecniche narrative).

Margaret Anderson, che con Jane Heap dirigeva a Chicago “The little review”, una rivista anarchico-letteraria, aveva iniziato nel 1918 a pubblicare serialmente gli episodi che Joyce le mandava tramite il comune amico Ezra Pound. La rivista era sotto la mira dalle forze dell’ordine (ai tempi gli anarchici non godevano di grosse simpatie ai due lati dell’oceano), e rischiava di chiudere ad ogni numero. Alla lettura delle righe citate sopra commentarono “Lo pubblicheremo fosse l’ultima cosa che stampiamo nella nostra vita”. Lo fecero, ma furono costrette a chiudere tutto dopo la pubblicazione del tredicesimo episodio, Nausicaa, dove il protagonista principale, Leopold Bloom, si masturba in spiaggia guardando una ragazza chiacchierare con due amiche. 

Non fu la masturbazione a scandalizzare il giudice, che nemmeno se ne accorse. Nel racconto Bloom mette una mano in tasca, scambia alcune occhiate con la ragazza, e dopo quaranta pagine che descrivono ansie adolescenziali, preoccupazioni del protagonista, descrizioni della messa celebrata nella chiesa vicina e così via, e cioè dopo quaranta pagine in cui si viene distratti da tutt’altro, Bloom si pulisce la mano proprio mentre qualcuno in lontananza sta sparando fuochi d’artificio (!)  e, allo stesso tempo, nella chiesa vicina, l’ostia viene consacrata (!!). Non avendo compreso cosa stesse succedendo, a preoccupare il censore era il fatto che la ragazza, sollevando intenzionalmente la gonna per mostrare le caviglie, non sarebbe stata un buon esempio per le giovani americane. Qualcun altro che se ne accorse trovò offensiva e altrettanto inaccettabile l’associazione blasfema. Che non è l’unica: ve ne sono parecchie, compresa qualche bestemmia, ovviamente in italiano. Joyce, che era un discreto poliglotta, in quegli anni parlava dialetto triestino in famiglia.

Tornando alla trama, nel quarto episodio il racconto ritorna alle 8 del mattino dello stesso giorno per descrivere la colazione che Leopold Bloom sta preparando per sé e per la moglie Molly. Gli episodi successivi raccontano la giornata di Bloom, spesa immergendosi nelle strade di Dublino: va a fare la spesa, partecipa al funerale di un amico, si reca per lavoro prima nella redazione di un quotidiano, poi in biblioteca (fa l’agente pubblicitario e ha un’idea per un’inserzione), infine va a pranzo. Poi si reca in un ospedale dove una conoscente esperimenta un parto travagliato. In questa “odissea” per le strade di Dublino si incrocia un paio di volte con Stephen che poi, in serata, trova, ubriaco, in un bordello dove lo salva da un estorsione. Lo porta a casa sua essendosi scordato le chiavi devono saltare il cancello di cui al paragrafo citato sopra. Bevono assieme una cioccolata calda e invitato, Stephen sceglie di non restare per la notte. Il libro si conclude con Bloom a letto con la moglie Molly. Questa parte è scritta, per la prima volta, dal punto di vista di quest’ultima. Joyce usa nuovamente la tecnica del monologo interiore per introdurci nella sua mente, che riflette sui suoi ammiratori, l’amante, il marito, i suoi desideri sessuali e non, i ricordi della sua vita. L’intero soliloquio - ma soprattutto il finale che narra la proposta di matrimonio di Bloom - complice l’assenza di punteggiatura, lascia senza fiato:

and then I asked him with my eyes to ask again yes and then he asked me would I yes to say yes my mountain flower and first I put my arms around him yes and drew him down to me so he could feel my breasts all perfume yes and his heart was going like mad and yes I said yes I will Yes.

poi gli ho chiesto con gli occhi di chiederlo ancora sì e poi me l’ha chiesto se volevo sì dire sì mio fiore di montagna e prima l’ho abbracciato sì e l’ho fatto stendere su di me per fargli sentire i miei seni tutti profumati sì e il suo cuore che impazziva sì ho detto sì lo voglio sì

Insomma la trama non è particolarmente complessa, ma sotto sotto c’è molto di più di quanto la trama possa raccontare. Nelle settecento pagine del libro scopriamo i pensieri, la storia, i desideri, nascosti e non, di questi personaggi. Impariamo, attraverso il fluire ed il raccontarsi della loro memoria, come siano arrivati a quel 16 Giugno ed assistiamo a larghi squarci descrittivi della loro personalità. La memoria è uno dei grandi temi del libro, fonte di sofferenza (“La storia è uno degli incubi da cui sto cercando di fuggire”, pensa Stephen in una delle frasi più famose), ma anche di gioia e piacere: per Bloom, il corteggiamento della moglie, per esempio, un pensiero ricorrente. La tecnica del flusso di coscienza ci trasmette le loro sensazioni in modo efficiente ed efficace. Non fu un’invenzione di Joyce (lui dice di aver avuto l’ispirazione leggendo un autore francese, Édouard Dujardin, - il termine sembra essere dovuto allo psicologo americano William James che peraltro doveva aver preso l’idea da un altro psicologo francese, Egger … ) ma egli ne fu uno dei primi e magistrali interpreti. 

Entrando nei pensieri dei personaggi, impariamo per esempio che Stephen non ha ancora saputo realizzare le apparenti possibilità della sua intelligenza. Aspirante ma irrealizzato scrittore e poeta, è tornato da poco da Parigi. Ulisse infatti inizia narrativamente pochi mesi dopo la conclusione del primo romanzo di Joyce, “Ritratto dell’artista da giovane”, che si conclude proprio con la decisione di Stephen di lasciare l’Irlanda, frustrato dalla sua sudditanza intellettuale e politica nei confronti della Gran Bretagna e della cultura cattolica (proprio come Joyce). Stephen emigra senza rinnegare le sue origini culturali, ma per riscoprirle altrove, “... I go to encounter for the millionth time the reality of experience and to forge in the smithy of my soul the uncreated conscience of my race.” (vado per incontrare per la milionesima volta la realtà dell'esperienza e a forgiare nella fucìna della mia anima la coscienza increata della mia razza). Il viaggio è un fallimento e Stephen torna a Dublino per assistere alla morte della madre, che gli chiede di inginocchiarsi per pregare; lui si rifiuta ed è oppresso dal senso di colpa. Il padre di Stephen è un alcolizzato fallito che ha portato la famiglia alla rovina (le sorelle vengono viste fare la carità). Nel corso della giornata, Telemaco-Stephen è alla ricerca di una figura paterna, che alla fine trova in Ulisse-Bloom.  

Anche Bloom ha non poche preoccupazioni. Sa che la moglie, quel giorno, lo tradirà con il l'impresario Blazes Boylan (Molly è una attraente cantante lirica). Ma sentendosi in parte responsabile, decide di non fare niente. Da anni, dopo la morte del figlio di quattro anni, Bloom non riesce a fare sesso, anche se i desideri, come ho descritto sopra, non gli mancano. Ha una relazione epistolare piccante con una corrispondente che ha adescato attraverso un annuncio, ma non vuole darne seguito. Durante la giornata incrocia Boylan ma cerca di evitarlo. Joyce ci fa riflettere su cosa sia l’amore, non solo la sua relazione con il sesso, ma anche l’amore paterno o dei figli per i genitori (la morte del figlio, il suicidio del padre, sono memorie ricorrenti di Bloom). L’amore anche come fonte di dolore: “Pain, that was not yet the pain of love, fretted his heart” (“Una pena, che non era ancora una pena d’amore, gli scosse il cuore”) è la reazione di Stephen all’amico che lo prende in giro per non aver pregato al capezzale della madre morente.

Il monologo interiore di Joyce non è quello piu’ o meno lineare di Philip Roth o Virginia Woolf (di qualità eccezionale ma tutto sommato comprensibili perche’ adattati per essere tali, che il nostro monologo interiore agli altri e’ comprensibile assai poco). In Joyce il flusso di coscienza cambia il soggetto senza preavviso, anche numerose volte nella stessa frase. A volte non si capisce proprio quale sia l’argomento dei pensieri; oppure ritroviamo riferimenti ad eventi che vengono descritti duecento pagine dopo. Ma questa tecnica serve a farci entrare nella mente dei personaggi, a conoscerli intimamente. E ci permette processi di identificazione con i medesimi per la semplice ragione che anche i nostri flussi di coscienza solitari funzionano in questa maniera, a salti, allusioni, connessioni d’immagini e sensazioni, disconnessioni e ricordi.

Joyce descrive Bloom come una persona piacevole, estremamente sensibile ed empatica, con una mente inquisitrice, attenta e curiosa, con molti interessi anche scientifici ma senza il quoziente di intelligenza di Stephen (infatti commette diversi errori). Rispetto a Stephen, Bloom è non solo anagraficamente ma anche emotivamente più maturo e attento, sempre in grado di offrire una parola di consolazione anche a chi lo tratta male. E’ infatti trattato male da quasi tutti. È un ebreo convertito, ma per la mentalità antisemita del tempo rimane un estraneo. “Ma sai cos’è una nazione?” gli chiede il “cittadino”, un nazionalista sfegatato, durante il dodicesimo episodio (I ciclopi). Bloom risponde, ma l'interlocutore non capisce, o si rifiuta di capire. Joyce ci comunica il suo disprezzo indirettamente:

Una nazione? dice Bloom. Una nazione è la stessa gente che vive nello stesso posto.

[...]

Qual è la tua nazione, se è lecito chiedere, fa il cittadino. - L’Irlanda, dice Bloom. Sono nato qui. L’Irlanda. Il cittadino non disse nulla ma si limitò a scatarrare, e diavolo, fece partire un bel verdone che andò a planare in un angolo”.

L’antisemitismo è un altro tema ricorrente. Memorabile il dialogo nel secondo episodio fra Stephen e il direttore della scuola, un pomposo antisemita che non sa cogliere la sagacia con cui risponde Stephen.

Il libro tratta anche di politica irlandese e questo richiede, per essere compreso, la conoscenza di un po' della storia di un paese che conosciamo poco. L’Irlanda nel 1904 è ancora dominata dagli inglesi, ma lo spirito irredentista pervade la politica e la cultura locali. Joyce non ha nessuna simpatia per l’Inghilterra, ma ne ha poca anche per certi eccessi nazionalistici che sfociano nell’intolleranza e nella violenza (cercavate qualche collegamento con temi attuali?). Per esempio, la pretesa romantica di far rinascere la lingua antica irlandese. Nel dodicesimo episodio (“I ciclopi” cioè degli esseri con un unico punto di vista!) descrive l’esecuzione avvenuta poco tempo prima di uno degli eroi della mitologia separatista. La vicenda, che ha toccato profondamente il sentimento nazionalista degli irlandesi, viene raccontata con lo stile letterario che i periodici di costume usano per raccontare la cronaca un evento mondano. Questa irriverenza (simile alla blasfemia religiosa già accennata) costò all’Ulisse di essere ignorato in Irlanda per decenni. Ora il 16 giugno è una specie di festa nazionale, il Bloomsday. Il nazionalismo identitario e’ uno stato flessibile della mente, si adatta a ciò che trova conveniente ed appagante.

Nel corso dei vari episodi Joyce adotta non solo lo stile del monologo interiore, ma anche una collezione impareggiabile di altri stili letterari. Lo fa sia per sfoggiare senza modestia il suo virtuosismo letterario - secondo a nessuno: d’altro canto, per quale ragione scrivere un libro del genere se non per divertirti scrivendo come solo tu sei capace? - sia per esigenze narrative, come nel brano che ho appena riportato. Il decimo episodio, Rocce vaganti, riporta in contemporanea diciannove vignette dove vari personaggi, alcuni del tutto secondari, si incrociano per le strade di Dublino. L’undicesimo, Sirene, ha la struttura di una sinfonia. Il quattordicesimo, Le mandrie del sole, descrive le conversazioni fra dottori e conoscenti dei pazienti in un ospedale dove sta per avvenire la nascita di un bambino. In questo episodio Joyce usa una ventina di stili diversi che percorrono l’evoluzione della lingua inglese. Parte dalle sue radici anglosassoni (il parto) per giungere sino al dialetto locale dublinese, che usa per raccontare di un gruppo di amici che finiscono in un bar dove si urlano addosso senza davvero ascoltarsi (la forma che diventa contenuto rendendo questo irrilevante). Lo stile della scrittura e’ di fatto il protagonista del libro, (secondo gli esperti). Lo stile della scrittura joyciana, come una telecamera, si sposta continuamente, focalizzando la sua lente sui diversi discorsi dei partecipanti. Il quindicesimo episodio, Circe, è un racconto onirico, comico e surreale, scritto come una sceneggiatura teatrale.

È una lettura difficile, spesso incomprensibile. Nel settimo episodio, Scilla e Cariddi, il lettore viene catapultato in mezzo ad una discussione intellettuale sulla poetica di Shakespeare. Inizia nel bel mezzo della discussione, quando Bloom entra nella stanza. Come lui perdiamo l’inizio, e facciamo fatica a capire di cosa stiano parlando (grosso modo, stanno discutendo - credo, fra le altre cose - se conoscere la vita dell’autore sia necessario per comprenderne meglio l’opera). Ma anche se si fosse seguita la discussione dall’inizio, è probabile che senza una discreta conoscenza delle opere e vita shakespeariane, non si sarebbe riusciti a capirci granchè. Per me Scilla e Cariddi è stato uno degli scogli più difficili da superare (ha ha, ok, non ho resistito). Ma parte del piacere nel leggere Ulisse è anche il progressivo rivelarsi di questa sequenza di misteri, la scoperta degli innumerevoli riferimenti e collegamenti tra parti diverse del libro e con altri libri (mi ha invogliato a leggere l’Odissea, e Amleto, per esempio). Parte del piacere viene dal riuscire a scoprire la soluzione, un po’ come risolvere un rebus o un sudoku ma molto meglio e molto più duratura, come soddisfazione. Esempio: nel terzo episodio un solo paragrafo riassume più o meno il libro. Stephen ricorda di aver sognato di camminare nella strada delle prostitute (cosa che avviene 600 pagine dopo), per poi essere condotto al riparo e rassicurato da una persona che gli sbatte un melone in faccia. Come sappiamo si tratta di Bloom che lo salva e lo porta a casa per poi mostrargli una foto della procace moglie nel penultimo episodio.

Ma non vorrei spaventare troppo: non c’è solo il piacere della scoperta e della soluzione del problema. Ulisse ha anche numerosi passaggi divertenti e addirittura comici. L’intero penultimo episodio, Itaca, scritto nello stile dei catechismi di quando ero piccolo, e cioè una serie di  309 domande e risposte (oggi diremmo: stile FAQ) è da scompisciarsi. Lo stile serve a Joyce per fornire al lettore una marea di informazioni utili a capire dettagli altrimenti oscuri, come, per esempio, l’indirizzo esatto della casa di Bloom.

Che atto compì Bloom all’arrivo a destinazione?

Alla soglia del quarto degli equidiversi numeri dispari, numero 7 di Eccles Street, inserì la sua mano meccanicamente nella tasca posteriore dei suoi calzoni per prendere la chiave

C’era?

Era nella tasca corrispondente dei calzoni che portò il giorno precedente

Perché era doppiamente irritato?

Perché si era dimenticato e perché si era ricordato che si era raccomandato due volte di non dimenticarselo.

Come leggere l’Ulisse? Con allegria e curiosita’! Vale la pena leggerlo in Italiano? Qualcuno sostiene di sì, anzi, ė attratto dalla musicalità della nostra lingua. Difficile anche per un bravo traduttore replicare le capacità linguistiche dell’autore, che non sono banali. Joyce raccontava di spendere anche un’intera giornata a comporre una sola frase (“sapevo che parole usare, ma non avevo ancora capito in quale ordine”). Ed era ossessionato dalle parole, Ulisse è uno dei libri con la maggiore frequenza di parole usate una sola volta. Ne posseggo una traduzione, che ho letto in alcune sue parti. Direi che leggerlo in italiano è quasi come leggersi in inglese la Divina Commedia. Si perde una buona componente del piacere della lettura, ma ne rimane comunque una buona fetta apprezzabile. D’altro canto, a leggerlo in inglese in molti punti ti viene il dubbio se l’incomprensione derivi dalla tua scarsa conoscenza della lingua, o dall’ermetismo del linguaggio e dell’argomento.

Se non conoscete decentemente l’inglese, non avete scelta. Se lo conoscete, consiglio comunque una versione digitale: avere un dizionario a portata di dito serve, eccome (attenzione che molte delle versioni gratuite su Kindle sono scansioni imperfette dell’Opera: meglio spendere due euro e acquistare quelle di un editore conosciuto). 

Qualcuno legge Ulysses come un qualsiasi romanzo, tutto d’un fiato senza aiuti. In inglese, è possibile, credo, leggerlo anche solo affascinati dalla poesia del linguaggio (un audiolibro è certamente apprezzabile in questo caso). A me però, che non amo la poesia, non sarebbe bastato. Quindi suggerirei di accompagnare la lettura alla consultazione di una guida. Ce ne sono molte (le prime apparvero quasi subito, credo negli anni ‘30). La più famosa è “The Bloomsday Book” di Blamire; ci sono anche molte versioni "Bignami" per studenti. Queste guide servono a spiegare cosa stia succedendo in ogni paragrafo del libro, e vi assicuro che in molte situazioni sono indispensabili per non perdersi. Qualcuna (la seconda, per esempio), contiene anche una critica a ciascuno degli episodi e una presentazione dei temi del libro. Lo fa anche molto efficacemente il podcast U22. Sconsiglio invece la consultazione, in prima lettura, di Ulysses Annotated di Gifford, una guida enciclopedia sin troppo dettagliata a tutti i riferimenti e tutti collegamenti, parola per parola. Non vale la pena perdersi nei dettagli. Piuttosto, per chi volesse approfondire, vale la pena ascoltare il podcast re:joyce di Frank Delaney, che, purtroppo, è mancato a meno di metà dell’opera e in ciascun episodio del podcast legge, commenta e critica un breve brano con un entusiasmo contagioso. 

Joyce stesso scrisse una piccola guida. Nel libro gli episodi sono senza titolo (se finissero a fondo pagina sarebbero difficili da contraddistinguere, non fosse per l’inevitabile cambio di stile che li contraddistingue), ma per aiutare la lettura Joyce inviò all’amico Carlo Linati uno schema, poi denominato “schema di Linati”, che associa ciascun episodio ad un corrispondente episodio dell’Odissea, ed è il nome che gli appassionati usano da allora per riferirsi alle parti del libro.

L’associazione all’Odissea e la “caccia al tesoro” dei collegamenti con l’opera omerica è uno degli aspetti che qualcuno considera fra i più attraenti del libro. Ce ne sono a bizzeffe. Personalmente, non trovo l’esercizio molto interessante e direi che se non vi interessa, non serve conoscere Omero. La corrispondenza è in ogni caso un po’ tirata per i capelli. Se Stephen è Telemaco alla ricerca del padre, Bloom non è certo l’eroico Ulisse. O forse lo è: Joyce ci fa vedere come una persona normale, piena di difetti, valga la pena di essere raccontata nella quotidianità della sua vita, delle sue ossessioni banali, delle sue abitudini. Anche esse ci fanno appassionare, perché la vita è fatta di questo, di vite “normali”, quelle dei nostri amici e delle persone che amiamo, di vicende che magari non meritano di essere immortalate in un romanzo che sopravviva nei secoli ma che, ciononostante, sollevano sentimenti, dolore, gioie e passioni. Sentimenti che proviamo leggendo Ulisse, di James Joyce.

Riferimenti

Testi

Una prima scelta necessaria è quella dell'edizione. Ce ne sono parecchie e, purtroppo, diverse. Di quelle in Inglese, l'originale del 1922 è notoriamente piena di errori (ma se la trovate per caso nella soffitta del nonno siete fortunati, vale circa $80000, ce ne sono solo 1000). La scelta principale fra quelle "riviste e corrette" è fra l'edizione Modern Library e la (controversa, non mi dilungo a spiegare perché, vedere wikipedia) cosiddetta Gabler edition. A meno che non vogliate prendere un Ph.D. in Joyce, non fa differenza. Come ho scritto sopra, diffidare delle versioni e-book gratuite o quasi negli e-stores, meglio piuttosto scaricare il testo gratuitamente da gutenberg.org se si vuole proprio risparmiare.

Fra le 7-8 traduzioni italiane, non ne conosco bene nessuna. Quella "classica" è di De Angelis, che risale al 1960. Ce n'è una recente di Mario Biondi, ne ho scorso qualche pagina e mi sembrano ottime entrambe. C'è anche una nuovissima traduzione di Enrico Terrinoni con testo a fronte.

Guide, siti-guida e altri riferimenti

The Bloomsday Book, di Harry Blamire, una delle guide all’Ulisse più famose. Ottima descrizione del testo, un po' scarna per quanto riguarda il commento ed interpretazione degli episodi.

Ulysses, Introduction, Schmoop, include sia la descrizione del testo sia l'analisi degli episodi, dei personaggi, delle frasi celebri. Io ho usato questa in prima lettura e mi sono trovato bene. Ce n'è una versione kindle su amazon.com che include il testo del libro, ma non l'ho trovata su amazon.it. E' comunque disponibile online gratuitamente.

The Most Dangerous Book, di Kevin Birmingham, una biografia del libro stesso, la storia della sua scrittura, pubblicazione, e successiva censura e riabilitazione. Accenni all'intera vita di Joyce completano la narrazione. Molto consigliato.

James Joyce and Italo Svevo: the story of a friendship, di Stanley Price. Due biografie in una, con in aggiunta, la storia del rapporto fra i due amici/autori. La biografia classica e' di Richard Ellmann, per chi voglia sorbirsi un tomo pesante il doppio.

Podcast

U22 di Catherine Flynn, un'ora per episodio, mescola commenti e impressioni di esperti e appassionati dilettanti. Credo sia più utile ascoltarlo dopo una prima lettura di ciascun episodio.

Re:joyce di Frank Delaney. Centinaia di episodi, da 5 a 15 minuti circa l'uno. Delaney legge un breve passaggio e lo commenta con un entusiasmo contagioso. Purtroppo non riuscì a finire l'opera, resta un ottimo modo di avvicinarsi alla lettura se non si ha fretta.

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