Spesa in cibo, reddito e vulnerabilità alimentare

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Perché nei paesi ricchi le famiglie sono meno vulnerabili agli shock alimentari?

L'Economist, alcuni giorni fa, ha pubblicato un grafico che mostra quanta parte di reddito familiare viene utilizzata per il cibo in diversi paesi del mondo. Come sottolinea il testo che accompagna la tabella, ci sono eccezioni alla regola, e potremmo chiederci quali origini (e anche quali conseguenze, di questi tempi) abbia la propensione degli ungheresi verso l'alcol e il tabacco. In ogni caso la regolarità è che più alto è il reddito, minore è la porzione di esso che viene speso per il cibo.

E fin qui siamo nel campo dell'ovvio: il portafoglio delle persone ha una estensione illimitata, mentre lo stesso non si può dire del loro stomaco, e una volta riempita la pancia il reddito delle famiglie dei paesi più sviluppati può essere usato per altre attività. La chart dell'Economist mi ha fatto però venire in mente un altro grafico, in verità piuttosto simile (anche qui la fonte dei dati è l'USDA), che avevo scovato l'estate di due anni fa sul rapporto LEI di Wageningen UR dal titolo “Price and prejudice: Why are food prices so high?“.

Lo studio si interrogava sulle ragioni dei picchi dei prezzi delle materie prime agricole, all'origine di gravi crisi alimentari. È una lettura che raccomando, dato che contribuisce efficacemente a sfatare il mito secondo il quale sarebbe la speculazione finanziaria sui futures delle soft commodities a orientare al rialzo i prezzi e non piuttosto l'aumento esponenziale della domanda asiatica amplificata dalla contrazione delle scorte e dalle politiche protezionistiche (o di contenimento dell'offerta) di molti paesi esportatori, spesso spaventati dalla prospettiva di veder crescere l'inflazione interna.

Il rapporto evidenziava come proprio nella diversa incidenza della spesa alimentare sul reddito alimentare sia la chiave della maggiore o minore vulnerabilità di un paese alla volatilità dei prezzi delle materie prime agricole, e quindi alle crisi alimentari:

 

Le famiglie nei paesi ricchi spendono circa il 10% del loro budget in cibo, ma solo il 20% del prezzo del cibo proviene dalla materia prima. Il resto proviene dal marketing, dal confezionamento, dal trasporto e dagli utili di chi porta il cibo dalla fattoria al negozio. Invece nei paesi in via di sviluppo la gente spende mediamente per il cibo ben più del 10% del bilancio familiare, laddove le famiglie più povere arrivano a spendere tra il 50% e l’80% dei loro redditi. Qui solo una piccola porzione va ai processi di commercializzazione e confezionamento: la maggior parte delle famiglie acquistano cibo non trasformato, divenendo più vulnerabili agli aumenti di prezzo dei generi alimentari.

 

I neretti sono miei, così come la traduzione grossolana. E ho sottolineato quei passaggi perché, oltre a raccontarci della diversa incidenza della spesa per il cibo nel reddito familiare, evidenziano una cosa in più, ovvero come tutti i processi intermedi di una filiera agroalimentare complessa contribuiscano a ridurre ancora di più la vulnerabilità delle famiglie alla volatilità dei prezzi: in paesi in cui si è costretti a dedicare un'ampia porzione del proprio reddito al cibo, e di questa una fetta abbondante va in cibo non trasformato e in materia prima grezza (si pensi al riso), è molto facile che significative oscillazioni di prezzo spossano trasformarsi in vere e proprie catastrofi umanitarie.

E la ben nota inelasticità dei prezzi del cibo contribuisce a complicare le cose. L’USDA fornisce delle stime per l’elasticità dei prezzi: per gli Stati Uniti, l’elasticità della domanda rispetto al prezzo di pane e cereali è -0,04, il che vuol dire che sarebbe necessario un aumento di prezzo del 25 per cento per indurre un calo di appena l’1 per cento nei consumi. Tra la stagione 2008/09 e 2010/11 alcuni estremi metereologici hanno indotto cali nella produzione globale di cereali attorno al 3 per cento. Nulla di catastrofico in sé, ma in un quadro di generale aumento della domanda e contrazione delle scorte, i prezzi sono semplicemente raddoppiati.

In quegli anni, dalle nostre parti solo gli agricoltori si sono accorti che qualcosa stava cambiando, dato che hanno potuto vendere a prezzi mai visti prima. I consumatori per lo più non hanno percepito una grossa differenza nella spesa per il cibo, e questo lo dobbiamo proprio alla scarsa incidenza della materia prima grezza e del cibo non trasformato sul totale della spesa familiare. Nel frattempo, abbiamo potuto vedere in televisione gli effetti degli aumenti di prezzo del cibo su economie meno sviluppate, effetti che in qualche caso, come in alcuni paesi africani affacciati sul Mediterraneo, sono stati il detonatore di rivolte popolari e veri e propri cambi di regime.

Tutto questo, guarda un po', aggiunge motivi per essere scettici sul mito della derescita, trasformato da minoritaria ossessione radical chic a vero e proprio programma di governo di un partito che ha raggiunto all'incirca il 25 per cento dei consensi alle ultime elezioni. E quando si parla di accorciamento delle filiere, di km zero, di agricoltura di sussistenza, si parla di politiche che ormai a buon diritto sono state acquisite e fatte proprie da tempo da uno schieramento molto più ampio ed eterogeneo di quello che fa riferimento al M5S, almeno a livello "ideologico". Se già la riduzione dei redditi ci condurrebbe tra quelli costretti a destinare al cibo una fetta maggiore del proprio reddito disponibile rispetto a quella che vi destiniamo oggi, politiche agricole come quelle care ai "decrescenti" di ogni colore non farebbero che aggravare la situazione, con tutte le unintended consequences del caso in termini di esposizione alla volatilità dei prezzi e di vulnerabilità alle crisi alimentari.

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Commenti

Ci sono 41 commenti

Leggo l'articolo, molto interessante sul piano tecnico, e resto molto perplesso sulle conseguenze logiche che, si sostiene, dovrebbero conseguirne.

Dovremmo infatti dedurne che l'enorme differenza tra il prezzo al consumo delle derrate alimentari rispetto al costo delle materie prime è un vantaggio? Lo potrebbe essere, forse (ma si legga oltre), per i paesi ricchi, non certo per i paesi poveri, dove il mangiare è un bene primario non assicurato a tutta la popolazione.

Il fatto che il prezzo delle materie prime incide in maniera molto rilevante nei paesi del terzo mondo, con ogni probabilità, deriva soprattutto dalla enorme differenza di valore dei prezzi , in termini assoluti, tra detti paesi e quelli ricchi.

Insomma, credo che il dato presentato da Giordano Masini dovrebbe errere prima intrecciato con le dinamiche dei prezzi espresse in temini assoluti (quanto costa una carota negli Stati Uniti e nel Camerun?), per trarne delle conseguenze più interesanti.

In ogni caso, non credo che sostenere che sia positiva a priori la circostanza dell'esistenza di un grosso differenziale tra i prezzi delle materie prime e quelli al dettaglio sia una buona cosa. E' come sostenere le politiche inflazionistiche per creare sviluppo effimero.

In ogni caso l'economia deve essere sempre lagata alla produzione. L'accorciamento della filiera (quando non pregiudizialmente annunciato con motivazioni ideologiche e non economiche, come nel caso di Grillo), quando diretto a rendere più efficiente il mercato e a sviluppare un consumo più consapevole e meno voluttuario, è sempre positivo.

Mi rendo conto di non produrre dati a motivazione della mia tesi e leggerò con piacere ogni commento che la confuti o documenti, ma tengo a rimarcare che non si tratta, come ho detto prima, di una posizione ideologica ma pragmatica. Tutti i paesi occidenziali avanzati debbono comunque recuperare un enorme debito estero o interno, quindi devono produrre meglio e di più, anche riqualificando le spese interne. Non credo che la strada di confermare le enormi sovrastrutture nel settore della distribuzione sia la strada giusta.

Sono completamente d'accordo con te. Masini sarebbe forse contento se nei mercati finanziari i titoli dovessero passare per 10 broker diversi facendo esplodere i costi di transazione? Direi proprio di no, e non vedo per quale motivo per i prodotti alimentari dovrebbe essere diverso. Oltre al fatto che per la nostra salute è meglio mangiare prodotti conservati o trasformati il meno possibile.

Affermare che, saltando uno o più passaggi nella filiera, con conseguente riduzione dei costi, gli operatori tagliati fuori muoiono di fame e i soldi risparmiati dai consumatori vanno a ridurre il valore aggiunto dell'economia, è da modello SUPERFISSO. In un modello più plausibile, a parità di reddito disponibile, i soldi risparmiati saltando la filiera riducono la percentuale del reddito destinata ai consumi alimentari, come auspicato da Masini stesso, e possono essere destinati ad acquistare altri beni o servizi. Gli operatori, allo stesso modo, dovranno trovarsi un'occupazione più utile o modificare il proprio portafoglio di attività.

Più che quanto costa una carota negli Stati Uniti o nel Camerun, dovremo cercare di sapere quanto costa produrla, e non è solo un problema di costo del lavoro, anzi lo è in minima parte.

Delle carote so poco, ma so, per fare un esempio, che per produrre in Ontario la quantità di fragole che produce un ettaro di terreno in California, ci vogliono 5 ettari. Questo significa che per avere la stessa quantità di fragole vicino casa, in Ontario dovranno avere a disposizione una superficie 5 volte maggiore, impiegare 5 volte più fertilizzanti e agrofarmaci, utilizzare macchinari e forza lavoro per un tempo 5 volte maggiore, consumare 5 volte più gasolio e via discorrendo (lascio da parte l'acqua perché in quel caso influisce anche la differente frequenza delle precipitazioni).

L'esempio mi serve a dire che in realtà politiche che implementano il consumo locale, il km zero e via discorrendo ci porterebbero a spendere molto di più per il cibo, e non di meno. Infatti se in Ontario volessero, magari attraverso dazi e tariffe, tenere fuori le fragole californiane e consumare solo quelle prodotte localmente, dovrebbero pagare un prezzo che tenga conto di questa enorme differenza nei costi di produzione, potendo scontare solo il costo del trasporto su lunghe distanze, che poi è la parte più efficiente dell'intera filiera agroalimentare.

Quindi certe "enormi sovrastrutture nel settore della distribuzione" tendono a ridurre la nostra spesa per il cibo (non sempre, per carità), quindi il paragone con le politiche inflazionistiche per creare consumi e sviluppo effimero non è corretto.

Senza contare poi che confinare i nostri fornitori di cibo in un'area geografica ristretta ci esporrebbe alla volatilità dei prezzi e all'insicurezza alimentare anche per un'altra ragione: sarebbe sufficiente un'annata storta dal punto di vista climatico e raccolti insufficienti per lasciarci a secco di scorte, senza che i raccolti più abbondanti di altre aree del pianeta possano intervenire a calmierare i prezzi. Ma questo è un altro discorso.

La "descrescita" non è un mito ma una possibiltà (molto probabile) che saremo costretti ad affrontare, se non troviamo alternative energetiche efficaci a breve. Petrolio, gas e carbone (e anche uranio) non sono inesauribili e solo se si ignora questo fatto si può pensare che possiamo continuare a vivere trasportando cibo per migliaia e migliaia di chilometri. Prima ci attrezziamo per costruire un'economia diversa meglio affronteremo il futuro che ci attende.

Ma secondo te, se il km zero avesse un minimo di convenienza economica,  l'"uomo del monte" non ci avrebbe gia pensato? Come dice Milani:

 “Le banane a chilometro zero non esistono. Però siccome adesso va di moda questa pirlata qui, le facciamo anche noi in Piemonte. Pannelli solari a manetta tutto il giorno. Per produrre un chilo di banane spendiamo 23.000 euro. Costo del prodotto al pubblico: 5 euro. Bravi!”

 

Premesso che un'economia diversa non la si costruisce a tavolino (ci hanno provato nel 1917 ma si dice non abbia funzionato) il discorso delle fonti energetiche non riguarda tanto il trasporto ma la produzione agricola vera e propria. Trattori, trebbiatrici, pompe idrauliche per l'acqua, tutto consuma energia e senza di essa (senza petrolio) l'effetto piu' probabile è passare da 7 miliardi di abitanti ad uno e mezzo, tanti quanti erano alla fine del 1800. Non so se la potremo chiamare felice ma sempre decrescita sarà. Piuttosto il vero mito è quello delle risorse che non sono inesauribili. Anche se calano (e quindi aumentano di prezzo) impariamo ad usarne meno, ad estrarne di altre con tecniche diverse (fracking) o individuare nuove fonti. Quanto pesa un telvisore oggi rispetto a quelli di 10anni fa? Quanta energia si consuma per costruirlo e per farlo funzionare? Chi negli anni 60 avrebbe previsto, per 20-25 anni dopo, l'espolosione dei personal computer, della rete Internet, della telefonia mobile? Anzi chi si avventava in previsioni diceva (capo IBM) che non vedeva futuro nel PC!
Tutti questi futurologhi che prevedono disastri in realtà non prevedono un bel niente, perché l'innovazione è assolutamente imprevedibile e quindi non possiamo sapere tra 10 o 15 anni quali energie useremo e quali processi produttivi potranno sopperire ai problemi che oggi crediamo di vedere.

Ma se un prodotto costa 10k, dove 8k sono di marketing e distribuzione e 2k di materia prima, comprendo che un raddioppio della parte minitoraria influisce poco sul prezzo finale (12k invece di 10k).

Se io implemento il Km 0, e mettiamo che costi 4k (per i motivi dimostrati da un commento di Masini), e il costo della materia prima raddoppia passo a 8k. E' vero che ho un incremento molto maggiore, ma in assoluto ci guadagno ancora: 8k contro 12k.

Questo credo sia il punto dei Grillini.

 

Quindi il punto è dimostrare che la materia prima con il km0 non costa 4k, ma molto di più.

Non è così, per il semplice fatto che tutte le spese in logistica, distribuzione e marketing non sono spese "cattive" nè sprechi, ma sono spese che hanno lo scopo di ampliare la domanda dell'impresa che le sostiene. Naturalmente, visto che il mondo non funziona come i modelli neoclassici in cui non esistono costi di transazione,ricerca e trasporto, quando l'azienda investe in costi di distribuzione (come pure in pubblicità) amplia il proprio mercato potenziale. Se prima poteva vendere al massimo 100 kg di banane, sostenendo tutti i costi di marketing ora può venderne 10000. Questo ha un deciso impatto sul prezzo, perchè è grazie a questa espansione della domanda che i costi fissi (ma non è solo questo il discorso) possono spargersi su un numero di quantità più ampio, abbassando il prezzo finale ( e questo vale sia se ipotizzi che l'impresa massimizzi i profitti alla neoclassica, sia se ipotizzi che l'impresa applichi un ricarco sui costi medi, alla postkeynesiana).

 

In conclusione: se un decreto legislativo (solo quello può fermare il libero mercato) imponesse o incentivasse  il " km zero" le conseguenze derivanti da una tale contrazione della domanda (e dalla distruzione di molte forze concorrenziali, visto che creeremmo di fatto venditori quasi monopolisti ) farebbroe lievitare il prezzo da 4 ad un livello inconoscibile, ma forse nel medio periodo anche più alto dei 10 attuali. E sarebbe tutta materia prima. E quindi la tesi dell'autore rimane intatta.

 

Lo sbaglio nel ragionamento è non considerare i benefici di efficienza che derivano dal marketing, che permette di ampliare la propria domanda e dalla concorrenza tra venditori di territori diversi che vendono ognuno nel territorio altrui.

Continuo a non capire.

E' evidente che tra California e Ontario la produzione di fragole è differente: l'una ha molto sole, l'altra no. Peraltro il fattore "moltiplicato5" dell'esempio delle fragole guardacaso è esattamente l'inverso della percentuale di prezzo proviene dalla materia prima indicato nell'articolo per i paesi ricchi:  il 20%.

Quindi, assunti i valori della distribuzione vicini a zero (cioè nell'ipotesi di una catena diretta dal produttore al consumatore), nelle peggiori circostanze il prezzo più o meno equivarrebbe a quello attuale, diminuendo invece in tutti gli stati americani collocati su paralleli inferiori a quelli dell'Ontario, dove c'è più sole e, quindi, con il km zero le fragole costerebbero meno.

Cosa vieta, dunque, di vendere fragole a prezzo molto più basso dell'attuale in California, risalendo i prezzi fino a divenire quelli attuali in Ontario, dove l'infrastruttura  logistica è necessaria (perchè le fragole vengono da lontano), mentre viaggiando verso Sud diventa progressivamente una sovrastruttura inutile?

Questo tenendo conto di quanto dice Pino Vallone, per il quale la convenienza di determinate politiche non va valutata solo in termini immediati (cioè, cosa sarà utile domani), ma anche prospettici, sulla disponibilità di energia per i trasporti.

Ora, se si sostiene che la logistica è uno importante strumento di ammortizzazione della fluttuazione dei prezzi delle materie prime in certe circostanze, la tesi mi sembra centrata.

Se, invece, si sostiene che il km zero è una chimera ed è addirittura pericoloso, non mi sembra che questo sia dimostrato, nè dimostrabile, soprattutto nei paesi poveri, dove quello che importa, ripeto, è il prezzo in termini assoluti delle carote (le fragole non possono permettersele), che devono pagare il minimo possibile perchè non sono in gradi di sfamarsi.

Vaglielo a spiegare a un senegalese senza cibo che le carote costano di più di quanto necessario perchè, se in futuro i prezzi delle materie prime si alzeranno, lui non se ne accorgerà. Certo che non se ne accorgerà: sarà morto di fame prima.

Magari per le popolazioni più povere è più conveniente migliorare le proprie infrastrutture di trasporto e stoccaggio dei generi alimentari, cosicché possano avere accesso a cibo prodotto in altre parte del mondo, ma ad un prezzo inferiore di quello che affrontano acquisendo cibo prodotto localmente...

 

Diciamo che senza dati specifici, tutto è possibile...

A Pino Vallone:

 

Petrolio, gas e carbone (e anche uranio) non sono inesauribili e solo se si ignora questo fatto si può pensare che possiamo continuare a vivere trasportando cibo per migliaia e migliaia di chilometri

 

E' chiaro che il discorso cambia da prodotto a prodotto, e le medie vanno prese con le dovute molle, ma tutti gli studi seri in cui mi sono imbattuto sull'argomento sono concordi nell'attribuire al consumo di energia della fase del trasporto su lunghe distanze una incidenza minima rispetto al consumo di energia della fase di produzione del cibo. Ad esempio (mi scuso se non trovo il link, lo ritroverò ma le cifre sono quelle) solo il 4% delle emissioni complessive di gas serra associate al cibo proviene dai mezzi di trasporto su lunghe distanze, mentre l’83% è legato alla produzione degli alimenti (che non crescono quindi solo grazie a frate Sole e sòra Terra).

Questo significa che se vogliamo ridurre il consumo di combustibili fossili (e l'impatto ambientale) nella catena del cibo, dovremmo favorire il commercio su lunghe distanze o almeno non ostacolarlo, in quanto si consuma più energia producendo lo stesso quantitativo di prodotto in una zona non vocata (valga l'esempio delle fragole nell'altro commento) che facendolo viaggiare intorno al pianeta. Ha ragione chi ha detto, più su, che il prezzo di una derrata contiene molte informazioni sull'energia necessaria a produrlo, al netto di tutte le distorsioni che derivano dalle politiche agricole di questo o quel paese, dai dazi e dalle tariffe.

 

A Aldo Agostini:

 

Vaglielo a spiegare a un senegalese senza cibo che le carote costano di più di quanto necessario perchè, se in futuro i prezzi delle materie prime si alzeranno, lui non se ne accorgerà

 

Il mio punto non è quello di dare consigli ai senegalesi, o più in generale ai paesi in via di sviluppo. E' chiaro che per rendersi meno vulnerabili alle crisi alimentari i paesi in via di sviluppo devono fare una sola cosa: crescere. Ed è proprio quello che stanno facendo, spesso proprio cercando di soddisfare la crescente domanda globale di materie prime agricole: gli investimenti in terra coltivabile e infrastrutture, la meccanizzazione, il miglioramento genetico, l'apertura al commercio internazionale stanno progressivamente trasformando sistemi agricoli tradizionalmente vocati alla sussistenza di molti paesi dell'Africa subsahariana con benefici più che evidenti sia nel PIL che nelle condizioni di vita dei loro abitanti.

Il mio punto, casomai, si riferiva ai paesi sviluppati, e al rischio insito in una maggiore o minore esposizione alla volatilità dei prezzi del cibo (in un'epoca in cui questa volatilità esiste - per decenni i prezzi sono stati bassi e stabili).

 

A Giovanni Pomponio:

 

Masini sarebbe forse contento se nei mercati finanziari i titoli dovessero passare per 10 broker diversi facendo esplodere i costi di transazione?

 

Nessuno le vieta di portarsi a casa un sacco di farina (o meglio di frumento), con tutti gli altri ingredienti grezzi, e farsi il pane in casa. Io qualche volta ci ho provato, con occasionali risultati pregevoli. Se lo facesse si renderebbe conto senza difficoltà che alla fine della fiera avrebbe speso molto ma molto di più che acquistando una pagnotta bell'e fatta in panetteria o al supermercato, sia in termini di denaro speso che di tempo impiegato. E' solo una banalissima questione di allocazione più o meno efficiente delle risorse. Se paragona i passaggi della filiera agroalimentare con le transazioni di un titolo da un broker all'altro, è segno che ritiene i passaggi della filiera neutri rispetto al prodotto finale, e chiaramente non è così. Un po' da modello superfisso, per usare uno schema da lei citato: ad ogni passaggio dovrebbe corrispondere un aumento di prezzo corrispondente al costo dell'intermediazione, per cui riducendo questi passagi si dovrebbe ridurre il prezzo finale, lasciando il prodotto invariato. Chiaramente non è così, e il cibo che fa più strada è, in genere, quello che costa meno.

 

per la nostra salute è meglio mangiare prodotti conservati o trasformati il meno possibile

 

Questa frase non significa nulla, è una generalizzazione che non ha alcun fondamento scientifico. Ci sono cibi e cibi, e sarebbe corretto valutare caso per caso. In ogni caso il nostro stile di vita, anche quello alimentare, non è neutro rispetto al miglioramento generale della nostra salute e all'aumento dell'aspettativa di vita dell'ultimo secolo.

 

Affermare che, saltando uno o più passaggi nella filiera, con conseguente riduzione dei costi, gli operatori tagliati fuori muoiono di fame (...)

 

Dov'è che avrei affermato una cosa simile? :-)

è chiaro che giochi in casa, ma va benissimo.

Inoltre mi sembra poco chiara l'ipotesi che saltando qualche passaggio i costi debbano diminuire,perchè in realtà nessun passaggio può essere fisicamente saltato, coltivazione, stoccaggio, distribuzione trasformazione e vendita esistono dal tempo dei sumeri.

Secondo aspetto è che i costi dei trasporti sono stati abbattuti dalla logistica intermodale, distribuire su più "passaggi" un trasporto non è una fisima stravagante, lo si fa perchè alla fine costa meno..

Il mio discorso è riferito a quei prodotti non destinati alla trasformazione. Non intendo sostenere il km zero a ogni costo, ma ritengo che sia auspicabile in tutti quei casi in cui produrrebbe la soluzione più efficiente. Quindi non mi auguro certo che chi ha bisogno di 5 volte le risorse della California per produrre lo stesso quantitativo di fragole, si metta a farlo in nome del km zero, tuttavia non ritengo giusto che, all'opposto, venga introdotta una normativa che miri a incentivare un razionamento della produzione californiana al fine di favorire l'importazione di fragole da altri Paesi meno efficienti nella stessa produzione.

cdo

tutti gli studi seri in cui mi sono imbattuto sull'argomento sono concordi nell'attribuire al consumo di energia della fase del trasporto su lunghe distanze una incidenza minima rispetto al consumo di energia della fase di produzione del cibo

...  è quello che sostenevo qui, alcuni messaggi fa. Qualche dato non farebbe male ma il punto principale è che una crisi energetica vera si rifletterebbe immediatamente sul numero di abitanti che questo pianeta puo' permettersi con un'agricoltura tradizionale, non meccanizzata. I sostenitori della decrescita non avrebbero mai il coraggio di guardare negli occhi di chi è condannato a morire, felicemente )?), per questa scelta.

Ehm, scusate ma se oltre al lato economico considerassimo anche il lato politico del mito del km 0 ? Sembra che abbiamo già visto che dal punto di vista economico è o sembra essere proprio un mito quello del km zero, ma dal punto di vista politico mondiale, penso sia preferibile esattamente il contrario del km 0: ho sempre visto la globalizzazione come una fortissima spinta (venuta fuori come effetto sicuramente secondario e non voluto), una fortissima spinta alla Pace Mondiale. Si, proprio così, sembrerà naif, ma se i tentacoli e le relazioni tra i diversi Paesi si approfondiscono, si ramificano e si solidificano (in tutti i campi, non solo alimentare, ma anche economico, finanziario, energetico, ecc.), vai a fare la guerra a chi ti rifornisce di qualcosa di cui hai bisogno, e di cui non puoi fare a meno: noi non possiamo fare la guerra all'algeria o alla russia, che ci danno l'energia; germania e francia non possono farsi la guerra, tanto sono intrecciate le loro economie; cina e stati uniti, come cavolo fanno a farsi la guerra con quello che hanno in gioco di interconnessione e scambi ? Stesso dicasi per le materia alimentari. E' per questo che secondo me la globalizzazione andrebbe spinta ancora di più, e la politica del km 0 osteggiata (sempre entro i limiti del buon senso, ovvio). Non è per questo che gli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno spinto per la creazione di un continente unito (prima la CECA, e a seguire il resto) ? Come farebbe l'Europa a produrre una nuova guerra mondiale, interconnessa come è ?

E qualcuno se ne esce con la storia che possiamo fare a meno delle banane ? ma scherziamo ? torniamo pure all'età della pietra, no ? e avanti con il mito del buon selvaggio che viveva felice !

kilometro zero, come bio-, è una formula di "marketing" che consente alla costosissima agricoltura italiana di mantenere una fettina di mercato nazionale ed anche internazionale. Non vi vedo nulla di virtuoso né di peccaminoso.

Il rimanente 1% e' dovuto al fatto che tale marketing, creando un monopolio artificiale, riduce l'efficienza complessiva dell'esito di mercato. 

Anzi, mi prendo un altro 1% ricordando che cose di questo tipo fanno il male dei paesi poveri, che potrebbero esportarci prodotti agricoli. 

finché è marketing nulla di male, naturalmente. Il problema non è solo marketing, quanto una sorta di ideologia che si trasforma in politiche vere e proprie. Negli USA il "locavorism" ha indotto i governi di molti Stati a pretendere che le mense delle scuole pubbliche si usino prodotti locali, e lo stesso avviene anche in alcune regioni d'Italia.

La stessa chiusura alle biotecnologie applicate all'agricoltura non è solo pubblicità dagli altoparlanti della Coop, ma è un bando vero e proprio imposto dai governi.

Da biologo posso confermare che l'utilizzo (abuso?) di prefissi e nomignoli sono ormai piuttosto irritanti.

Riporto una domanda/risposta d'esempio sulla "validità" dei prodotti biologici (il grassetto è mio; anno 2008 ma non credo che le cose siano cambiate di molto):

 

Prodotti tipici e biologici danno garanzie in più?
«I prodotti tipici - DOP Denominazione di Origine Protetta, IGP Indicazione Geografica Protetta, STG Specialità Tradizionale Garantita - offrono ampie garanzie al consumatore: sull'origine e modalità di produzione e quindi su tutto il ciclo produttivo, i primi; sull'esperienza ed artigianalità della produzione i secondi e sul disciplinare di produzione i terzi. I prodotti biologici sono il frutto di una metodologia che differisce da quella normalmente utilizzata perché evita il ricorso a sostanze chimiche di sintesi o a forzature di produzione: è un procedimento che rispetta maggiormente l'ambiente ma che non prevede controlli analitici sul prodotto finale, a meno che questi non vengano "volontariamente" effettuati dal produttore o dal distributore».

(C.Cannella, prof.ordinario e direttore Scuola di Spec.Sc.dell’Alimentazione e dell’Ist.Sc.dell’Aliment. c/o "La Sapienza" di Roma)

 

Premetto che non sono affatto un esperto, ma pur seguendo la discussione non riesco a giustificare i programmi agricoli della UE (PAC) che incentivano la non coltivazione dei campi, la distruzione delle eccedenze agricole, l'importazione di latte in territori che hanno un surplus produttivo interno e la produzione di olio spagnolo confezionato e distribuito in Italia.

Si riallaccia sempre ad una motivazione di costo eccessivo della nostra agricultura o può centrare anche l'atteggiamento del governo italiano a livello europeo? Grazie

Non coltivare campi e distruggere raccolti serve ad aumentare il prezzo dei beni prodotti altrove, o che non vengono distrutti. In sostanza, e' una forma abbastanza folle di sussidio agli agricoltori. Sul perche' e percome i funzionari europei decidano che il prodotto x vada coltivato nella regione y credo nessuno sano di mente possa sapere di preciso. 

Post curioso, sembra quasi una riscrittura del mio, non preoccupatevi non sono geloso delle idee...

Venendo invece agli spunti per una discussione sulle Politiche Agricole Comunitarie (PAC), che tanto pesano sul bilancio dell'Unione e che dovrebbero essere a breve rivoluzionate, almeno nelle intenzioni, sarebbe interessante metterle a confronto con quanto si fa negli U.S.A. Anche in ossequio al sito che ci ospita.