La riduzione del turnover NON è il problema

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Personalmente, non mi dispero affatto per le riduzioni del turn over e per i conseguenti tagli programmati al Fondo di Finanziamento Ordinario, FFO, dell'università (Legge 133/08). Che si tratti di un attacco alla ricerca - come si grida nelle "agitazioni" di questi giorni e nell'appello di illustrissimi docenti per bloccare addirittura l'apertura del nuovo anno accademico - è una mistificazione. Certo è una misura drastica, che impone razionalizzazioni e che lascia del tutto aperto il problema della distribuzione del FFO tra gli atenei, cui dovrà provvedere, come ogni anno, apposito decreto. Ma la questione è molto più complessa di quanto le strumentalizzazioni della politica, a tutti i livelli, lasciano intendere.

Tre principali quesiti si pongono sul tema:

- Complessivamente, i finanziamenti dello stato sono sottodimensionati rispetto ai livelli di paesi con analogo grado di sviluppo?

- I finanziamenti dello stato sono ben indirizzati, vale a dire lo stato distribuisce bene, in base a validi criteri, i finanziamenti tra i singoli atenei?

- Gli atenei, a loro volta, utilizzano bene le risorse ottenute?


Partendo da tali quesiti e senza pretesa di rispondervi esaurientemente, cercherò di argomentare la mia lontananza dallo stato di agitazione che mi circonda.

Per quanto riguarda il primo quesito, si deve a Roberto Perotti aver chiarito (già in The Italian University System: Rules vs. Incentives e di nuovo in "L'Università truccata", Einaudi) che la mancanza di fondi è un falso mito. Tenendo opportunamente conto della circostanza che un numero notevole di studenti iscritti non ha più un rapporto con l'università e dunque non grava in alcun senso sulle strutture universitarie, la spesa annuale per studente risulta in Italia "la più alta al mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia".

Ma se, in rapporto al numero di studenti equivalenti a tempo pieno, le risorse complessive attribuite al sistema universitario non sono sottodimensionate, problemi seri sorgono dalla loro distribuzione e dal loro utilizzo. In misura assolutamente prevalente, lo stato ha fino ad oggi finanziato gli atenei sulla base di un criterio di "spesa storica". Vale a dire, garantire a ciascun ateneo la disponibilità di fondi dell'anno precedente è stato l'obiettivo prioritario delle singole assegnazioni in ciascun anno. I finanziamenti non sono stati mai collegati in modo significativo a una valutazione dei risultati, in particolare delle attività di ricerca. Un sistema di incentivi che premiasse meriti scientifici e uso virtuoso delle risorse non è mai veramente decollato. L'ex ministro Moratti ha compiuto i primi passi in questa direzione, con un serio esercizio di valutazione della ricerca. Ma questo esercizio non ha avuto poi alcuna sensibile incidenza sulla distribuzione delle risorse. Due soli dati per chiarire le dimensioni: nel 2008 (decreto ministro Mussi) la quota percentuale di FFO assegnata sulla base dei "risultati dei processi formativi e dell'attività di ricerca scientifica" è stata 2.2%, e nel 2007 0.58%. Il criterio della spesa storica, attraverso cui sono stati sostanzialmente ripartiti i finanziamenti, è pessimo non solo perché non ha nulla a che vedere con il merito, comunque valutato, ma perché offre continua copertura a qualunque politica o a qualunque errore di gestione delle sedi.

Per sottolineare elementi attinenti il terzo quesito, 6 anni di concorsi della riforma Berlinguer, con 3 e poi 2 idoneità per concorso, hanno prodotto nell'università una enorme ope legis per avanzamenti di carriera, la quale ha pesato abbondantemente sulle casse degli atenei. Dal 1999 al 2006 il numero di professori ordinari è cresciuto di ben il 54%, una crescita più consona a un paese sottosviluppato che a un paese di solida tradizione accademica. L'ope legis a beneficio dei professori associati è stata altrettanto imponente ma meno visibile, data la mole dei passaggi alla fascia degli ordinari. Le indiscriminate promozioni di carriera non sono state frenate dal vincolo di legge, posto addirittura nel 1998, per cui le università non possono operare nuove assunzioni a tempo indeterminato se le spese per il personale di ruolo assorbono risorse superiori al 90% del FFO. In questo caso, la legge stabilisce, nuove assunzioni sono possibili solo nel limite del 35% del risparmio che segue alle cessazioni dell'anno precedente. La legge, però, non ha mai fissato precise sanzioni per il rispetto del vincolo. E il vincolo, posto evidentemente per garantire risorse minime per la funzionalità delle strutture, non è rispettato da ben 19 atenei. Questa è la diagnosi della Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica in un documento del luglio 2007.

"Per anni - si legge nel documento della Commissione - le università hanno preferito spendere risorse per garantire la progressione di carriera dei docenti piuttosto che assumere nuovi ricercatori...". Nulla da eccepire, naturalmente, a questa osservazione. Certo, però, che se le regole concorsuali, ossia le triple e doppie idoneità della riforma Berlinguer, forniscono incentivi perversi (alle selezioni fasulle, alla moltiplicazione dei titoli, all'espansione incontrollata dei posti di professore), non c'è poi da meravigliarsi di comportamenti degli atenei che sono del tutto coerenti con gli incentivi perversi forniti dalle regole.

Purtroppo la storia non è finita e gli errori tornano a ripetersi. L'ultimo atto del passato governo, in attesa di una nuova disciplina in materia, è stata la riapertura dei concorsi nel 2008 con i due idonei della regola Berlinguer. La nuova tornata concorsuale, appena avviata, registra 724 bandi per posti di professore ordinario e 1143 per posti di professore associato! In rapporto al numero di ordinari e associati in forza nei nostri atenei, i bandi emanati implicano una crescita potenziale (considerate le due idoneità) degli ordinari pari al 7.2% e degli associati pari al 12.1%. Al costo medio nazionale delle due posizioni di ruolo, questi bandi si traducono in un impegno di risorse aggiuntive di quasi 189 milioni di euro. Se tutte le seconde idoneità si tramutassero in ulteriori posizioni di ruolo, l'impegno di risorse naturalmente si raddoppierebbe. Con quali risorse e sulla base di quali piani di sviluppo sono stati deliberati dalle sedi questi bandi? E questa mole di bandi è compatibile nei singoli atenei con il pieno turn over dei docenti? Se non lo è, le risorse liberate dalle cessazioni del prossimo futuro saranno impegnate per promozioni di carriera.

In questo contesto, ciò che preoccupa non può certo essere un programma di contrazione del turn over e del FFO. Ciò che preoccupa è che non emergano ancora volontà e chiari segnali di un'ampia revisione dei meccanismi di finanziamento degli atenei. Le linee indicate nell'appello "Una università più meritocratica" sono quelle giuste per impostare una tale revisione. Le penalizzazioni di una generalizzata riduzione del FFO potrebbero ridimensionarsi alquanto per atenei che hanno compiuto e che compiono scelte di merito.

 

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Commenti

Ci sono 61 commenti

 

In questo contesto, ciò che preoccupa non può certo essere un programma di contrazione del turn over e del FFO.

 

Domanda: in una ottica comparativa minimale (all'ingrosso) perchè non lanciare un programma "pensionamento a 65 anni"? Non mi sembra scandaloso, anzi lo troverei assolutamente "logico".

RR 

 

 

Sono assolutamente d'accordo. Peccato che:

 

Legge 133, Articolo 72, comma 11

Personale dipendente prossimo al compimento dei limiti di età per il collocamento a riposo

11. Nel caso di compimento dell'anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 possono risolvere, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici, il rapporto lavoro con un preavviso di sei mesi. Con appositi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, previa delibera del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentiti i Ministri dell'interno, della difesa e degli affari esteri, sono definiti gli specifici criteri e le modalità applicative dei principi della disposizione di cui al presente comma relativamente al personale dei comparti sicurezza, difesa ed esteri, tenendo conto delle rispettive peculiarità ordinamentali. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano a magistrati e professori universitari.

 

Sono abbastanza d'accordo che la riduzione del turn-over (o la trasformazione delle universita` in fondazioni private) non e` di per se' un problema.

Mi sembra difficile credere, d'altra parte, che la spesa annuale per studente in Italia sia fra le piu` alte al mondo. Davvero? Ma se l'Italia spende in ricerca meno di un punto di pil, a fronte del 3-6% delle varie democrazie occidentali.

Sono forse un po' confuso, dove sbaglio?

 

Mi sembra che sia spiegato in questa frase

"Tenendo opportunamente conto della circostanza che un numero notevole

di studenti iscritti non ha più un rapporto con l'università e dunque

non grava in alcun senso sulle strutture universitarie,"

 

La spesa per ricerca e la spesa di istruzione universitaria per studente sono quantita' piuttosto diverse, la didattica non e' ricerca, e i dati di spesa per ricerca che citi, oltre ad essere piu' alti del reale per la media degli altri paesi avanzati, sono in rapporto al PIL, mentre la spesa per studente dipende anche dalla partecipazione degli studenti all'universita', che in Italia e' significativamente inferiore alla media OCSE, specie nel passato ma anche ora.

Secondo il rapporto OCSE "Education at a glance 2008" pag. 237 (dati excel) la spesa per l'istruzione universitaria nel 2005 e' 0.9% in Italia, 1.1% in Germania, 1.3% in Francia e 1.6% in Svezia, ma Francia, Germania e Svezia hanno una partecipazione maggiore dell'Italia. Il rapporto OCSE cita anche la spesa per studente, tuttavia per l'Italia (diversamente dagli altri Paesi) viene usato il dato corrispondente a tutti gli studenti inclusi i fuori-corso, peche' lo Stato italiano e le universita' non sono nemmeno capaci di fornire dati aggregati affidabili sulla frazione degli studenti in regola (diversamente dagli altri Paesi). R.Perotti ha fatto una stima della frazione di studenti fuori corso usando i dati disponibili, e ottiene che la spesa per studente in corso dell'Italia e' ai vertici mondiali.

Riassumendo, la spesa per istruzione universitaria italiana in rapporto al PIL e' poco inferiore ai paesi avanzati, pero' ancora piu' inferiore e' la frazione di 18-23enni che fruisce dell'universita', con risultato che la spesa per studente in regola e' tra le piu' alte al mondo. Considerati i risultati nel ranking internazionale delle sedi universitarie italiane, siamo di fronte ad un fallimento pressoche' totale.

Molti protestano con un misto in cui probabilmente l'ignoranza prevale sulla disonesta' che l'Italia spende poco per l'istruzione universitaria ma questo non e' corretto se ci si riferisce ai dati per gli studenti in corso. I problemi reali dell'Italia sono:

  • una bassa partecipazione all'universita' (dovuta all'arretratezza sia culturale che sociale del Paese, e anche ad una scadente azione dello Stato che si limita a pagare le universita' direttamente senza supportare efficacemente gli studenti meritevoli come fanno i Paesi dove la partecipazione e' maggiore).
  • una spesa per istruzione universitaria distribuita a pioggia senza incentivi ai risultati e al merito
  • una frazione patologicamente alta di studenti fuori-corso (prima della riforma del 3+2 il 66% degli studenti iscritti al primo anno non arrivava alla laurea, contro una percentuale tipica del 33% negli altri Paesi). Questo ultimo aspetto e' collegato col sistema italiano di gestione degli esami universitari (unico al mondo e discusso recentemente su lavoce.info) in cui agli studenti e' permesso ripetere senza limite gli esami incentivandoli ad andare fuori corso e svuotando di ogni valore il voto finale dati i diversi tempi impiegati studente per studente per ottenerlo.

 

 

 

[...] si deve a Roberto Perotti aver chiarito [...] che la mancanza di fondi è un falso mito.

 

Senza offesa ma sia tu che Perotti (almeno nei primi 2/3 del libro dato che ancora non ho finito di leggerlo) fate un errore abbastanza macroscopico: confondete i soldi per la didattica con i soldi per la ricerca. Se (forse) ad economia per fare ricerca basta un pc, una connessione a biblioteche e riviste on-line ed un tetto sopra la testa chi fa ricerca in campo fisico/chimico/biologico/medico/ingegneristico/oceanografico/ecc ha bisogno di spazi e di strumentazioni più o meno costose. In pratica i soldi spesi per darmi un posto da assegnista di ricerca (chi è fuori dal mondo accdemico legga pure "ricercatore precario") sono essenzialmente buttati via se non mi si da la possibilità di fare ricerca, ovvero se non si aprono bandi per il finanziamento dei progetti di ricerca più innovativi e meritori.

Certo a fisica (e parlo di fisica solo perché è l'unico ambiente che conosco approfonditamente e di prima mano) i professori per tenere insieme la didattica non mancherebbero. Alla fin fine il numero di iscritti alle facolta di scienze (soprattutto a matematica, fisica e chimica) è ridicolmente basso se lo si compara agli iscritti a medicina, architettura o anche solo ad economia o legge. Si potrebbe quindi pensare di tenere in piedi tutta la didattica con la metà degli strutturati. Se però avessimo la metà dei professori e dei ricercatori le attività di ricerca attualmente svolte andrebbero a rotoli. Qualcuno potrebbe pensare di raddoppiare il numero dei ricercatori precari e dare il tutto in mano a loro; il problema è che la legge italiana (tralascioando i contratti capestro coi quali veniamo assunti) mi impedisce di essere "precario" per più di pochi anni, poi me ne devo andare (ovviamente questa legge, come tutte le leggi, è aggirabile ma non mi sembra una gran consolazione).

Ergo: le mie possibilità di fare ricerca di alto livello sono limitate dalla scarsità di finanziamenti "alla ricerca" e, in più, lo zoccolo duro di quelli che fanno ricerca tutti i giorni (passando il loro tempo in laboratorio) non hanno la possibilità (indipendentemente dal loro merito) di restare a farlo dato che, per come son fatte le leggi, l'unico modo sarebbe quello di essere strutturati ed il blocco del turn-over pone un'ulteriore ostacolo al diventarlo.

 

le triple e doppie idoneità della riforma Berlinguer, forniscono

incentivi perversi (alle selezioni fasulle, alla moltiplicazione dei

titoli, all'espansione incontrollata dei posti di professore)

 

Nel libro di Perotti che citi si chiarisce in modo piuttosto limpido la ragione dietro alle idoneità multiple, ovvero il fatto che in un sistema come il nostro fatto di selezioni truccate, avere due idoneità da assegnare vuol dire avere la possibiolità di assegnare almeno una idoneità a qualcuno di meritevole invece che darle solo al raccomandato di turno. Con questo non voglio dire (come non lo intende Perotti nel suo libro) che il sistema attuale vada bene. Il sistema attuale è marcio fino al midollo. Ma congelare la situazione attuale come sembri voler proporre tu mi sembra solo voler versar sale sulle ferite invece di migliorare la situazione.

 

L'ex ministro Moratti ha compiuto i primi passi in questa direzione, con un serio esercizio di valutazione della ricerca.

 

Ecco, qui non ti seguo proprio. L'unico tentativo serio di valutazione della ricerca che io conosca è stato (in tutti i suoi numerosi limiti) il CIVR, istituito nel '97 (durante il primo governo Prodi) con la legge Bassanini. Il CIVR ha presentato nel 2006 la sua relazione (relativa agli anni 2001-2003). A questo punto la signora Moratti (all'epoca a capo del MIUR) lo fa scomparire e la relazione resta lettera morta.

In conclusione direi che siamo tutti d'accordo che l'università (e soprattutto la ricerca) vada riformata in maniera profonda. A questo proposito il libro di Perotti è sicuramente interessante ed in larga parte condivisibile, così come condivisibili sono molti degli appelli (incluso quello lanciato da nFA ma anche molti appelli scritti da ricercatori, ricercatori precari e dipendenti di enti di ricerca) per una riforma meritocratica dell'università. Al contrario il tuo ragionamento sul fatto che il blocco del turn-over sia tutto sommato una cosa buona e giusta mi lascia estremamente perplesso.

 

 

 

Senza offesa ma sia tu che Perotti (almeno nei primi 2/3 del libro dato

che ancora non ho finito di leggerlo) fate un errore abbastanza

macroscopico: confondete i soldi per la didattica con i soldi per la

ricerca.

 

Potresti precisare meglio questa tua critica? Non ho una conoscenza approfondita di tutti i dati disponibili, ma mi sembra che occorra distinguere tra istruzione universitaria e ricerca, e secondo il rapporto OCSE Education at a glance degli ultimi anni non emerge che l'istruzione universitaria sia sottofinanziata particolarmente in Italia, specie se si tiene conto degli studenti in corso.

La ricerca e' un'altra materia, qui comunque e' il contributo privato che e' 4-5 volte inferiore ai paesi avanzati, mentre il contributo statale e' inferiore solo di un fattore tra 1.5 e 2 direi.

 

Sebbene pensi che che l' intervento firmato J.J. sia un subdolo trucco con cui i redattori di NFA sono finalmente riusciti a farmi scrivere qualcosa sul loro "blog", voglio puntualizzare quanto segue. La valutazione triennale della ricerca (VTR) e` stata effettivamente introdotta nel 1997 dal primo Governo Prodi, ma e` stata anche prontamente messa in naftalina, forse perche` se ne sono intuite le possibilita` eversive. Nel 2003, l'allora Ministro Moratti ha ricostuito il Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca (CIVR), risuscitando cosi` la valutazione della ricerca. Il primo esercizio italiano di valutazione e` stato condotto nel 2005 con riferimento al triennio 2001-03, e i suoi risultati sono stati pubblicati nel 2006. A mio avviso, l'esercizio e` stato un pieno successo. I risultati del VTR 2001-03 sono stati ignorati dal Ministro Moratti ma soprattutto dal Ministro Mussi, succedutole con il secondo Governo Prodi, che ha anche bloccato la prosecuzione dell'esercizio di valutazione per il triennio 2004-06. Mi auguro che l'attuale Ministro Gelmini riprenda quella che, secondo me, e` stata l'unica esperienza positiva in oltre un decennio di politiche deludenti riguardanti l'Universita`.

Franco Peracchi

Presidente del panel per l'Area 13(Scienze economiche e statistiche)

VTR 2001-03

 

 

 

 

Sebbene pensi che che l'intervento firmato J.J. sia un subdolo trucco

con cui i redattori di NFA sono finalmente riusciti a farmi scrivere

qualcosa sul loro "blog" ...

 

1) non c'è nessun intervento firmato J.J., che io veda ... forse intendi JB

2) qui i trucchi, let alone "subdoli", nemmeno sappiamo cosa siano. Però tu, com'è che ci leggi ora?

3) per chi non conoscesse il professor Peracchi: la sua frase iniziale è ironica. Se mi sbaglio mi mangio il berretto stile "esercito del popolo" (del professor Peracchi, non mio) senza neanche condirlo ...

 

 

La valutazione triennale della ricerca (VTR) e` stata effettivamente introdotta nel 1997 dal primo Governo Prodi, ma e` stata anche prontamente messa in naftalina, forse perche` se ne sono intuite le possibilita` eversive.

 

Il CIVR è stato in effetti istituito nel 1998 (vds. D.Lgs. 5 giugno 1998, n. 204) e la sua prima composizione determinata nel 1999 (D.P.C.M. 26 marzo 1999). Tuttavia faccio notare che la valutazione della ricerca, così come la valutazione dell'istruzione, non deve necessariamente portare ad una valutazione comparativa. Nel decreto legislativo di istituzione non si fa menzione di alcun esercizio del tipo VTR - ed in effetti questa attività fu intrapresa solo con la nomina della seconda composizione (2003-2007, ora prorogata) (D.P.C.M. 9 maggio 2003). Non sappiamo esattamente cosa abbia abbia fatto il CIVR fra il 1999 e il 2003, ma avrebbe potuto comunque fare diverse cose importanti in ogni caso. Non sappiamo neanche in che modo il mandato specifico di fare il VTR 2001-2003 fu dato al CIVR nel suo secondo mandato, comunque un po' tutti attribuiscono alla Moratti l'indirizzo decisivo. Tuttavia una cosa e' l'indirizzo generico, una cosa e' disporre di un quadro chiaro e certo (e stabile) circa i fini di questo esercizio, per la qual cosa nessuno può dichiarare che "si sarebbe poi dovuto fare qualcosa che non è stato poi fatto". In effetti, cioè, non c'e' scritto da nessuna parte che tipo di risultati attesi e che uso si deve fare dell'esercizio VTR.

Non so se ho dato l'idea (del quadro confuso) in queste poche righe, comunque ho scritto qualcos'altro anche qui.

RR 

 

Sono francamente stupita che, vivendo e operando in Italia, si possa pensare che la "privatizzazione" (leggi: la possibilità di istituire fondazioni per il supporto e il governo dell'università, peraltro senza una loro particolare caratterizzazione rispetto al compito da svolgere, come accade, per esempio, in Spagna) possa essere una soluzione per avviare cambiamenti significativi, certamente necessari, del sistema universitario italiano. Provo a spiegarmi in pochi punti:

- da dove dovrebbero venire i soldi? qualche ipotesi:1) dalle banche, o almeno dalle fondazioni bancarie, che hanno l'obbligo di destinare risorse al settore social-culturale e, in verità, qualche esempio virtuoso si potrebbe citare. Ma, in generale, fino ad oggi, le fondazioni hanno preferito investire là dove sapevano di poter riavere ritorni di clientela (molto in restauri, molto nel settore sanitario) e, sulla base dei principi di ottimizzazione a noi tanto cari, come indurle a fare diversamente , se non attraverso "costrizioni" difficili, impopolari e probabilmente di scarso risultato? 2) dal sistema delle imprese: beh, qui credo di dover dire poco, dato che tutti conoscono la propensione all'innovazione e all'investimento del sistema produttivo italiano. se poi hanno finanziato qualcosa fin qui, trattasi di sedicenti università private (vogliamo parlare delle telematiche?), per la gran parte di qualità medio-bassa, ma ottimi strumenti per la costituzione di lobbies e per giovarsi di finanziamenti pubblici (garantiti dal precedente governo Berlusconi). Adesso poi hanno la scusa della crisi: già stanno chiedendo a gran voce di pagare meno tasse, meno salari, etc... 3) cosa resta? notai, avvocati, medici... gli ordini professionali insomma, che sono buoni intercettatori di rendite. Si potrebbe provare: si potrebbe così dare finalmente compiutezza all'organizzazione corporativa auspicata da Bottai....così, si prende pragmaticamente atto della realtà del paese e addio a ogni speranza di liberalizzazione, che tanto non la vuole nessuno, come dimostrano costantemente gli italiani con il loro voto (ipse Berlusconi dixit). 4) ah, dimenticavo: ci sono anche mafia e camorra, che 'sti poveri ragazzi stanno sempre lì a preoccuparsi di come riciclare i soldi...diamogli una mano, no? tanto li portano all'estero, allora è meglio che li investano qui.

- la "questione Medicina": all'interno delle università italiane, dove è stata certamente fatta una politica del personale (docente e non) dissennata e clientelare, il maggior centro di potere clientelare e anche di assorbimento di risorse si trova tuttavia spesso nelle Facoltà di Medicina che, avendo tra i loro obiettivi, oltre alla formazione, anche l'assistenza, non perdono occasione di rivendicare priorità, spesso fiancheggiate dalle istituzioni regionali in cerca di supporto per il mantenimento dei livelli di qualità dei servizi. Il servizio sanitario nazionale, nonostante tutto, è (a differenza di quello statunitense) tra i più efficienti del mondo (fonte:OECD), ma comincia a soffrire di scarsità di risorse, come tutto il settore pubblico. Nel rapporto convenzionale con le Facoltà di Medicina, queste ultime hanno avuto buon gioco ad aumentare il loro potere contrattuale rispetto alla controparte Regione, mettendo nel piatto le risorse che riescono a carpire dal sistema universitario: non credo sia un caso che, ultimamemte, i medici siano interessati ad occupare la carica di Rettore (Chieti, Perugia, Roma "La sapienza",...) In questo contesto, non è difficile prevedere dove andrebbero a finire la maggior parte delle risorse aggiuntive, senza peraltro nessuna garanzia di produrre sollievo per il sistema sanitario, dato che la gestione delle risorse stesse sarebbe completamente in mano ai medici universitari, senza nessun opportuno contemperamento di interessi.

- le "consorterie": in ogni settore scientifico disciplinare, i gruppi di potere più forti non sono necessariamente i più qualificati dal punto di vista scientifico. Una triste controprova di ciò è l'esodo di giovani competenze verso altri paesi. Tuttavia sono queste "consorterie forti" a dominare la gran parte delle università italiane, allineandosi al modello sociale diffuso, che è quello basato sulla distribuzione di rendite: anzi, più sono allineate, più sono forti. Un intervento consistente  in tagli di fondi indiscriminati e non finalizzati rischierebbe perciò di risolversi in un caso clamoroso di selezione avversa,  sia tra le università, sia all'interno di ciascuna università. L'eventuale, successiva, immissione di fondi privati a vantaggio di chi andrebbe?

 

Vedo che l'ho fatta troppo lunga; in sintesi, non credo che gli studenti si opporrebbero così diffusamente ad interventi che andassero davvero alla radice dei problemi. Non a caso, credo, la reazione è partita dalle facoltà scientifiche, a differenza di quanto generalmente accaduto negli ultimi quarant'anni, quando erano le più "ideologizzate" facoltà umanistiche a guidare i movimenti. Un governo che dichiara di godere del 70% del consenso nel paese potrebbe davvero, se volesse e se ne fosse capace,  intervenire in modo da avviare una positiva e mirata razionalizzazione del sistema, valorizzando prima di tutto il buono che c'è.

 

 

 

 

 

2) dal sistema delle imprese: beh, qui credo di dover dire poco, dato che tutti conoscono la propensione all'innovazione e all'investimento del sistema produttivo italiano

 

tra micro imprese e artigianato cosa resta? Un colosso come l'Unibo gestisce un bilancio di 400 milioni l'anno. Anche solo prevedendo un misero 5%... chi li metterà i soldi?

 

 

Non sottovaluterei la filantropia. Nella mia città il contributo per "il sociale" di alcune famiglie storicamente ricchissime  è stato valorizzato dal comune creando un'apposita fondazione che ne valorizza (gestendoli "economicamente"...alcune volte si tratta di terreni, di quadri di valore, di appartamenti, non sempre "cash") i lasciti e le donazioni e si occupa di dargli adeguata "pubblicità". Considera che il comune non ha possibilità di dare incentivi fiscali a costoro; lo fanno perché gli fa piacere che venga intitolata una palazzina dell'ospizio cittadino alla propria famiglia, perché alla cena di natale del rotary ricevono l'applauso di tutti i notabili, perché ci tengono a distinguersi e vogliono essere ricordati.

Con qualche incentivo, tipo deducibilità integrale delle donazioni (già previsto nel decreto) e "coccolando" adeguatamente chi fa le donazioni, credo che la cosa potrebbe decollare anche per le università.


Chiaro che i problemi di governance a cui accenni permangono...ma se la fondazione può scriversi le sue regole di condotta in piena autonomia, si può sperare che ci mette i soldi pretenda (più e meglio di quanto non abbia fatto il ministero) un meccanismo di governo decente e che le sue risorse non vadano sprecate a piazzare mogli/mariti/concubine e pargoletti.

 

Credo che invece la riduzione del turn over cosi' concepita sia un altro grande problema. Come osservato nel'articolo, nel 2008 c'e' stata una corsa al concorso che avra' effetti deleteri e probabilmente penalizzera' le universita' migliori (assumendo che chi vince i prossimi concorsi prima o poi verra' assunto). Ho fatto due conti e ho trovato che (sorpresa sorpresa) le universita' piu' scadenti sotto l'aspetto scientifico (cfr CIVR) sono quelle che hanno bandito piu' concorsi. La correlazione negativa non e' forte, ma c'e'. Ecco a voi:

Civr e nuovi concorsi

Note: La variabile "Quota nuovi professori" rappresenta il rapporto fra nuovi concorsi per professori ordinari e associati banditi nella prima sessione 2008 e il numero totale di ordinari e associati presenti in ciascun ateneo. Il "CIVR rank" e' una media ponderata dei risultati CIVR di ciascun ateneo.

Fonte: CIVR e MIUR. 

 

 

mauro, hai dimenticato di linkare i dati (o hai tolto il link?)

 

Mi sembra che l'autore abbia sorvolato sul fatto che buona parte dei concorsi citati siano in qualche modo "predestinati". E' anche, se non soprattutto, questa una delle piaghe dell'università italica.

Ho scoperto questo blog ma con mio sommo rammarico constato che non sono ancora apparse segnalazioni. Allora mi viene un dubbio: vuoi vedere che vittime e carnefici siedono allo stesso tavolo?

 

Intanto la degenerazione continua. Notate il ruolo cruciale che il valore legale del titolo di studio gioca nel determinare tali comportamenti esecrabili.

 

Può ben essere che la spesa annuale per studente in Italia risulti la più alta del mondo, dopo USA, Svizzera e Svezia. Però bisognerebbe chiarire su quali calcoli si basa questa affermazione. Il documento Education at a glance 2008 (www.oecd.org/edu/eag2008), diffuso dall’OECD nel settembre scorso, colloca la spesa annuale per studente universitario in Italia, ben al di sotto della media dei paesi della OECD e dei paesi dell’Europa dei 19. Inoltre nella nota tecnica allegata al capitolo che tratta degli investimenti finanziari nell’istruzione, si precisa che per l’Austria, la Germania e l’Italia “No distincion is made between part-time and full-time studies at the university level. However, for expenditure over the duration of studies the effect balances out, since reporting part-time students as full-time students leads both to an underestimate of annual expenditure and to an oversestimate of the duration of studies."   Può essere che i calcoli fatti dagli esperti della OECD e che, secondo loro, non sono infuenzati dalla mancata distinzione tra studenti a tempo pieno e studenti a tempo parziale, non siano corretti, ma questo dovrebbe essere argomentato e le eventuali correzioni dovrebbero essere applicate ai dati di tutti i paesi.

 

 

Può ben essere che la spesa annuale per studente in Italia risulti la

più alta del mondo, dopo USA, Svizzera e Svezia. Però bisognerebbe

chiarire su quali calcoli si basa questa affermazione.

 

Concordo e invito chi ha fatto l'intervento qui commentato a riassumere il materiale di supporto a questa affermazione di R.Perotti. Premetto che ritengo Perotti uno studioso serio e degno di fede, comunque non ho letto il suo ultimo lavoro. Aggiungo comunque un collegamento alla pagina web dove e' possibile accedere a due suoi lavori precedenti sull'universita' italiana, che ho letto sia pure velocemente: igier. Inoltre aggiungo alcuni pezzi dell'interessante commento intitolato "Avviso ai naviganti della palude universitaria" da cui emergono alcuni punti del ragionamento di Perotti, che parte dal rapporto OCSE "Education at a glance 2007", precedente da quello recentemente pubblicato nel 2008.

 

[le cifre sulla spesa per studente contenuta nel rapporto OCSE 2007] per tutti i Paesi ad esclusione dell'Italia, "equivalente a tempo pieno,

cioè calcolando il numero degli studenti pesati per i corsi

effettivamente seguiti e gli esami effettivamente sostenuti:

all'incirca, uno studente che in un anno fa solo la metà degli esami

del carico normale riceve un peso di 0,5, e così via. Uno studente che

non frequenta e non dà esami non sottrae tempo ai docenti e non impone

costi all'ateneo dove è iscritto: se un ateneo spende 10 euro ed ha due

studenti, di cui uno non frequenta, tutta la spesa dell'università di

fatto è diretta allo studente che frequenta, quindi il costo medio per

studente equivalente a tempo pieno non è di 5 euro, ma di 10. Per

mancanza di informazioni, tuttavia - prosegue impietosamente Perotti -,

il dato italiano si riferisce alla spesa media per studente iscritto,

quindi attribuendo il peso intero anche agli studenti fuori corso e

agli studenti inattivi, cioè che non danno esami" (pp. 37-38).

La differenza non è di poco conto in quanto nel nostro Paese circa la

metà degli iscritti è fuori corso e un buon quarto non ha dato neanche

un esame. Se quindi si utilizzasse il coefficiente fornito dallo stesso

Miur per il 2003 (mancando i dati per gli anni successivi) "la più alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia"

(p. 38, il grassetto è mio). Se poi volessimo utilizzare come

indicatore non la spesa annuale per studente ma quella per studente

durante la durata media effettiva degli studi, non potremmo non

constatare con desolazione che l'Italia spende più della media Ocse e

più di Francia e Regno Unito.

[...]

dati

della Banca d'Italia alla mano, in Italia solo l'8 per cento degli

studenti universitari proviene dal 20 per cento più povero della

popolazione mentre negli Stati Uniti la percentuale è del 13.

L'università italiana, dunque, è più classista di quella statunitense. "in Italia le

remunerazioni medie e massime di ricercatori e professori associati

sono superiori. Sono invece inferiori quelle minime, e quasi certamente

quelle massime degli ordinari", in quanto in Gran Bretagna "c'è la possibilità di retribuire molto le superstar di ciascuna

disciplina" (p. 41).

Non

è dunque, in Italia, "l'ammontare totale per studente, o la

remunerazione media dei docenti, che è insufficiente; è la sua

distribuzione e la sua progressione che sono perverse. In Italia si

pagano pochissimo i ricercatori appena entrati nell'università, cioè i

più giovani e motivati, ma c'è una progressione stipendiale velocissima

per effetto della sola età, che porta gli stipendi medi e massimi a

essere ben superiori a quelli britannici" (p. 42).

 

Concludo con un'altra osservazione, negli anni recenti l'universita' italiana e' cambiata radicalmente, nel 2000 laureava solo il 20% della popolazione giovane, nel 2006 e' arrivata al 39%, nella media OCSE. Il cambiamento e' frutto della riforma 3+2, cioe' significa che ora abbiamo il doppio dei laureati ma la loro qualita' e il numero di anni di universita' e' molto inferiore. Alcuni dei laureati inclusi nel 39% sono "scandalosi" come vedo alcune inchieste stanno mostrando.

A mio parere i confronti piu' adeguati non sono quelli sulla spesa per studente, ma quelli della spesa per laureato.  Occorrerebbe valutare anche la qualita' dei laureati, e anche "pesare" ogni laureato per il numero di anni del suo corso di laurea. In questo genere di confronti, ritengo che la spesa per laureato in Italia fino al 2000 e' stata quasi certamente ai vertici mondiali (0.8% del PIL contro 1.1-1.3 di Germania-Francia, a fronte di un numero nettamente inferiore di laureati in rapporto alla popolazione giovanile), ma questo dato sta evolvendo rapidamente verso la media europea e oggi ritengo che il problema principale oggi sia valutare il livello di preparazione dei laureati e premiare o punire le universita' in base al prodotto di numero di laureati per la loro qualita' media. Ovviamente lo Stato italiano non sta facendo nulla del genere e temo non ne sara' mai capace, e' un problema di serieta' delle elites culturali italiane, in fin dei conti, e la loro qualita' e' quella che e', di certo non la si cambia radicalmente per legge.

 

 

 

Può ben essere che  [...] Può

essere che i calcoli fatti [...] questo

dovrebbe essere argomentato e le eventuali correzioni dovrebbero essere

applicate ai dati di tutti i paesi.

 

A mio avviso Perotti i calcoli li fa e li documenta nel suo libro. Mi sembra invece che chi continuamente mette in dubbio quei calcoli senza argomentare il perché e senza produrne di alternativi e meglio concepiti, dovrebbe provare a ... farli, i calcoli intendo. 

 

QUI

Se davvero pensavano di farla franca nominando una laureata in lettere alla cattedra di medicina legale, allora la situazione non è grave, è semplicemente irreparabile. 

 

La faranno franca, come sempre. La magistratura non puo' nulla come al solito.

 

 

Ma se, in rapporto al numero di studenti equivalenti a tempo pieno, le risorse complessive attribuite al sistema universitario non sono sottodimensionate, problemi seri sorgono dalla loro distribuzione e dal loro utilizzo.

 

Una nota concettuale: è poco appropriato parlare di distribuzione ed utilizzo di risorse quando la struttura stipendiale e in definitiva lo "stato giuridico" dei docenti è determinato dalla legge. In questa situazione le Università non possono autonomamente cambiare questo stato di cose. Inoltre, e per contrasto stridente, il corpo docente non "sente" affatto sulla propria pelle questa limitazione di risorse dal momento che l'"incardinamento" alla legge nella forma del più puro funzionariato pubblico lo proteggerà anche nei confronti di una situazione di dissesto della propria Università. E infatti si continuano a fare bandi, nel più puro stile dell'Allegoria di un naufragio, senza che i "responsabili" pensino di dover pagare in prima persona, con una limitazione di stipendio, la quota di rischio - tanto un Pantalone si troverà sempre.

RR   

 

Antonelli :

 

Mi sembra difficile credere .. che la spesa annuale per

studente in Italia sia fra le piu` alte al mondo. Davvero? Ma se

l'Italia spende in ricerca meno di un punto di pil, a fronte del 3-6%

delle varie democrazie occidentali.

 

La spesa in ricerca, in rapporto

al PIL, e il finanziamento dello stato alle università pubbliche, in rapporto

al numero di studenti, sono cose diverse, i cui confronti internazionali

possono pertanto dare esiti diversi. Lo stato finanzia la ricerca non

solo attraverso i finanziamenti all’università pubblica e la ricerca non è

ovviamente finanziata solo dallo stato.

 JB:

 

Senza offesa ma sia tu che Perotti (almeno nei primi 2/3 del libro dato

che ancora non ho finito di leggerlo) fate un errore abbastanza

macroscopico: confondete i soldi per la didattica con i soldi per la

ricerca.

 

E’ un po’ grossa, eh? Ci

rifletterò. Non so Perotti, ma io prometto di farlo.

 

... il tuo ragionamento sul fatto che il blocco del turn-over

sia tutto sommato una cosa buona e giusta mi lascia estremamente

perplesso.

 

Il blocco del turnover  è una misura drastica, che impone subito

razionalizzazioni, delle quali credo vi sia un gran bisogno. Ma questa misura

deve essere accompagnata da un ampia opera di riforma dell’università. Cruciale

è la revisione dei meccanismi di finanziamento degli atenei. Se sarà impostata

su un sistema di incentivi e, per farla breve, di premi al merito e se questo

sistema sarà applicato correttamente, le penalizzazioni di una generalizzata

riduzione del FFO saranno in realtà molto diverse nei singoli atenei.

 Figà Talamanca:

 

Può ben essere che la spesa annuale per studente in Italia risulti la

più alta del mondo, dopo USA, Svizzera e Svezia. Però bisognerebbe

chiarire su quali calcoli si basa questa affermazione.

 

Nel libro che ho citato Perotti

lo chiarisce, praticamente con le stesse parole della lunga citazione di

Lusiani nel commento successivo: egli applica “il coefficiente di .483 fornito

dal MIUR per il 2003 (non vi sono dati per gli anni successivi) per convertire

il numero di studenti iscritti nel numero di studenti equivalenti a tempo

pieno”. In rapporto a quest’ultimo numero, e dunque correggendo la Tavola B1 di Education at

a Glance - 2007, la spesa italiana risulta tra le più alte dei paesi OCSE

(L’università truccata, pagg. 35-38).

Devo aggiungere, però, che ho un po’ l’impressione di una qualche

forzatura in questo spigolosetto dibattito sulla spesa per studente, di una una sorta, insomma,

di dialogo tra sordi. Perotti scrive nel libro: “Questi confronti

internazionali vanno comunque presi con molta cautela, perché è praticamente

impossibile assicurarsi che per ogni paese si prendano in considerazione

esattamente gli stessi tipi di studenti e le stesse spese.” (pagg. 39-40). E

Figà Talamanca, nel commento a me, scrive:

 

Sia ben chiaro che io non ritengo "sottofinanziato" il sistema

universitario italiano, e che considero comunque abbastanza

inaffidabili confronti internazionali di sistemi così diversi.

 

E allora? Non sembra più

ragionevole vedere nei calcoli di Perotti una utilissima indicazione di uno

stato dei finanziamenti all’università sicuramente assai meno drammatico

di quanto emerge dalla Tavola B1 di Education at a Glance?

 

 

Renzino l'Europeo:

 

Una nota concettuale: è poco appropriato parlare di distribuzione ed

utilizzo di risorse quando la struttura stipendiale e in definitiva lo

"stato giuridico" dei docenti è determinato dalla legge.

 

Lo stato giuridico è

naturalmente importante, ma la mia denuncia è molto forte anche fermo

restando l'attuale stato giuridico. Ribadisco solo che la distribuzione del FFO

tra gli atenei è stata sempre fatta sostanzialmente sul pessimo criterio della spesa

storica. Anche con lo stato giuridico che abbiamo si poteva distribuire l’FFO utilizzando, in misura significativa,

criteri diversi. Per quanto riguarda l’utilizzo del FFO nei singoli atenei, la

scelta di impegnare gran parte delle risorse disponibili per avanzamenti di

carriera (di nuovo, fermo restando lo stato giuridico) è stata una politica

alquanto discutibile. Molte altre cose si potevano fare con quelle risorse, di

nuovo fermo restando lo stato giuridico.

 

 

p

 

 

Oggi ha deciso di farsi notare Piero Ostellino con una pessima column dall'ancor più incredibile titolo: "Il nuovo pericoloso slogan: risparmiare!"

Sì, sì, avete letto bene, guardare per credere !!!

Ma - dico io - ormai è difficile anche tenere un argine almeno minimale sulla logica in questo Paese !!!

Considerato che il primo decreto Gelmini-Tremonti (il 133) prevede tagli seri nei prossimi anni, e poichè è notorio che quasi il 90% del Fondo di Finanziamento Ordinario se ne va in stipendi, è chiaro che se c'è un capitolo dove bisogna intervenire in qualche modo è quello della spesa in personale. Ma cosa fa irritare Ostellino (e i sindacati)?? Il fatto che una previsione del 133 consenta di mettere a riposo ricercatori che abbiano maturato 40 anni di contributi, anche prima di aver raggiunto i 65 anni dell'età ordinaria di pensionamento. All'art. 72 si legge:

11. Nel caso di compimento dell'anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 possono risolvere, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici, il rapporto lavoro con un preavviso di sei mesi. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentiti i Ministri dell'interno e della difesa sono definiti gli specifici criteri e le modalità applicative dei principi della disposizione di cui al presente comma relativamente al personale dei comparti sicurezza e difesa, tenendo conto delle rispettive peculiarità ordinamentali. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano a magistrati e professori universitari.

Ora, la cosa curiosa è che, a ben vedere, dei ricercatori che abbiano maturato 40 anni di contributi, restando ancora ricercatori, ce ne saranno pochetti. Ci sono anche un po' di assistenti (ruolo ad esaurimento, dal 1980) ma neanche tanti, 464 pare, di cui pero' non saprei dire quanti con 40 anni di contributi - non la maggioranza, direi. Comunque il Soccorso delle Pantere Grigie è già in arrivo.

All'interno di un provvedimento generale sul pubblico impiego che sta viaggiando ora in Parlamento era stato già inserito un articolo che emendava il 133 inserendo fra le eccezioni, oltre i professori (che per la maggior parte hanno un pensionamento a 70 anni + 2-3 anni a discrezione) anche i primari ospedalieri:

3. Al comma 11 dell’articolo 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: « e ai primari ospedalieri ».

I sindacati vorrebbero mettervi anche ricercatori e assistenti. Ostellino invece fa un fritto misto ideologico, e paventa anche l'intervento sui docenti (esclusi, come detto). Ma i ricercatori e gli assistenti, se sono ancora in quel grado a quasi 65 anni con 40 anni di contribuzione, molto probabilmente non sono proprio delle personalità accademicamente sfolgoranti (N.B. che le valutazioni sono sempre e comunque personali, ma qui si ragiona in termini di "possibilità" per l'Amministrazione, non di obbligo).

Forse che il 74-enne opinionista del Corriere abbia intravisto in questa novella un pericolo per tutti gli inerziali babbioni che, con lauti stipendi, rimangono seduti sul proprio scranno senza combinare granchè?

RR