Laureati ed iscritti all'università, un riassunto

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In un precedente post sostenevo che l'università italiana continua a produrre pochi laureati ed attrarre pochi iscritti, rispetto ai potenziali. Tale conclusione venne criticata perché la base dati del MIUR che utilizzavo era (ed è?) gravemente incompleta (ma il MIUR non lo diceva, e continua a non dirlo!). Grazie all'intenso scambio di commenti che hanno fatto seguito a quel post le cose sono ora abbastanza più chiare.

 

Per riassumere le conclusioni a cui (credo) si sia giunti utilizzo sia dati inseriti nei commenti sia alcune tabelle del rapporto (ancora non pubblico) che Alessandro Figà Talamanca menzionava in suo commento, alcune pagine del quale mi ha cortesemente inviato.

Tabella 1.14 – Laureati/diplomati per tipologia di corso di studi dal 2001 al 2007

 

Anno

 

 

Totale laureati Vecchio Ordinamento

 
 

Nuovo ordinamento

 
 

Totale laureati Nuovo Ordinamento

 
 

Totale complessivo

 



 

Lauree

 
 

Lauree specialistiche

 
 

Lauree specialistiche a ciclo unico

 
 

2001

 



 

170.532

 
 

1.267

 
 

1

 
 

6

 
 

1.274

 
 

171.806

 
 

2002

 



 

177.898

 
 

22.304

 
 

99

 
 

817

 
 

23.220

 
 

201.118

 
 

2003

 



 

172.396

 
 

53.747

 
 

2.971

 
 

5.825

 
 

62.543

 
 

234.939

 
 

2004

 



 

164.971

 
 

92.304

 
 

4.247

 
 

7.299

 
 

103.850

 
 

268.821

 
 

2005

 



 

144.682

 
 

138.307

 
 

10.454

 
 

7.855

 
 

156.616

 
 

301.298

 
 

2006

 



 

100.888

 
 

161.445

 
 

29.620

 
 

8.782

 
 

199.847

 
 

300.735

 
 

2007

 



 

64.309

 
 

173.668

 
 

50.538

 
 

11.616

 
 

235.822

 
 

300.131

 

Tabella 1.15 – Laureati nei corsi di laurea di primo livello per anni di conseguimento del titolo

 

Laureati

 
 

Tempo conseguimento titolo (anni)

 
 

2005

 
 

2006

 
 

2007

 
 

n. di laureati

 
 

%

 
 

n. di laureati

 
 

%

 
 

n. di laureati

 
 

%

 
 

regolari

 
 

3

 
 

44.988

 
 

34,8

 
 

46.763

 
 

30,3

 
 

50.345

 
 

29,9

 
 

un anno oltre la durata del corso

 
 

4

 
 

52.518

 
 

40,6

 
 

52.427

 
 

34

 
 

51.246

 
 

30,4

 
 

2 anni oltre la durata del corso

 
 

5

 
 

14.936

 
 

11,5

 
 

31.378

 
 

20,3

 
 

30.097

 
 

17,9

 
 

3 anni oltre la durata del corso

 
 

6

 
 

6.062

 
 

4,7

 
 

9.642

 
 

6,2

 
 

18.531

 
 

11,0

 
 

4 anni oltre la durata del corso

 
 

7

 
 

3.367

 
 

2,6

 
 

4.556

 
 

3

 
 

6.587

 
 

3,9

 
 

5 anni oltre la durata del corso

 
 

8

 
 

2.172

 
 

1,7

 
 

2.645

 
 

1,7

 
 

3.216

 
 

1,9

 
 

6 anni oltre la durata del corso

 
 

9

 
 

1.354

 
 

1

 
 

1.627

 
 

1,1

 
 

2.011

 
 

1,2

 
 

7 anni e più oltre la durata del corso

 
 

10

 
 

3.973

 
 

3,1

 
 

5.235

 
 

3,4

 
 

6.338

 
 

3,8

 
 

Laureati totali (*)

 
 

129.370

 
 

100

 
 

154.273

 
 

100

 
 

168.371

 
 

100,0

 
 

Laureati già in possesso di un titolo precedente o di cui non si conosce l’a.a. di prima immatricolazione

 
 

8.937

 
 


 

7.172

 
 


 

5.297

 
 


 

Totale complessivo

 
 

138.307

 
 


 

161.445

 
 


 

173.668

 
 


 

Durata media degli studi (in anni)

 
 

4,2

 
 

4,4

 
 

4,6

 
 

Durata mediana degli studi (in anni)

 
 

3,4

 
 

3,6

 
 

3,7

 

(*) Sono esclusi i laureati già in possesso di un titolo di studio universitario e quelli di cui non si conosce l’anno accademico di prima immatricolazione.

 

Tabella 1.16 - Stima del tasso di successo e del tasso di regolarità nei corsi di laurea di primo livello

 

anno accademico

 
 

Immatricolati

 
 

anno solare

 
 

Laureati

 
 

Laureati regolari

 
 

Laureati totali su immatricolati tre anni prima

 
 

Laureati regolari su immatricolati tre anni prima

 
 

2001-2002

 
 

289.747

 
 

2004

 
 

92.304

 
 

40.680

 
 

31,9

 
 

14,0

 
 

2002-2003

 
 

307.544

 
 

2005

 
 

138.307

 
 

44.988

 
 

45,0

 
 

14,6

 
 

2003-2004

 
 

313.205

 
 

2006

 
 

161.445

 
 

46.763

 
 

51,5

 
 

14,9

 
 

2004-2005

 
 

306.713

 
 

2007

 
 

173.668

 
 

50.345

 
 

56,6

 
 

16,4

 



A questi dati aggiungiamo quelli contenuti nel compendio statistico del MIUR per l'anno accademico 2006/07. Gli iscritti alla totalità delle università italiane, pubbliche e private, erano 1.809.186 (di cui donne 1.022.746). Gli immatricolati erano 308.082 (di cui donne 171.731). Gli iscritti fuori corso erano 667.598 (di cui donne 369.893).

La Tabella 1.14 è consistente con quella di un mio commento: i dati per il 2007 sono identici. Essa indica che i nuovi laureati "veri", nel 2007, erano (al massimo-massimo) 185mila circa. Questo perché i 64mila laureati con l'antico ordinamento vanno esclusi per le ragioni che argomento più oltre. Infatti, un minimo di analisi dei dati mi farà concludere che il numero giusto da utilizzare è fra 120 e 160mila. Poiché i 25enni sono poco meno di 600mila, questo dà una percentuale di laureati che oscilla fra il 20 ed il 27 per cento. Ecco il mio ragionamento.

Il medesimo rapporto ci informa anche che

dal confronto tra gli anni 2005, 2006 e 2007, si evidenzia la flessione sia della proporzione di laureati regolari (dal 34,8% nel 2005, al 30,3% nel 2006, fino al 29,9% nel 2007) sia di quelli che hanno conseguito un anno oltre la durata normale del corso (10,2% in meno rispetto al 2005). Aumenta, invece, la percentuale di coloro che si laureano 2 o 3 anni oltre la durata regolare degli studi (circa il 30% nel 2007, Tab. 1.15). Il dato si riflette sia sulle medie della durata dei corsi (da 4,2 anni del 2005 a 4,4 del 2006 fino a 4.6 nel 2007), sia sulle mediane (da 3,4 a 3,6 anni, fino a 3,7 nell’ultimo anno).


Queste performances si riflettono nelle percentuali riportate nella Tabella 1.16. Il confronto con dati analoghi per l'ordinamento precedente (riportati nella tabella 1.18 del medesimo rapporto) suggerisce che chiamare "laurea" il diploma triennale ha fatto aumentare il tasso di regolarità dal 2 al 17 per cento, ed il tasso di successo dal 46 al 56 per cento. Per dare un'idea: negli USA del 2001 il tasso di regolarità (Bachelor dopo quattro anni) era il 59%, il 66% includendo il diploma triennale. Il tasso di successo era dell'80%, ma il confronto con il dato italiano è qui improprio perché quest'ultimo (56%) include anche i laureati dopo 10 o 20 anni, mentre quello USA si limita a persone che utilizzano al più 6 anni per ottenere un BA o un BS.

La Tabella 1.15 (analoga ma molto più chiara di quella che avevo riportato nel medesimo commento indicato poc'anzi) spiega perché queste osservazioni siano rilevanti. L'immatricolazione avviene, al più presto, a 19 anni; spesso avviene a 20 o anche più tardi, ma fa lo stesso. Chi si laurea dopo più di 6 anni ha un'età certamente superiore ai 25. Poiché la durata dei nuovi corsi di laurea è di tre anni, coloro che si laureano 4 o più anni fuori corso appartengono a questo gruppo. Infatti, coloro che si laureano ad un'età superiore ai 25 anni probabilmente sono molti di più visto che, fra gli iscritti al primo anno, quelli di età superiore ai 19 erano, nel 2007/08, il 77% del totale! Manteniamoci cauti e sottraiamo solo coloro che si laureano 4 o più anni fuori corso: i laureati italiani con età inferiore o uguale ai 25 anni sono dunque stati, nel 2007, 150mila a farla grande. A questi possiamo aggiungere gli 11mila che hanno ottenuto una laurea di specializzazione a CU per un totale di 161mila nella migliore delle ipotesi.

Infatti, stimare a 160mila i nuovi laureati dell'anno 2007 d'età pari o superiore ai 25 anni è una grossolana esagerazione. Il sito incriminato "Anagrafe Nazionale Studenti", anche se apparentemente racconta balle sui valori assoluti, credo possa essere considerato un campione non distorto per quanto riguarda la composizione per gruppi di età. Utilizzandolo scopriamo che fra tutti i laureati (inclusi quelli con vecchio ordinamento, specializzazioni, eccetera) durante l'anno accademico 2006/07 la percentuale di quelli con età pari o superiore ai 26 anni era circa il 33%, mentre era il 26% fra coloro che conseguivano una laurea triennale. Usando questi valori, i laureati nuovi d'età pari o inferiore ai 25 anni diventerebbero 120mila circa. Un numero abbastanza miserabile e sul quale si basa la percentuale inferiore (20%) che ho menzionato all'inizio.

Sulla base dei dati MIUR per il 2006/07 si vede che, se il tasso di regolarità non migliora, in percentuale della coorte che avrà 22/23 anni nel 2009/10 i laureati saranno circa il 9%! A tasso di successo costante, la percentuale di laureati, nella medesima coorte, raggiungerà circa il 25% quando costoro avranno 30 anni, ossia nel 2017. Ricordo che con "laureati" ci si riferisce ora a persone che hanno completato il diploma triennale.

Le persone che nel 2007 si sono laureate con il vecchio ordinamento non possono legittimamente essere aggiunte al numeratore del nostro rapporto per la medesima ragione. Il "nuovo" sistema ha oramai quasi otto anni (venne adottato in modo generalizzato nel 2001/02 ed in modo sperimentale nel 2000/01), quindi chiunque ottenga oggi l'antica laurea ha almeno 26 anni. Se volessimo calcolare i 30enni laureati tale misura andrebbe bene ma, in quel caso, occorrerebbe modificare anche le percentuali degli altri paesi le quali si rifersicono, quasi invariabilmente, a gruppi di età inferiore ai 25 anni.

Poiché qualcuno sosterrà che la mia scelta è arbitraria, anche se a me sembra ovvia, provo a spiegarla meglio. Il valore sociale del titolo di studio non deriva dal fatto simbolico di averlo ottenuto "prima o poi" ma dal possedere le conoscenze in questione durante gli anni in cui si lavora. Chi completa tali studi a 30 o a 35 anni ha passato una fetta sostanziale della propria vita lavorativa senza di esse, quindi è improprio porlo al numeratore di un rapporto che, al denominatore, ha il totale dei venticinquenni. Inoltre, come tutti sappiamo per esperienza diretta, una percentuale sostanziale di questi laureati è costituita da dipendenti pubblici o assimiliati che perseguono l'ottenimento della laurea solo per il suo valore legale, ossia perché permette progressioni automatiche di carriera. Considerare queste persone come "laureate" costituisce, dal punto di vista economico, una scelta insensata: essi indicano solo che l'università è un esamificio che dispensa titoli con valore legale, invece di essere un luogo di accumulazione di capitale umano socialmente utile. Una riprova dell'esistenza di questi "laureandi finti" si ha osservando la distribuzione per età degli iscritti al primo anno, 39mila dei quali avevano (nel 2007) più di 30 anni mentre 130mila erano compresi fra i 23 ed i 30 anni.

Questa osservazione si applica anche alla metodologia che l'ISTAT utilizza in varie sue pubblicazioni dove il tasso di iscrizione universitaria è calcolato dividendo il TOTALE degli iscritti a tutti i programmi (inclusi i fuori corso e gli iscritti ai corsi biennali di specializzazione) per la popolazione residente di età compresa fra i 19 ed i 25 anni. Questa metodologia produce un risultato pari al 41,4% per l'anno accademico 2006/07, un numero completamente "falso" per le ragioni appena argomentate.

Rimane vera l'osservazione fatta da AFT: ciò che in Italia sembra essere cambiato, negli ultimi trent'anni, è la propensione a frequentare e completare, la scuola media superiore. In percentuale dei diplomati gli iscritti all'università rimangono attorno al 70-72%, però è aumentato di molto la percentuale di diplomati sul totale della coorte (le tabelle le trovate qui, riportate da Alberto Lusiani).

Sia la discussione svolta a seguito del precedente post che i nuovi dati messi a disposizione e qui considerati confermano, però, che questa maggiore frazione d'iscritti iniziali non si trasforma (nonostante il diploma triennale sia cosa ben più semplice dell'antica laurea) in un aumento sostanziale dei laureati. L'aumento c'è, ma è ancora molto debole specialmente se confrontato a ciò che è avvenuto negli altri paesi avanzati. In sostanza, l'università italiana attira una percentuale molto maggiore di giovani che nel passato ma costoro, dopo il primo o secondo anno, abbandonano o comunque diluiscono gli studi lungo un arco di tempo che li rende, praticamente, inutile o quasi dal punto di vista professionale.

Morale: tralasciando l'ovvia polemica sul comportamento irresponsabile dei funzionari del MIUR che rendono pubbliche base dati incomplete senza fornire informazioni al riguardo, la sostanza dell'analisi non è rincuorante. L'università italiana, riforme cosmetico-burocratiche e trucchi statistici a parte, rimane altamente inefficiente (rispetto a quelle degli altri paesi) anche solo a produrre laureati. Piaccia o non piaccia, questo dicono i dati.

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Commenti

Ci sono 50 commenti

Michele, spero che non te la prenderai per la critica (per quanto io cerchi di documentarla) dell'ennesimo anonimo :)

(BTW, se necessario sono pronto a comunicarvi tutti i dati personali che volete - ma il mio nick mi identifica praticamente da sempre, ci terrei a esprimermi in pubblico con questo)

 Il sito incriminato "Anagrafe Nazionale Studenti", anche se apparentemente racconta balle sui valori assoluti, credo possa essere considerato un campione non distorto per quanto riguarda la composizione per gruppi di età

Quanto grassettato mi sembra arbitrario non per il motivo che spieghi poi, ma perche' dalla stessa fonte che consideri "contaballe" tu usi i dati della composizione per eta' come fossero veri. I laureati son sempre pochi, su quello non si discute, ma o una fonte e' buona o non lo e', e in tal caso o si applicano correttivi a tutti i dati o si ignora la fonte. Giusto?

Il valore sociale del titolo di studio non deriva dal fatto simbolico di averlo ottenuto "prima o poi" ma dal possedere le conoscenze in questione durante gli anni in cui si lavora

Quello che dici non vale in Italia, mi pare che se ne sia discusso abbondantemente altrove su nfA: il pezzo di carta permette piu' carriera indipendentemente da dove l'hai preso e come. Proprio per questo, secondo me (ed altri qui, se non vado errato) gli studenti possono continuare a studiare 10 anni oltre i 3, o comprarsi una laurea in qualche istituto poco serio - invece di mollare. Con questa visione delle cose - mi laureo lo stesso tanto anche a 40 anni un paio di scatti di carriera li posso fare - il laureato a 30/35 anni ha senso.

Questo vale per il pubblico o per aziende private abbastanza grandi da assomigliargli, almeno secondo la mia esperienza. E sarebbe anche il motivo per cui secondo me andrebbe eliminato il valore legale del titolo di studio...

E anche socialmente parlando, ci sono fasce di popolazione per cui la laurea e' un must - con il pezzo di carta sei "l'avvocato" o "l'ingegnere" altrimenti sei X, indipendentemente da quello che puoi fare con o senza il pezzo di carta.

Del resto, visto il poco supporto fornito a chi studia mentre lavora, i tempi si allungano "naturalmente". Con "supporto" ad es. intendo poca burocrazia, una maggiore disponibilita' dei docenti a rispondere via email / forum / ecc. Dipende da universita' ad universita', ma in generale la cosa e' scadente. 

 

Come sempre, just my 2 cents

 

 

Quanto grassettato mi sembra arbitrario non per il motivo che spieghi poi, ma perché dalla stessa fonte che consideri "contaballe" tu usi i dati della composizione per età come fossero veri. I laureati son sempre pochi, su quello non si discute, ma o una fonte è buona o non lo è, e in tal caso o si applicano correttivi a tutti i dati o si ignora la fonte. Giusto?

 

No, non necessariamente giusto e, probabilmente, sbagliato. Per questa ragione: la fonte è "contaballe" perché, mi e ci è stato spiegato, è parziale nel seguente senso: svariate università non hanno risposto mandando i loro dati. Insomma, copre un un 80%, forse più, del totale delle università italiane, ma manca un 20% e quindi i VALORI ASSOLUTI TOTALI sono piccoli. PERO', e qui sta il punto, perché mai dovremmo aspettarci che da un lato ci siano università (non facoltà, okkio) in cui gli studenti si laureano sistematicamente e sempre molto prima delle altre e che, dall'altro, queste siano esattamente le università che non hanno riportato i dati?

In sostanza, non c'è ragione di pensare che le università che hanno risposto siano un campione così distorto rispetto all'eta di laurea da essere inaffidabile. Nota che, siccome sono un campione enorme rispetto alla popolazione, perché la distribuzione per età vera (nella popolazione) cambi bisognerebbe che in quel 20% o meno che non ha riportato si laureassero tutti come fulmini, altamente improbabile direi. Spero sia chiara la logica. Grazie

Io penso che questo lavoro sia utilissimo, con tutti i limiti che ha a causa dell'imprecisione della base di dati di partenza. Siamo messi davvero malissimo in quanto a rapporto laureati/iscritti.

Come "future work" propongo (perché io non ne avrei ne il tempo ne i mezzi): separare questo numero almeno per facoltà. A occhio (dalla mia esperienza personale almeno) dovrebbe essere vero che in certe facoltà il rapporto si alzi notevolmente, mentre in altre si abbassi ancora di più. Sempre per mia esperienza personale, un grandissimo numero di studenti si iscrivono ma non frequentano e non hanno molta volgia di studiare. Essendo le tasse molto basse, il paparino continua a pagare l'iscrizione, e i figliocci si dedicano ad altro. Sempre ad occhio, mi sento di dire che facoltà scientifiche dovrebbero esibire un indice più alto, ma naturalmente potrei essere clamorosamente smentito.

Un tale studio avrebbe senso perché altrimenti, con un semplice dato aggregato come quello riportato i nquesto articolo, è difficile individuare le cause e quindi dove intervenire per risolvere il problema.

(la butto lì: potrebbe essere una tesina di statistica?)

 

[... eccetera ...] ...(la butto lì: potrebbe essere una tesina di statistica?)

 

Certo, potrebbe esserlo. Di fatto il famoso sito "incompleto" ha, o quasi ha, i dati necessari per fare l'analisi per tipo di indirizzo, facoltà, universita, regione, età ... Se qualcuno ha un volontario pieno di entusiasmo, si può fare.

Purtroppo il rapporto 2008 del cnvsu, presentato alla stampa giovedì scorso, non è ancora disponibile nel sito del cnvsu. Dovrebbe esserlo nei prossimi giorni. Mi sento un po' colpevole perché dispongo ormai di una bozza quasi definitiva. Ne raccomando comunque la lettura, appena sarà uscito. Sono sostanzialmente d'accordo con Michele: c'è una fortissima domanda sociale di istruzione superiore cui l'università italiana non sa o non vuole rispondere. Anzi la maggioranza dei professori non ritiene nemmeno che sia compito dell'università rispondervi. Al massimo possono pensare che altre istituzioni (o università di "serie B" o "serie C" cui non appartiene certamente la loro) debbano farsi carico del problema. Il problema viene del pari ignorato dal governo e dai politici in generale. Io invece penso che questo sia il problema piu' importante per l'università italiana.

Well, sembra che a volte sia vero che "rational people cannot disagree forever"! :-)

Non so se è IL problema più importante ma certo che è uno dei due o tre più importanti (assieme al reclutamento per la ricerca/insegnamento ed ai metodi di finanziamento).

Si tratta ora di farlo capire sia al governo che all'opinione pubblica che OCCORRE ed è BENE avere università di livello A, B, C ... e che non c'è NIENTE di male ad avere posti dove si insegna molto bene e basta, facendo attenzione agli studenti (che magari non sono dei geni che vogliono fare ricerca ma sì che vogliono apprendere un lavoro) e cercando di produrre capitale umano produttivo in tempi ragionevoli e con costi/benefici sociali ragionevoli.

Insistiamo, dunque.

Mi sembra di capire che abbia cambiato idea, allora. Perchè tempo fa si lamentava che erano troppi gli iscritti e laureati in materie scientifiche, in particolare ingegneria.

Purtroppo il rapporto 2008 del cnvsu, presentato alla stampa giovedì scorso, non è ancora disponibile nel sito del cnvsu.

Sì, lo è, a questo URL.

Avrei parecchio da dire ma mi astengo... per ora

RR

 

Sia la discussione svolta a seguito del precedente post che i nuovi dati messi a disposizione e qui considerati confermano, però, che questa maggiore frazione d'iscritti iniziali non si trasforma (nonostante il diploma triennale sia cosa ben più semplice dell'antica laurea) in un aumento sostanziale dei laureat.

 

Sul fatto che sia ben più semplice ho qualche dubbio perchè:

  • la durata dei corsi si è già attestata a 4,6 anni ( + 50% della durata nominale)
  • anche se si chiama laurea, l'equivalente ai fini dell'accesso alle professioni ed alla PA è la laurea specialistica (o magistrale)

Quindi, a parità di percorso, e tenendo conto che, anche se non ci sono i dati possiamo supporre che il ritardo sia lineare, per completare la laurea specialistica ci vorranno in media 2,5/3 anni reali.

 

A conti fatti ci si laureerà, in media, dopo 7 anni abbondanti. Per talune facoltà (come ingegneria) è probabile che la media sia leggermente maggiore (5 anni per la Laurea e 3 per la specialistica, stimo 8 anni) come sembrano confermare le statistiche ancora parziali di Almalaurea. Con queste durate, non mi pare di dire che i corsi siano TANTO più facili degli ordinamenti precedenti.

 

 

Non conosco dati internazionali che indichino 8 anni o più per un MS in ingegneria. Ma assicuro, almeno per la mia esperienza nelle Università del Nord Est in Ingegneria (Padova e Trento) che i ragazzi frequentato e studiano parecchio.

 

La mia esperienza diretta da studente e' che nella mia universita' (Politecnico di Milano) una percentuale del tempo extra richiesto per laurearsi e' dovuto all'elevato numero di esami che compongono il percorso di laurea (soprattutto nel corso di Laurea Specialistica).

Quando in una sessione d'esame si arriva a dover sostenere 6 appelli d'esame concentrati in due settimane al massimo (oltre ad uno o piu' progetti pratici durante il semestre) una buona quota di studenti non riesce a tenere il ritmo.

Probabilmente mi illudo ancora sul fatto che l'universita' dovrebbe valutare la preparazione di uno studente e non essere una corsa al tempo ed agli ostacoli per riuscire a preparare tutto entro l'unica data concessa per l'appello.

Personalmente credo che dovrebbero essere implementate alcune regole viste in altri paesi europei:

- se lo studente fallisce (o non si presenta) per piu' di x volte un appello d'esame la tassa d'iscrizione all'anno accademico aumenta considerevolmente.

- gli appelli d'esame non sono uno ogni tre mesi ma uno ogni due settimane (eventualmente a richiesta) in modo da non consentire scusanti del tipo "eh ma stavo male" "eh ma gli esami sono troppo vicini".

In questo modo credo che una buona quota degli studenti fuoricorso si possa tagliare...

 

La mia esperienza diretta da studente e' che nella mia universita' (Politecnico di Milano) una percentuale del tempo extra richiesto per laurearsi e' dovuto all'elevato numero di esami che compongono il percorso di laurea

 

Sono sicuro che troppi esami separati siano un problema, e insinuo che la moltiplicazione dei corsi avvenuta con la riforma del 3+2 abbia poco a che fare con la didattica e molto con la creazione di nuovi posti di professore universitario. Tuttavia, anche se i dati sono non banali da esaminare, io valuto che per esempio a Fisica la difficolta' quando c'erano 18 esami era maggiore o uguale di ora che gli esami sono molti di piu'. E non mi risulta in generale alcun maggiore tasso di insuccesso o durata della frequenza come conseguenza della moltiplicazione degli esami.

 

- se lo studente fallisce (o non si presenta) per piu' di x volte un appello d'esame la tassa d'iscrizione all'anno accademico aumenta considerevolmente.

 

Concordo sull'idea generale ma introdurrei un sistema piu' graduato di incentivi e disincentivi per premiare chi ottiene buoni voti e in tempi regolari e progressivamente aumentare i corsi per chi rimane fuori corso.  Peraltro, le tasse per i fuori-corso sono effettivamente aumentate nel corso degli ultimi lustri, ma questo provvedimento non e' stato decisivo, anche perche' l'aumento in molti Atenei e' stato probabilmente insufficiente. Va ricordato che almeno per i fuori sede il costo delle tasse e' una componente minore del costo totale sostenuto dalla famiglia per l'universita'.

 

- gli appelli d'esame non sono uno ogni tre mesi ma uno ogni due settimane (eventualmente a richiesta) in modo da non consentire scusanti del tipo "eh ma stavo male" "eh ma gli esami sono troppo vicini".

 

Qui non sono d'accordo.  Il sistema italiano e' abnorme proprio perche' consente di ripetere troppe volte e troppo frequentemente gli esami.  La situazione prevalente all'estero e' che la grande maggioranza degli allievi fanno (e/o sono obbligati a fare) uno o al piu' due esami per corso.  Secondo me gli interventi da attuare dovrebbero includere:

  • maggiore attenzione degli Atenei per gli studenti: deve essere piu' chiaro quanto e' necessario conoscere per ogni esame, i docenti devono fare uno sforzo di fare lezioni ed esami alla portata di un ragionevole studente medio (eliminando ovviamente dalla media chi ottiene diplomi liceali regalati a fronte di una preparazione molto scadente). Ci dovrebbero essere degli esercizi di autovalutazione
  • deve essere sottolineato che l'universita' non e' un gioco per divertirsi ma un costo significativo per la societa' giustificato solo per gli studenti che intendono impegnarsi seriamente. se non e' possibile convincere la massa a parole, bisognera' addossare sempre piu' a tutti i costi totali, dispensando solo chi prende buoni voti nei tempi previsti

 

 

 

La mia esperienza diretta da studente e' che nella mia universita' (Politecnico di Milano) una percentuale del tempo extra richiesto per laurearsi e' dovuto all'elevato numero di esami che compongono il percorso di laurea (soprattutto nel corso di Laurea Specialistica).

Quando in una sessione d'esame si arriva a dover sostenere 6 appelli d'esame concentrati in due settimane al massimo (oltre ad uno o piu' progetti pratici durante il semestre) una buona quota di studenti non riesce a tenere il ritmo.

Io penso che vi sia una relazione maledetta tra l'abnorme numero di docenti universitari italiani e l'abnorme numero di crediti che viene ripartito, peraltro, con metodi a metà fra Kafka e Alberto Sordi. In soldoni, visto che di crediti parliamo, penso che la torta dei crediti complessivi conseguibili in un anno, e la relativa suddivisione fra docenti, non sia altro che un espressione del feudalesimo accademico, in cui a tutti sono ripartiti porzioni del posto al sole in ragione dei crediti di bel altra natura maturati nel sistema di potere universitario...perchè altrimenti tutti si lamentano della farraginosità del sistema dei crediti e poi, al dunque, il loro numero impazzisce?

 

Inoltre, come tutti sappiamo per esperienza diretta, una percentuale sostanziale di questi laureati è costituita da dipendenti pubblici o assimiliati che perseguono l'ottenimento della laurea solo per il suo valore legale, ossia perché permette progressioni automatiche di carriera. Considerare queste persone come "laureate" costituisce, dal punto di vista economico, una scelta insensata: essi indicano solo che l'università è un esamificio che dispensa titoli con valore legale, invece di essere un luogo di accumulazione di capitale umano socialmente utile.

Ora, non vorrei aprire in questo commento una discussione sul "valore legale" (che è qualcosa che non esiste), ma commentare sulla sostanza dei concetti espressi nei periodi citati. Il valore dell'apprendimentolungo l'arco della vita (Lifelong Learning) e del riconoscimento dell'apprendimento esperienziale (Recognition of Prior Experiential Learning) sono dati di fatto politici, cioè acquisiti all'interno delle politiche nazionali e internazionali, intendo dire.

Altra cosa sarà la realizzazione concreta di queste politiche, cioè le procedure, la qualità delle valutazioni messe in campo per dare attuazione al riconoscimento e/o accreditamento accademico. Anch'io sono fra coloro che chiede interventi di correzione, e in sostanza di cautela; ma non per buttare via tutto bensì per sistemare, ordinare - beninteso una sistemazione che deve essere radicale (c'è poco da "riformare", si deve fare tabula rasa).

RR 

Encomiabili economisti che vi date all'analisi e al commento di cose universitarie, ho per voi una notizia di sicuro gradimento, che potrà alimentare interesse e dibattiti futuri. Dopo un po' di incubazione e di ginnastica politica, si è dato il via libera ad un feasibility study per un programma di valutazione degli esiti formativi dell'istruzione universitaria - detto anche, per capirci meglio, il "PISA for higher education" (ma non va assolutamente usata questa dizione, per non impaurire le masse e le istituzioni coinvolte - non dite che ve l'ho detto io).

Il programma in questione l'AHELO dell'OCSE (Programme for International Assessment of Higher Education Learning Outcomes), è stato da poco lanciato, e nei prossimi 2 anni dovrà condurre a risultati concreti circa la reale consistenza e solidità di questa nuova impresa. Si valuteranno sia le competenze generiche, anche dette trasversali, ma anche quelle subject-specific, in due discipline pilota, l'ingegneria e l'economia.

Insomma, avete capito bene, fra un po' andranno a fare i test e i questionari (di vario tipo, e certamente complessi, evidentemente) ai 22-enni laureati dei due campi in questione, in giro per il mondo. Ora, la cosa più incredibile - e non riuscivo a crederci quando l'ho saputo un mese fa - è che fra i 10-12 paesi che volontariamente hanno deciso di aderire a questo studio di fattibilità, c'è anche l'Italia !!!  Sì sì avete capito bene - e mi hanno detto dall'OCSE che questo miracolo è dovuto ad un incontro a luglio fra la Gelmini e il Direttore del Dipartimento dell'OCSE in questione. Ora vedremo come evolve la cosa, ma intanto voi avete queste notizie (che ovviamente la stampa, impagnata in ben altre opere di disinformazione, non sa) e ci potete dare un occhio.

RR

 

certe volte sembra che siano anche troppi.

Mi spiego: dalla mia esperienza deduco che solo una piccola parte dei laureati ha la possibilita' di lavorare nel settore e nel ruolo per il quale la laurea e soprattutto le conoscenze acquisite sono realmente necessarie. Vale a dire che in Italia la qualita' media dell'offerta di lavoro e' piuttosto bassa (trovare un ingegnere che faccia il progettista e' un'eccezione; tutti nel pre-sales, nell'assistenza o genericamente nell'area gestionale).

Saluti.

 

Ho letto tutti i commenti,ho desunto di essere stato un fulmine nel conseguire due lauree
all'eta di 26 anni tanto da doverlo documentare poiche' nessuno mi crede. Sono nato il 10/02/82
iscritto alla Sapienza di Roma V.O. nell'anno accademico 2000/2001 matricola n. 861260 e laureato
il 21/04/2006 (anno accademico 2004/2005) e successivamente iscritto a Bologna (laurea triennale) presso la
facoltà di Economia e Finanza in data 05/10/2006, matricola n. 285186 laureato il 06/11/2008.
Nel frattempo ho condotto studi in Inghilterra per 6 mesi ed a Mosca per 2 mesi. Ho trovato anche il tempo di
lavorare per l'agenzia di informazioni finanziaria MF-Dow Jones di Milano e presso uno studio di consulenza finanziaria.


Colgo l'occasione per ribadire la mia totale delusione rispetto al sistema universitario italiano (come si può leggere, parlo con
cognizione di causa) e per sottolineare anche un altro fattore fin qui tralasciato, cioè che le università italiane non agevolano, nè
tantomeno mettono in condizione lo studente, seppur meritevole, di consguire la laurea in tempo utile. Mi spiego meglio: dopo aver
ultimato tutti gli esami nel corso della mia prima carriera universitaria, mi sono imbattuto in molti ostacoli posti dai professori
per poter ultimare la tesi di laurea: tutti i professori sostenevano che NECESSARIAMENTE per poter scrivere una tesi di laurea il tempo
MINIMO E' DI 1 ANNO anche se tutti gli esami sono già stati sostenuti, sia che ci si dedichi anima e corpo sia che la si prenda alla leggera.
Per superare questo INSORMONTABILE OSTACOLO e fare in modo di saltare solo 1 sessione di laurea (ci sono 3 sessioni di laurea in un anno
accademico) ho dovuto litigare con la mia relatrice, con tanto di insulti (che mi ha rivolto) e con tanto di sua unica frase rivoltami
subito dopo la laurea: "avrei voluto toglierle dei punti, ma la commissione ha deciso di mettergliene 3 (su 5)".

Dario Tomasello

Segnalo questoarticolo sul tema: come pare di osservare, o gli studenti tutti fannulloni imbranati o, forse, l'università continua a non essere poi così facile, come fa comodo credere a molti.

Moreno, alcuni commenti.

1) L'articolo in questione riassume alcuni dei risultati dello studio che anche io ho utilizzato nello stilare questo post riassuntivo della nostra discussione. Nulla di nuovo sotto il sole, insomma ... abbiamo solo 'scooped' La Repubblica di alcune settimane, che per noi è normale (e non solo con La Repubblica ...) :-)

2) La questione non è da porsi nella forma "programmi (troppo) difficili" versus "studenti fannulloni": sia "difficile" che "fannullone" sono aggettivi endogeni, oltre che relativi. Difficile rispetto a che cosa e per chi? Fannullone rispetto a quali standard di impegno e per che cosa? Gli studenti vanno motivati a lavorare ed uno degli strumenti attraverso cui si motiva è la bocciatura, ma è uno degli strumenti. Poi occorre anche saper insegnare ed insegnare cose utili. D'altro lato, le cose vanno rese tanto difficili quanto necessario perché l'ottenimento del titolo di studio segnali anche l'acquisizione di un'adeguata capacità professionale, niente di meno e niente di più. I programmi di molte facoltà italiane, oggi, certamente non soddisfano questo criterio ma il fatto che insegnino "cretinate" non implica che si insegnino "cretinate facili". Le cretinate possono essere, spesso sono, alquanto astruse, specialmente quando insegnate da incompetenti.

3) Il problema andrebbe approfondito (e credo che sia i dati del rapporto che quelli che si vanno raccogliendo nel famoso data base incompleto che anche io ho utilizzato) studiando le performances di università diverse, diverse facoltà, regioni, aree di insegnamento. Son certo che si scoprirebbero patterns interessanti.

4) In ogni caso, il fatto che l'Italia continui, riforme burocratiche notwithstanding, ad avere un sistema universitario che non laurea i suoi studenti in tempo utile, ne laurea pochissimi e, come dimostrano i tests ed i risultati ex-post sul mondo del lavoro, ne laurea molti che sanno poco o nulla, è UN FATTO. È questo fatto che dimostra, alla faccia di tutti i distinguo, i trucchi formalistici, le alzate di scudi in difesa dell'onorabilità della classe docente italica, che l'università italiana è uno sfascio. Occorre partire da questo semplicissimo ed incontrovertibile FATTO.

 

Ahimé, l'università italiana non solo è facile, ma sta diventando anche una perdita di tempo.

Mi sono laureato il 16 Ottobre nei tre anni e dopo 4 mesi di stage e un anno di erasmus. Mio padre, che non ha nemmeno la licenza media, è rimasto sbigottito dal livello demenziale non solo delle discussioni delle tesi triennali, ma anche di quelle specialistiche. Per intenderci, so che l'università che ho fatto non è delle migliori nel campo economico, ma stiamo parlando sempre della Federico II, che è un punto di riferimento per molti studenti Campani e del sud.

Poi, ho letto l'introduzione del documento che ha postato Talamanca. Non è proprio un caso che siano i matematici a porsi questo tipo di problema, cioè quello di rendere i corsi di matematica utili. Ad oggi nella mia facoltà di economia, escluse le classi statistiche, la matematica è considerata l'anticristo e i logaritmi una specie di divinità del male, non si può andare avanti così, con i professori di politica economica che devono ripetere ogni volta la lezioncina sulle derivate (per chiarirci, io me la cavo grazie al liceo, vedi tu).

C'è un chiaro fraintendimento della parola "facile" e ti spiego perché:

1)Da un certo punto di vista le università italiane non sono facili perché i professori pensano bene di riempire ogni esame di almeno un seicento (in media) pagine di nozioni. Imparare tanto, se consideri che per stare in regola bisogna studiare 3-5 esami insieme, significa fare qualcosa di molto snervante e complesso.

2)Da un altro punto di vista per imparare tanto, e i professori ne sono consapevoli, non si può capire tutto. Quindi, si delegano molti concetti all'ipse dixit e buona notte. Quindi, da quest'ottica qui, le università italiane sono fin troppo facili.

3)In Spagna (ho studiato a Madrid e ho fatto 12 esami...) gli esami sono più facili che in Italia (mediamente 3 o 4 volte in meno di pagine), ma paradossalmente molto più utili. Prendono molto più sul serio la matematica (difatti la mia preparazione in statistica descrittiva e matematica finanziaria è risultata migliore di quella impartita alla Federico II) e vanno dritto al sodo (il professore di commercio internazionale parlava anche del suo lavoro di consulente e ha dato molti consigli utili, io ora sto iniziando a lavorare nel settore logistico-relazioni internazionali), senza seghe mentali.

 

Insomma, io renderei gli esami più facili nel senso di meno nozioni e inserirei più cose in cui si usa la zucca e in cui si imparano tecniche utili per il mondo del lavoro.

Ieri Libero dava conto delle nuove statistiche CNSVU

intranews.sns.it/intranews/20090311/SIQ3144.PDF

 

A me questi numeri non tornano molto (anche al di la' delle approssimazioni numeriche tendenziose).

Voi, che ormai siete esperti del campo, che ne dite? Sono numeri plausibili?

Saluti,

Carlo Carminati

Riferisce di calcoli fatti dal Sen. Valditara usando dati che comunque c'erano già. Qui si trova il suo dossier. En passant, Valditara ha anche depositato/proposto il 18 febbraio un ddl sulla governance universitaria il cui testo si trova qui.

RR

Ho scorso l'articolo velocemente. I dati non sono implausibili. I dati interessanti sono quelli sui fuori-corso, sull'attivita' degli studenti, sulla frazione di spesa per personale tecnico-amministrativo, notoriamente elevata in maniera sospetta nella maggioranza degli Atenei meridionali. I dati sui corsi di laurea con pochi studenti sono difficili da interpretare, e a parte qualche polemica non portano da nessuna parte. I dati sulla spesa per missioni potrebbero indicare abusi e malversazioni in qualche sede fuori media, ma dovrebbero essere analizzati e compresi meglio.

 

Grazie a Renzino ed Alberto per le fonti ed i pareri.

In realtà il dato che mi insospettiva era quello "sparato" nel titolo di Libero.

Mi spiego.

La percentuale di crediti CFU acquisiti in un anno sarebbe, secondo l'articolo, 26,2:60=0,436. A parte l'approssimazione  0,436 = 0,333 implicita nel titolo, il dato 26,2:60=0,436 e' ben peggiore del coefficiente 0,483 fornito dal Perotti per calcolare gli studenti equivalenti (coefficiente che mi sembrava ricavato nello stesso modo - o sbaglio?).

Per altri versi l'articolo sembra piu' prudente: per esempio non
ripete il grossolano errore di G.A. Stella
http://ricercatoriprecari.wordpress.com/2008/12/17/la-leggenda-dello-studente-unico/

A presto,

c.c.

PS: ooops... mi sa che i dati che Libero presenta come un'anteprima sensazionale son sempre i soliti. Ma la domanda regge: il coefficiente 0,436 è quello che per il Perotti era 0,483?