L’insostenibile pesantezza dell’euro?

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Tra i vantaggi che accompagnerebbero un'uscita dall’euro c’è la possibilità di svalutare il cambio nominale per guadagnare competitività nei confronti degli altri paesi dell'area. C’è tuttavia molta confusione, soprattutto nel dibattito giornalistico e televisivo, su  quali sarebbero i benefici ed i costi che un ritorno al cambio flessibile comporterebbe per la nostra competitività, nel breve e nel lungo periodo. Le valutazioni spaziano da chi crede che ciò fornirebbe un po’ di ossigeno a un’economia in recessione, a chi sostiene che ciò riporterebbe il nostro paese su un sentiero di crescita duraturo, dal quale ci saremmo allontanati proprio con l’adozione dell’euro. In questa breve nota discutiamo questo punto, astraendo da qualunque altro fattore che potrebbe accompagnarsi a un’uscita dall’euro (crisi bancarie, fughe di capitali, ritorsioni commerciali da parte degli altri paesi dell'area, ecc.) e confrontiamo due scenari, uno con l’euro e uno con la lira a cambio flessibile, a parità di tutte le altre condizioni.

NdR: Riprendiamo volentieri l'editoriale di Francesco Lippi e Fabiano Schivardi  pubblicato su La Voce  dell' 11 Aprile  2014. Alcune brevi  precisazioni sono state aggiunte in questa versione.

Gli effetti delle svalutazioni nel breve periodo 

La competitività di un paese è solitamente misurata dal tasso di cambio reale, definito come il cambio nominale fra due valute moltiplicato per il rapporto fra i prezzi: se e è il tasso di cambio nominale (euro per 1 dollaro), p* i prezzi del paese estero (in dollari) e p  i prezzi interni (in euro), il tasso di cambio reale è r = e p* / p.  Un aumento del cambio reale significa che i beni esteri diventano più costosi di quelli domestici: se ci vogliono più euro per comprare un dollaro,  il prezzo in euro di un'automobile prodotta negli Stati Uniti sale. Di conseguenza, la  “competitività” del paese migliora, perché i beni stranieri diventano piu'  cari per chi compra in euro. E'  evidente che la svalutazione del cambio reale può avvenire o tramite la svalutazione del cambio nominale  e  o con una variazione dei prezzi relativi p* / p  per dato cambio nominale (o una qualche combinazione dei due).

Com'e' cambiata la competitività dell’Italia dalla fine degli anni novanta?  Secondo uno studio di Giordano e Zollino della Banca d’Italia, riassunto su vox, dipende dal tipo di indicatore che si utilizza. Sulla base di indicatori di prezzi alla produzione, la nostra competitività è rimasta stabile, mentre è peggiorata in termini di costo del lavoro. C’è da stare tranquilli? No, perché nel frattempo quella della Germania, il nostro partner commerciale principale, è sensibilmente migliorata, aprendo un divario fra la nostra competitività e quella tedesca fra il 10 e il 40%, a seconda dell’indicatore utilizzato (gli autori ritengono che la cifra rilevante sia quella più bassa).  Recuperare competitività attraverso una riduzione dei prezzi interni rispetto a quelli esteri non è una passeggiata, soprattutto quando l'inflazione è  bassa, perché una ulteriore riduzione dei prezzi interni può richiedere un processo lento e costoso in termini di disoccupazione, o una crescita forte della produttività, che in Italia langue da due decenni.  Ci sono quindi pochi dubbi sul fatto che una svalutazione sarebbe lo strumento più semplice per riequilibrare il cambio reale e riacquistare competitività.  Ma quali benefici potremmo aspettarci in termini di maggiore crescita e, soprattutto, quanto sarebbero duraturi? Due lavori recenti studiano l’effetto di una svalutazione del cambio sul tasso di crescita del PIL guardando alle esperienze passate.[1] Le analisi suggeriscono un’elasticità che varia fra l’1 e il 3%: una svalutazione del 30% del cambio nominale farebbe crescere il PIL fra lo 0,3 e l’1%.  Le analisi indicano inoltre  che  questa elasticità è maggiore  per i paesi in via di sviluppo, mentre per i paesi sviluppati le stime si situano nella parte bassa del ventaglio delle stime. La minore elasticita' per i paesi ricchi e' riconducibile  alle caratteristiche dei beni da essi prodotti:  la domanda dei beni di alta gamma,  con marchi rinoscibili  o qualita' difficilmente  reperibile in  beni sostituti, e' meno soggetta alle fluttuazioni del prezzo di vendita. Se voglio una Porsche o un iPhone la mia domanda e' rigida: e'  difficile sostituire quel bene con un sostituto, anche se costa di meno, perche' di  Porsche  ce n'e' una sola.  Molto piu facile sostituire una maglietta di cotone, scarpe non di marca, automobili di bassa gamma, e via dicendo.  L’esperienza della svalutazione italiana del 1992 è coerente con questi risultati:  il tasso di cambio reale della lira si svalutò sino ad un massimo del 30%. Secondo le stime sopra riportate l'effetto di questa svalutazione avrebbe contribuito ad aumentare la crescita del PIL tra lo 0,3 e l'1 per cento. Svalutare darebbe senz'altro un po’ di sollievo alla nostra  economia in recessione, ma non ci farebbe crescere come 30 anni fa.   

Il cambio flessibile favorisce la crescita in modo duraturo?

Ma un cambio flessibile permetterebbe di tornare a crescere in modo duraturo? La teoria economica dice chiaramente di no: il regime di cambio non influenza la crescita di lungo periodo. La crescita di lungo periodo, quella che rileva ai fini del tenore di vita dei cittadini, è determinata dalla capacità di aumentare la produttività dei fattori: questo significa creare un ambiente economico in cui imprenditori, professionisti e imprese che innovano e si dimostrano capaci di creare molto valore aggiunto si affermano (anziché' trasferirsi all'estero per sfuggire alle sabbie mobili della burocrazia nazionale e delle carriere politiche),  a scapito di quelle che non riescono a innovare, che devono invece uscire dal mercato.  Un paese che cresce non cresce solo grazie all'export (che nei paesi grandi costituisce una piccola parte del prodotto totale), cresce in tutti i settori.  E l’evidenza è coerente con queste conclusioni:  le differenze di crescita fra paesi con cambi fissi e variabili sono trascurabili, con qualche eccezione per i paesi in via di sviluppo[2]. Pensare  che tornare alla lira ci riporterebbe su un sentiero di crescita duraturo è illusorio: basta uno sguardo all'andamento della crescita della produttività dei fattori italiana dal dopoguerra ad oggi per rendersi conto che il declino è iniziato almeno 10 anni prima dell'adozione dell'euro. 

 Uscire dall’euro e svalutare ci permetterebbe certamente di recuperare il gap di competitività velocemente. E poi? E poi due scenari sono possibili. Il primo è che alla svalutazione segue un aumento dei prezzi interni, che in un paio d’anni ci riporta al punto di partenza. Questo scenario sarebbe verosimile se la svalutazione fosse molto grande, diciamo superiore al 50%. Ricordiamoci che la storia dell'Italia, dalla fine di  Bretton-Woods fino agli anni 90, fu proprio una storia di continui inseguimenti tra svalutazioni del cambio, e aumenti dei salari e  dei prezzi.  Forse qualcuno se lo e' dimenticato ma la lira  e' stata una valuta debole, che perdeva sistematicamente di valore. Una volta che l'Italia e' stata aperta ai movimenti di capitali, i risparmi italiani si sono potuti indirizzare verso attivita' piu sicure, e che si indebitava in lire (leggi il tesoro della repubblica)  era costretto a pagare un bel premio sugli interessi perche altrimenti i risparmiatori (italiani e esteri)  avrebbero comprato altri titoli.  Tra i grandi motivi che spinsero il paese ad adottare l'euro ci fu anche quello di dare alla politica monetaria interna quella credibilita' che non era mai riuscita a raggiungere, offrendo al tesoro enormi vantaggi economici per il  finanziamento  del proprio debito. Purtroppo, come alcuni temevano,  questi  risparmi  sulla spesa per interessi (equivalenti a quasi 5 punti percentuali di PIL)  sono andati  a finanziare maggiore spesa anziche'  a ridurre il debito  (cfr. il post di Andrea Moro).      

Il secondo scenario è che i prezzi non crescano, trasformando la svalutazione in un aumento persistente di competitività. Questo scenario sembra il piu' probabile nel caso di una svalutazione contenuta, che si limiti a correggere il livello eccessivamente alto del cambio reale (supponiamo rispetto alla Germania)  riportandolo al livello di 10 anni fa.   Ma questo secondo scenario è lo stesso che si otterrebbe con una diminuzione dei prezzi italiani rispetto a quelli tedeschi (che farebbe aumentare p*/p),  e  con questo condividerebbe una caratteristica fondamentale: costituirebbe un impoverimento relativo del nostro paese. A fronte di un aumento della competitività delle imprese si registrerebbe una diminuzione del potere d’acquisto dei lavoratori, dovuta al fatto che le importazioni diventerebbero più care. Detto diversamente, riacquistare competitività attraverso variazioni del cambio reale significa ridurre il potere d'acquisto dei salari italiani. Questo e' esattamente cio' che successe nel 1992:   i prezzi al consumo in italia non registrarono impennate,  crebbero meno di quelli all'importazione: in soldoni, molti italiani furono costretti a spostare il proprio paniere di consumo da beni esteri (es. una Volkswagen Golf, adesso piu cara) a beni italiani (es. una FIAT Ritmo, ora piu conveniente). Ad alcuni questo potra' parere un bene (i fan del protezionismo e delle Ritmo non mancano mai), ma quei consumatori evidentemente stavano meglio prima perche' la qualita del loro paneire di consumo e' peggiorata dopo la svalutazione (se avessero preferito la Ritmo alla Golf la avrebbero comprata anche prima della svalutazione).  

Se si ritiene che il destino dell’Italia sia quello di poter competere solamente con paesi a medio livello di sviluppo, come la Polonia o la Turchia, l’uscita dall’euro sarebbe il modo più veloce e meno doloroso per raggiungere quell’obiettivo. Con salari polacchi saremmo molto competitivi rispetto ai polacchi. Ma il potere d'acquisto derivante da una giornata di lavoro sarebbe inferiore a quello attuale. Se invece si ritiene di poter competere con i paesi sviluppati, allora non c’è regime di cambio che tenga: è necessario rendere il paese più competitivo attraverso cambiamenti che aumentino la produttività del lavoro. La Germania compete da 50 anni con i paesi più avanzati del mondo nonostante una valuta molto forte,  perché' produce beni di elevata qualità la cui domanda non risente della concorrenza dei paesi emergenti. Pensare di usare il cambio come scorciatoia per evitare le riforme non è solamente illusorio, è controproducente: dopo la svalutazione del 1992 le imprese italiane hanno sfruttato il temporaneo vantaggio del cambio svalutato invece di mettere in atto difficili processi di ristrutturazione.[3]  

Quale paese vogliamo?

In sintesi, la decisione sula permanenza nell'euro è legata alla visione che si ha del  paese. Se riteniamo che non sia in grado di competere con gli altri paesi avanzati, a causa di una amministrazione pubblica inefficiente che frena le innovazioni e le ristrutturazioni, delle rigidità  nel mercato del lavoro, di un mercato dei capitali incapace di sostenere la crescita delle imprese con potenzialità di crescita, di infrastrutture fatiscenti, allora uscire dall’euro è una scelta coerente. Lo ribadiamo:   ciò significherebbe allineare  il reddito degli italiani a quello dei paesi meno sviluppati. Se invece vogliamo giocare la partita nella serie A, e portare i salari italiani a livello di quelli tedeschi, non esistono scorciatoie legate al regime di cambio: si devono fare le riforme che permettano alla produttività di ricominciare a crescere, recuperando il terreno che stiamo perdendo da quasi vent’anni. 


 

[1]Virginia Di Nino, Barry Eichengreen, Massimo Sbracia “Tasso di cambio reale, commercio internazionale e crescita: Italia 1861-2011”, in L'Italia e l'economia mondiale dall'Unità a oggi, a cura di Gianni Toniolo, Marsilio;      Rodrik Dany (2008), "The Real Exchange Rate and Economic Growth," Brookings Papers on Economic Activity, Fall, pp. 365-412. 

 

 

[2]Guardando al period post-Bretton Woods per 178 economie, Rose (2011) conclude che non c’è evidenza che I paesi con cambi variabili crescano a tassi diversi da quelli dei paesi a tassi fissi (Rose, A.K. (2011). “Exchange Rate Regimes in the Modern Era: Fixed, Floating, and Flaky”. Journal of Economic Literature, Vol. 49, No. 3, pp. 652-672. Conclusioni simili sono ottenute da altri lavori, quali Eichengreen B., Andrew K  Rose (2011). “Flexing Your Muscles: Abandoning a Fixed Exchange Rate for Greater Flexibility” NBER International Seminar on Macroeconomics Vol. 8, No. 1, pp. 353-391.  Atish R. Ghosh, Anne-Marie Gulde, Jonathan D. OstryHolger C. Wolf” Does the Nominal Exchange Rate Regime Matter?” NBER Working Paper No. 5874, Issued in January 1997. L’unica eccezione è un lavoro che trova che nei paesi in via di sviluppo tassi fissi tendono ad associarsi con crescita più bassa, mentre nei paesi industrializzati non emerge nessuna differenza  (Levy-Yeyati, Eduardo, Federico Sturzenegger (2003). “To Float or to Fix: Evidence on the Impact of Exchange Rate Regimes on Growth.” The American Economic Review, Vol. 93, No. 4. pp. 1173-1193). 

 

 

[3]Bugamelli, Matteo, Fabiano Schivardi e Roberta Zizza “The euro and firm restructuring”, in “Europe and the euro”, A. Alesina  and F. Giavazzi (editors), University of Chicago Press.

 

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Commenti

Ci sono 49 commenti

"Ricordiamoci che la storia dell'Italia, da Bretton-Woods fino agli anni 90, fu proprio una storia di continui inseguimenti tra svalutazioni del cambio, ..."

All' università mi avevano insegnato che a Bretton Woods fu stabilito, tra l' altro, che le valute non dovevano né apprezzarsi né deprezzarsi, rispetto al dollaro, e che tale regime finì, di fatto, allo Smithsonian Institute (15/8/1971). Quindi almeno 26 anni di relativa pace dei cambi. Ho scoperto l' ennesima vaccata accademica rifilatami ?

La frase citata dell'articolo significava "dalla fine di Bretton Woods", come risulta anche evidente dalla nota 2, la cosa evidente è che TUTTA la svalutazione della lira nei 25 anni in questione 1971-1996 si è trasformato in un differenziale di inflazione, senza nessun effetto positivo sulla crescita.

 Nel sistema di bretton Woods i cambi erano fissi, rispetto al dollaro - la banca centrale si impegnava a vendere/acquistare valute ad una parità prefissata. I singoli paesi potevano modificare le parità svalutando (p.es. la sterlina nel 1967 - credo anche la lira ma non mi ricordo quando) o rivalutando (il marco) in caso di squilibri strutturali della bilancia dei pagamenti. Squilibri temporanei erano invece risolti con prestiti del Fondo Monetario Internazionale

 

. Se riteniamo che non sia in grado di competere con gli altri paesi avanzati, a causa di una amministrazione pubblica inefficiente che frena le innovazioni e le ristrutturazioni, delle rigidità  nel mercato del lavoro, di un mercato dei capitali incapace di sostenere la crescita delle imprese con potenzialità di crescita, di infrastrutture fatiscenti, allora uscire dall’euro è una scelta coerente. 

 

Una scelta coerente in che senso ? dato che :

 

Lo ribadiamo:   ciò significherebbe allineare  il reddito degli italiani a quello dei paesi meno sviluppati

 

Intendo dire qual è lo scopo degli anti euro? Non credo siano un movimento di masochisti o di persone con bassa autostima. Difficile che si stiano battendo per avere salari bassi  e poco potere d'acquisto. Quindi non userei la parola coerenza ma un altra...

Ho due amici no-euro svegli (entrambi, coerentemente, vivono all'estero) che ritengono non realistico lo scenario migliore, e che prima ce ne facciamo una ragione meglio e'.

Non riesco a leggere Bagnai, mena troppo il can per l'aia e mi addormento prima che arrivi al punto, ma uno dei due lo legge  e mi dice che in pratica e' anche la sua posizione. Quanto a Borghi credo la cosa non lo interessi minimamente, e si limiti a vendere un prodotto che va di moda.

Bé, forse non i teorici - che sono banalmente o ignoranti o in malafede - ma buona parte della massa popolare è invece 'decrescetista', se si pensa ad esempio ai grillini. Senza rendersi conto di quanto sarebbe duro esserlo, evidentemente, e di quanto sarebbe minata la propria libertà individuale essendo coinvolta pure quella economica. Ne fanno una questione etica, d'altronde, una questione di sobrietà, di semplicità...come se questa pur apprezzabile qualità dovesse essere imposta con la forza, invece che con la consapevolezza individuale...

Credo che la posizione degli anti-euro, argomentata in maniera più o meno esplicita, sia che l'Italia non è più in grado di competere con i paesi più sviluppati dell'UE e che quindi debba riconfigurarsi per competere con i paesi a medio sviluppo, anche abbassando i salari.

Non è una posizione necessariamente irragionevole: va da se che è meglio essere un paese sviluppato che un paese a medio sviluppo, ma non è una cosa che si possa decidere per decreto, e se sei un paese a medio sviluppo ma fai finta di essere un paese sviluppato ti fai solo del male.

Nello specifico, è abbastanza evidente che da anni ormai le previsioni di crescita di fior di politici ed economisti vengono puntualmente disattese. Gli italiani vivano al di sopra delle loro possibilità, alimentando una crescita del debito pubblico in uno schema Ponzi che non può ovviamente durare all'infinito. Prima o poi avverrà qualche forma di default, sotto forma di rinnegazione del debito, di svalutazione, o di chissà quale gioco di prestigio finanziario.

Personalmente non mi ritengo anti-euro, ma riconosco che le loro idee abbiano un senso e meritino di ottenere risposte serie, non di essere semplicemente liquidate come fuffa di "grillini-decrescisti-comunisti-senza-il-phd-in-economia".

www.bankofengland.co.uk/publications/Documents/quarterlybulletin/2014/qb14q102.pdf

riassunto elegantemente a

www.theguardian.com/commentisfree/2014/mar/18/truth-money-iou-bank-of-england-austerity

 

Non significa che l'Italia dovrebbe uscire dall'Euro (probabilmente in effetti il panico a lungo termine, e la relativa impotenza dell'Italia, renderebbe i costi piu grandi dei vantaggi), ma significa che l'intera politica monetaria della BCE dovrebbe cambiare, in senso piu "democratico".

purtroppo la maggior parte delle persone non sa cosa è il denaro. E' triste vedere molti che lavorano come asini senza sapere come funzionano le cose. Consiglio la lettura del riassunto a tutti quelli che, pensando che sia ancora tutto come nei ricordi della nonna, consigliano di pagare il debito pubblico e magari di fare qualche bella super-mega-tassazione o patrimoniale per farlo (costringendo così la gente a vendere beni reali, per ripagare cartaccia che può essere stampata a volontà in qualsiasi momento). E magari qualcuno capirebbe a cosa abbiamo rinunciato privandoci della sovranità monetaria.

Non viene trattata la questione del transitorio.

Sono convinto che se si discutesse in parlamento l'opzione di uscita innescherebbe una fuga di capitali. Sara' pure un effetto di breve periodo, ma potrebbe mangiarsi quello 0.3-1% di crescita con gli interessi.

Considerando che le riforme che permetteranno alla produttività di crescere richiederanno tempo, è ragionevole, almeno nel breve, aspettarsi una diminuzione dei salari che rappresentano  la variabile che può far aumentare la produttività?

Lo chiedo perché chi è favorevole all’uscita dall’euro spesso sostiene che il rimanere nella moneta unica porti come conseguenza quasi inevitabile  la compressione salariale, e credo che la risposta a un quesito del genere non sia affatto scontata.

 

uscire dall’euro è una scelta coerente. Lo ribadiamo:   ciò significherebbe allineare  il reddito degli italiani a quello dei paesi meno sviluppati.

 

Non prendiamoci in giro: anche restando nell'Euro il reddito degli Italiani lentamente si allineerà (anzi si sta già allineando da anni) a quello dei paesi meno sviluppati. Se dopo un ipotetico ritorno alla moneta nazionale vi fosse una svalutazione di un n%, ciò vuol dire che restando nell'Euro vi sarà un deflusso di moneta dall'Italia all'incirca di pari entità.

 

 

Se invece vogliamo giocare la partita nella serie A, e portare i salari italiani a livello di quelli tedeschi, non esistono scorciatoie legate al regime di cambio: si devono fare le riforme che permettano alla produttività di ricominciare a crescere

 

Anche qui: smettiamo di prendere in giro i lettori dando loro per assiomatico che l'Eurozona sia la "serie A" mentre altre soluzioni sarebbero qualcosa di inferiore: in Europa fuori dall'Euro ci sono paesi che ammiriamo (Islanda, Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Danimarca e Svizzera) e paesi che, sebbene più poveri di noi, stanno recuperando il gap (Polonia, Rep. Ceca, Ungheria), e che dunque temo che i nostri posteri ammireranno. Non esattamente la serie C2.


Le riforme le si possono fare sia stando nell'Euro che uscendone: di riforme istituzionali, delle pensioni, del lavoro, degli ordini professionali, di liberalizzazioni e privatizzazioni si discute in Italia da ben prima dell'adesione alla moneta unica. E non mi pare che il fatto di avere l'Euro abbia dato un'accelerata al processo riformatrice.


E ancora: se passiamo dai wishful thinking di lungo periodo alla realtà concreta, un aumento della produttività in parole povere significa una riduzione dei salari.

Per la verita' sei tu che prendi in giro: da che deduci che restare nell'euro causi deflussi di moneta? Io me ne aspetto molti di piu se usciamo.

Islanda, Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Danimarca e Svizzera hanno una credibilita' che noi ci sognamo. La Finlandia o l'Olanda possono uscire dall' euro restando credibili, noi no.

Last but not least: un aumento di produttivita' non significa assolutamente una riduzione dei salari, semmai spinge verso un loro aumento. Semmai una siduzione del costo del lavoro (come quella causata dalla svalutazione) si traduce in riduzione dei salari.

Sono d'accordo che le riforme si fanno con o senza euro.Ma di regola si vuole svalutare per evitare di farle

Mi vengono in mente due osservazioni, da non economista.

1) Come già osservato, il transitorio resta cruciale. Se mi aspetto di tornare alla lira convertirò in fretta tutto il capitale in dollari o franchi svizzeri. Questa catastrofe finanziaria, inevitabile passando da una moneta forte a una debole, si abbatterà sul sistema Italia. Ma allora, è realistico pensare a una uscita dall'Euro?

2) Dal confino di Ventotene  Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrissero un documento cruciale, noto come manifesto di Ventotene,  che identificava nel perverso concetto di stato nazionale la ragione delle guerre e dei disastri in Europa. Questa idea fondamentale, raccolta e realizzata dai grandi politici europei del dopoguerra (la guerra ha qualche volta il vantaggio di selezionare i migliori) ,  gli stati nazionali europei hanno progressivamente rinunciato pacificamente alla loro sovranità nazionale, creando un continente di pace libero da guerre. Invece di andare orgogliosi di tutto questo, i ragionieri anti-euro e i fascisti nostalgici stanno tornando alla carica. Se vinceranno, manderanno a monte la più grande conquista sociale, politica e  culturale che il genere umano abbia mai sperimentato. Torneremo ad avere tante crimee ovunque, ed un futuro di guerre e violenze per i nostri figli. Allora io dagli economisti mi aspetto non solo articoli tecnici come questo (che pure sono utili), ma anche un supporto politico, e cioè una indicazione di come fare sì che l'Euro sia una forza per l'unità dell'Europa e non una sua debolezza.

Non mi risulta che, Italia a parte, che ha costituzionalizzato certe norme di origine internazionale, alcuno stato europeo abbia rinunciato alla sua sovranità nazionale: se lei lo dicesse a un Inglese, a un Francese o a un Tedesco, la guarderebbero perplessi, diciamo. Non a caso si dice oggi che a comandare in Europa siano più Berlino e Parigi che Bruxelles.

Non è che la CEE/UE sia la causa della pace in Europa. Semmai potremmo dire che la causa è la NATO (ovvero l'occupazione militare americana). In ogni caso è più corretto dire che la CEE/UE è un effetto della pace in Europa.

Che il federalismo prevenga le guerre è tutto da dimostrare: la Jugoslavia era uno stato federale, e sappiamo come è andata a finire; la Crimea godeva di un'autonomia paragonabile a quella di uno stato federato, e anche lì abbiamo visto che la gente ha mostrato di preferire la Russia dove c'è meno libertà che in Ucraina.

Il Manifesto di Ventotene, che coi suoi riferimenti alle "forze reazionarie" pare uno scritto satirico di Guareschi, è fondamentalmente basato su di un errore concettuale: che il nazionalismo sia l'anticamera del totalitarismo e/o dell'imperialismo. Che sia un errore basta guardare quanti stati ci sono in Europa in cui è forte il sentimento nazionale e che non si sono trasformati in dittature e né in stati imperialisti. Viceversa il nazionalismo ha operato a est in chiave liberatrice rispetto a costruzioni socialiste sovranazionali (si pensi ai paesi ex-URSS e ex-Patto di Varsavia).

Rileggendo ho notato questa frase che mi era sfuggita:

 

molti italiani furono costretti a spostare il proprio paniere di consumo da beni esteri (es. una Volkswagen Golf, adesso piu cara) a beni italiani (es. una FIAT Ritmo, ora piu conveniente)

 

Non è esatto, anzi è esatto ma non dice tutto. Non trovo dati sul web ma ricordo bene diversi amici e colleghi che, fortunelli, stavano cambiando auto in quel periodo. Aumentarono in breve, e di parecchio, anche i prezzi FIAT (pur rimanendo, è vero, più conveniente). Ci fu chi parlo di cartello nel settore automobilistico, mentre l'azienda torinese si difese adducendo l'aumento dei costi, causato dai molti fornitori stranieri.

Lo stesso scenario potrebbe ripetersi, indipendentemente da quale fosse la reale causa tra le due, infatti, se in un determinato settore il gap con i produttori stranieri si  rivelasse particolarmente elevato, alcuni produttori italiani avrebbero spazio per aumentare i prezzi, perchè si troverebbero in regime di monopolio o semi monopolio che, secondo me, è quanto successe allora.

Anche se può sembrare non sto usando il modello superfisso, perchè in tempi brevi per aziende come FIAT non esiste la possibilità che possa nascere un concorrente italiano.

RISPOSTA A MARCELLO(la metto qui per mancanza di commenti residui)

Anch'io non riesco a leggere Bagnai, ma gli "anti euro" che conosco io e che lo hanno letto (almeno così dicono) sembrano immaginare che uscendo dall'euro si diventi tutti milionari (ed in effetti con la Lira lo eravamo ;-).

Posso capire certi industriali del settore turismo o interessati alle esportazioni: hanno i capitali all'estero, sfrutterebbero il vantaggio della svalutazione e pagherebbero meno i lavoratori ...e questi sarebbero pure contenti!!! Ma l'imbianchino, l'idraulico o l'operaio anti euro rimangono un mistero per me.

I tue amici dovrebbero rispondere alla tua domanda su "come gestire il transitorio". Io prevedo pianto e stridor di denti :-)

 

 

Milionari? Ma pure Trilionari :P 

Seriamente, uno degli amici e' convinto che sara' un bagno di sangue, ma dice che non si puo' ricostruire prima di aver raso tutto al suolo. Non piange granche' perche' ha gia' provveduto ad esportare l'esportabile.

L'altro sperava nel sorpresone notturno, credo di averlo convinto che e' impossibile. Anche lui comunque si e' portato avanti. 

Evitiamo battute omofobe ed inflazionate :)

 

PS: per FIAT, leggevo da qualche parte che il lavoro pesa meno del 20% nel costo di un'auto, e le materie prime non si svalutano (manco i freni Brembo per quello, che se Bombassei non ha bisogno di far sconti a BMW non vedo perche' dovrebbe farli a FIAT)

In effetti non capisco perché l'alzamento dei prezzi avverrebbe solo con svalutazione superiore a 50. Che poi sarebbe conseguenza della condizione pseudo protezionistica e monopolistica dell'economia, ma anche della politica monetaria e il sostenimento del debito...giusto?

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/16/uscire-dalleuro-non-vuol-dire-per-forza-piu-inflazione/953959/

 

 

In altre parole è possibile uscire dall’euro, a condizione di creare i presupposti per un ritorno alla lira come moneta forte, cosa che si è già verificata più volte nel corso della storia economica italiana e quindi non impossibile. Per fare questo tuttavia sono necessarie almeno due condizioni:

1. L’azione decisa e continua dei governi verso il risanamento, la riduzione degli sprechi e il sostegno agli investimenti: e questo – come si intende facilmente – è il passo più difficile, perché veramente non potrebbe essere una sola operazione di facciata, di quelle che si vedono in questi giorni, ma dovrebbe incidere chirurgicamente nell’arco di un periodo prolungato su molte situazioni inefficienti e di privilegio del mercato italiano. Lacrime e sangue, soprattutto per chi non hai mai pianto fino ad oggi, ma migliori condizioni per i ceti medi-bassi;

2. Un’eventuale rivalutazione della lira (nuova) nei confronti dell’euro, che riassegni all’economia italiana una posizione più consona, apprezzando la lira (nuova) nei confronti dell’euro rispetto al cambio originario lira (vecchia) euro (almeno + 20%); tale operazione potrebbe essere fatta in concomitanza con l’assestamento di un forte vincolo anti-inflativo, quale potrebbe essere ad esempio quello di legare la nuova lira all’oro o di assumere precisi impegni antinflazionistici da parte dellaBanca d’Italia. Ci sarebbe da tirare la cinghia (perché gli errori sono stati fatti e non si distribuiscono pasti gratuiti), ma almeno saremmo padroni a casa nostra e il futuro, roseo o negativo che fosse, tornerebbe nelle nostre mani.

 

Cazzo, (scusate il francesismo) ma questo Sergio Noto insegna all'università ?

Ora a me sembra dica corbellerie clamorose da un punto di vista economico e soprattutto logico (il gold standard? tenere i tassi alti? Una lira forte?) comunque la citazione latina che dimostra che è un "professore" l'ha messa, quindi a posto.

I post sull'università di noise from amerika sono gli unici che ho sempre (o quasi) omesso di leggere. Avevo comunque intuito che la situazione fosse grave, non credevo così tanto :-)

ottimo post. aggiungo solo due postille:

svalutare dell'x% oggi da effetti differenti che svalutare dell'x% nel 92. concetto che i noeuro mettono spesso da parte.

se non si affronta e si da una soluzione convincente agli aspetti tecnici e giuridici circa le  modalità di uscita,  come trattare la ridenominazione del debito pubblico e soprattutto privato, e come gestire il necessario sostegno al sistema bancario, temo che parlare di effetti della svalutazione sia solo un esercizio di stile (ovviamente non mi riferisco al post).