I due dubbi sulla riforma Gelmini

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Al di là della ampiezza dei temi e della quantità notevolissima di disposizioni, la riforma poggia su due linee strategiche, a cui si è scelto di affidare il compito di imprimere la svolta: il rafforzamento della governance centrale degli atenei e una valutazione dei risultati ancorata a criteri e parametri definiti ex ante.

Che la riforma Gelmini segni in qualche modo una svolta è stato sostenuto da molti, seppure con note diverse di cautela. Personalmente, riconosco che c’è una genuina volontà riformatrice nella nuova legge e che qualità, merito ed efficienza sono obiettivi perseguiti. Ma credo che la svolta sia un esito molto più incerto di quanto molti suppongono. Due punti, cruciali, non mi hanno mai convinto e non mi convincono di questa riforma. Vorrei tornarvi sopra, a testo definitivo acquisito.

Il rafforzamento della governance ha due aspetti: la identificazione del CdA come il vero, unico organo deliberante dell’ateneo (tralascio qui l’inclusione di esterni, che sarà o inutile o foriera di nuovi pericoli, già sottolineati) e l’attribuzione di un potere enorme al rettore. Alle prerogative fissate dalla legge (tra cui spiccano le “funzioni di indirizzo, di iniziativa e di coordinamento delle attività scientifiche e didattiche”, la “proposta del direttore generale”, l’ “iniziativa dei procedimenti disciplinari”), va aggiunto dell’altro. La riforma lascia agli statuti la decisione sulla modalità di ingresso nel CdA tra “designazione” o “scelta”. E’ evidente che i rettori potrebbero avere un peso decisivo sui nuovi ingressi, ciò che renderebbe del tutto particolare la loro forza nell’unico organo deliberante dell’ateneo. A fronte di tutto questo, la sancita responsabilità del rettore “del perseguimento delle finalità dell’università, secondo criteri di qualità e nel rispetto dei principi di efficacia, efficienza, trasparenza e promozione del merito” è un’affermazione che non ha nessun reale contenuto. Suvvia, siamo realistici: il massimo a cui si può pensare, se quei criteri e principi non saranno rispettati, è qualche contestazione o qualche denuncia pubblica, e i rischi maggiori su un terreno così scivoloso potrebbero esser corsi da chi contesta e da chi pubblicamente denuncia. Discutibile è poi la decisione, raggiunta nella fase conclusiva dell’iter parlamentare, di un mandato unico di sei anni: come garanzia di assenza di condizionamenti all’attività del rettore è alquanto debole, se non proprio risibile. I rettori non sono stati vittime nella deriva dell’ultimo decennio! Ad ogni modo, sei anni sono un tempo molto lungo: una fisiologica, più celere alternanza, una sana intercambiabilità di ruoli, lo spirito di servizio piuttosto che gli investimenti personali, non sono aiutati da un mandato così lungo. Il rettore-sovrano è un ritorno al passato, per certi aspetti addirittura al passato pre-autonomia, quando il diretto rapporto ministro-ministero-rettore aveva un discreto peso negli equilibrati (!) piani di sviluppo degli atenei. C’è infine un altro motivo per non farsi illusioni sulla rilevanza del mandato unico: un’alleanza rettore-direttore generale (ex direttore amministrativo) sarà sufficiente per creare una dinastia! Una eventualità, questa, forse completamente oscura ad alcuni difensori o consiglieri della riforma Gelmini. Questo tipo di governance non crea il miglior contesto possibile in cui un giovane davvero brillante, desideroso di costruire, ma, per temperamento, indipendente e non disposto ad ossequiare gruppi di potere, scelga di entrare.

Assai meglio sarebbe stato abbandonare al passato il modello del rettore-sovrano, e spingersi a un disegno più innovativo di responsabile autonomia delle singole unità degli atenei. Una linea strategica di ben altra portata, che avrebbe dato ben altre garanzie a quel giovane brillante di cui sopra, sarebbe stato un disegno di incentivi legati direttamente, seppure in parte, ai risultati della ricerca dei dipartimenti. Solo una responsabilità realmente condivisa sui finanziamenti ottenuti può oggi imprimere una scossa al sistema, e l’ambiente più efficace e vincolante sotto questo aspetto sono le unità di base della ricerca. Un processo di questo tipo non può partire dall’alto, dove i margini per mediazioni, compromessi di comodo, eccetera, sono più ampi e agevolmente sfruttabili. Favorire la responsabilità diretta dei dipartimenti, eliminando le mediazioni del governo centrale, avrebbe sicuramente richiesto un impegno normativo ed organizzativo dello stato ben maggiore di quello profuso nell’attribuire un grandissimo potere ai rettori, ma avrebbe dato garanzie più certe di una svolta. Purtroppo, l’alleanza con i rettori ha fatto finora premio su una distribuzione innovativa di incentivi e di finanziamenti. Riuscirà il governo a trovare il coraggio di inserire qualche novità su questo fronte nei decreti delegati? E’ l’ultima possibilità della riforma per vere innovazioni organizzative.

La valutazione. La valutazione delle attività degli atenei è ora un principio sancito, ma non tutto è chiaro e molto resta ancora da decidere. Si è evidentemente pensato di tutelare la serietà della valutazione soprattutto con l’imposizione di criteri ex ante. All’ANVUR è stata attribuita la definizione di criteri ex ante per la valutazione dei risultati conseguiti nella didattica e nella ricerca, nonché di “meccanismi di valutazione delle politiche di reclutamento” e di “criteri oggettivi di verifica dei risultati dell’attività di ricerca” dei singoli docenti ai fini della loro partecipazione alle commissioni di concorso. Ma, chi farà la valutazione non è chiaro. Sembrerebbe anzi che la definizione di criteri ex ante sia intesa come automatica soluzione del processo di valutazione. Se così fosse, la affermata “competenza esclusiva dell’università a valutare positivamente o negativamente le attività dei singoli docenti e ricercatori” sarebbe di fatto finalizzata alla sola erogazione o meno degli scatti stipendiali (Art 6 comma 14: “La valutazione del complessivo impegno didattico, di ricerca e gestionale ai fini dell’attribuzione degli scatti triennali .. è di competenza delle singole università secondo quanto stabilito nei regolamenti di ateneo.”). In realtà, desta perplessità sia l’affermazione di una competenza esclusiva delle università a valutare i propri docenti sia una valutazione affidata alla meccanica applicazione di criteri. La scarsa chiarezza (e anche contraddittorietà delle espressioni usate) sui processi di valutazione dovrà essere superata nei decreti delegati. Non è difficile tuttavia prevedere che la rilevanza forse esclusiva attribuita ai criteri ex ante nella valutazione della ricerca renderà la definizione di questi criteri difficile e presumibile oggetto di molte pressioni. Se i rischi di una valutazione automatica della ricerca saranno opportunamente considerati e se d’altro lato non emergerà chiaro, nel completamento della riforma, anche il principio di una valutazione di merito dei prodotti della ricerca, il modesto risultato della riforma sarà un processo di valutazione debole o assai diversificato tra le singole aree.

Anche qui: non sarebbe stato meglio mantenere attivo il processo già avviato di valutazione della ricerca, e ampliarlo e migliorarlo coinvolgendo, con opportuni innesti internazionali, i migliori ricercatori di cui in ciascuna area il paese dispone? In fondo scegliere bene i valutatori risolve molto meglio il problema della valutazione di quanto possa fare qualunque imposizione di regole e vincoli.

Poi, se il principio della valutazione è sancito, nessun impegno emerge su un modello di ripartizione del FFO alle università. L’unico impegno, non irrilevante ma di nuovo non preciso, è la destinazione di una quota non superiore al 10% del fondo di funzionamento ordinario legata ai risultati delle politiche di reclutamento degli atenei. La riforma insomma non pone un obiettivo preciso e complessivo sulla quota, a regime, dei finanziamenti dello stato legati ai risultati della ricerca, e questo è un suo limite. Ma di nuovo su tutto questo, aspettiamo passi più coraggiosi dai decreti delegati.

Infine i dubbi sulla valutazione si estendono al vicino tema della selezione della docenza. Cioè si estendono ai “criteri e parametri differenziati per funzione e per area disciplinare, definiti con decreto del Ministro”, i quali dovranno essere alla base del “motivato giudizio” per l’attribuzione dell’abilitazione. Certo è assai malmessa una università in cui la selezione della docenza è rimessa ai criteri e parametri dettati dal ministro! E non è facile attendersi che si risollevi con essi, considerato anche che per la loro definizione – qui è sicuro – contrattazioni e patteggiamenti con le corporazioni saranno corposi.

Nota finale. Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale – 14 gennaio - sono in decorrenza i termini posti agli adempimenti degli atenei e ai decreti delegati del governo. Sarà interessante seguire come gli atenei utilizzeranno, nei nuovi statuti, i margini organizzativi che la riforma lascia loro e come l’attuale governance a cui, con possibili prolungamenti dei mandati, è affidata la transizione, saprà guidarla. Amen!

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Commenti

Ci sono 11 commenti

 

Nota finale. Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale – 14 gennaio - sono in decorrenza i termini posti agli adempimenti degli atenei e ai decreti delegati del governo. Sarà interessante seguire come gli atenei utilizzeranno, nei nuovi statuti, i margini organizzativi che la riforma lascia loro e come l’attuale governance a cui, con possibili prolungamenti dei mandati, è affidata la transizione, saprà guidarla. Amen!

 

Visto che ci son sei mesi di tempo per redigere i nuovi statuti (e nessuno ha intenzione di finir commissariato dalla Gelmini), e' cominciato lo psicodramma della commissione statuto.

Qui a Pisa il Rettore aveva prima promesso di scegliere due rappresentanti per Area, salvo poi far marcia indietro e sceglierne uno per facolta'. Cosi' le facolta', strutture che con la riforma dovevano essere praticamente smantellate (uno dei non molti punti positivi dlla riforma), in realta' diventano la "matrice" del nuovo statuto.

 

Pisa non è l’unico caso. Certo le procedure per la nomina delle  commissioni per l’elaborazione dei nuovi statuti degli atenei la dicono lunga sugli interessi in gioco e sulle possibili contrapposizioni di linee di lavoro. Mantenimento dello status quo o innovazioni organizzative, a cui la riforma pur apre la strada? Questa è la partita che si gioca all’interno di quelle commissioni e che sarebbe bene seguire, se non proprio minuto per minuto, almeno nei risultati principali.

Lunedì 21 marzo a Roma Tre, con seggio unico, Senato e Consiglio di Amministrazione votano i componenti (8 professori e 2 ricercatori) della commissione per l’elaborazione dello statuto. La procedura scelta è stata questa: alle 8 facoltà dell’ateneo si è attribuita la designazione delle candidature. I membri di Senato e CdA esprimeranno lunedì una singola preferenza tra i candidati ricercatori e un massimo di 3 preferenze tra i candidati professori, ciascuno dei quali appartenenti a facoltà diverse. I prescelti saranno i due ricercatori con il maggior numero di preferenze e un professore per ciascuna facoltà, in relazione al maggior numero di preferenze ottenute. Il ruolo delle facoltà nella selezione della commissione appare in palese contraddizione con lo spirito della riforma, la quale fissa nei dipartimenti l’unità organizzativa degli atenei. Un cattivo inizio anche a Roma Tre, direi dunque, ma nulla di pregiudicato ancora.

Ultima nota. Nelle designazioni della Facoltà Scienze della Formazione c’è Benedetto Vertecchi, una delle migliori competenze in Italia in tema di valutazione e uomo libero. Chissà se la sua competenza ne favorirà l’elezione.

Cosi' le facolta', strutture che con la riforma dovevano essere praticamente smantellate

Un'asinata, come mostra lo studio comparativo di G. Capano e M. Regini. Oggetto anche di un seminario CRUI.

RR

ot: nelle pieghe della "riforma"...

Ach! Questa m'era sfuggita.

Articolo interessante: grazie della segnalazione.

Si dimette dg Istruzione Massimo Zennaro (quello dei neutrini-nota mia)

13 Gennaio 2012 22:04 CRONACHE e POLITICA

(ANSA) - ROMA - Il direttore generale del ministero dell'Istruzione Massimo Zennaro ha deciso, in data 10 gennaio 2012, di rassegnare le "proprie dimissioni dall'incarico". Lo ha fatto sapere il ministero. Zennaro si era gia' dimesso il 29 settembre da portavoce dell'allora ministro Mariastella Gelmini per la vicenda del comunicato sul famoso, quanto inesistente, ''tunnel'' Cern-Gran Sasso. Zennaro, pur non essendo l'autore materiale di quel comunicato, se ne era assunto la responsabilita'.

Non per toglier nulla ai neutrini, ma secondo me le dimissioni sono legate all'ultimo casino combinato dal MIUR, ovvero il demenziale bando PRIN-kakuro (che -per fortuna- il ministero sta ora cercando di emendare).

Era un dirigente "per chiamata diretta" della Gelmini, che può sfruttare all'incirca una riserva del 5% sulle piante dirigenziali per queste posizioni. Non ricordo se il contratto è biennale o triennale, ma è probabile che fosse comunque vicino alla scadenza, e ha fatto il beau geste di lasciare prima...