Il Decreto Gelmini: segnali di svolta. Da rafforzare

/ Articolo / Il Decreto Gelmini: segnali di svolta. Da rafforzare
  • Condividi

Il Decreto Gelmini, la cui conversione in legge è ormai imminente dopo gli emendamenti e l’approvazione del Senato, apre la strada a un reale cambiamento nella conduzione dell’università?A me sembra si tratti solo di un buon segnale, non molto di più. Una maggiore chiarezza sulla direzione di marcia si avrà dai regolamenti e dai decreti che ne cureranno l’attuazione. Ma una svolta reale, una innovazione di grande portata sarebbe accompagnare subito questo decreto con un cambiamento delle regole sui giudizi di conferma dei vincitori di concorso.

I contenuti del decreto. Sul piano finanziario, il decreto rafforza e attenua vincoli posti da norme precedenti. Gli atenei che impegnano sul personale di ruolo più del 90% del FFO (Fondo di Funzionamento Ordinario, ossia i soldi che lo stato attribuisce a ciascun ateneo per il funzionamento di base) sono ora sottoposti a un (sacrosanto) divieto totale di bandire concorsi e assumere personale. I vincoli sul turnover della contestatissima legge 133/08 sono stati invece attenuati: il turnover è limitato al 50% e le somme liberate devono essere destinate per il 60% a ricercatori e contrattisti e per non più del 10% a professori ordinari. L’intento, positivo, è evidentemente quello di riproporzionare la struttura del personale, dopo i massicci ingressi e le distorsioni create dai concorsi Berlinguer. Ottima, poi, è la correzione del Senato di includere nel 60% anche i contrattisti della legge Moratti del 2005: sarà interessante, qui, sapere quanti e quali atenei utilizzeranno le somme liberate dal turnover anche per contratti di ricerca. E’ facile prevedere che vi saranno scelte alquanto diverse e che molti atenei persevereranno nella pratica di sistemare subito, con un posto di ricercatore, gli allievi di qualche influente (magari solo nell’ateneo) professore ordinario.

Nella partecipata e appassionata illustrazione di Giavazzi su lavoce.info, la “vera novità” del decreto è la distribuzione del 7% del FFO sulla base dei risultati conseguiti nei singoli atenei: la qualità dell’offerta formativa e i risultati dei processi formativi, nonché la qualità della ricerca scientifica. Dopo svariati modelli teorici per la ripartizione del FFO, applicati in misura e con modalità risibili, non c’è dubbio che la decisione di impegnare il 7% del FFO sui risultati sia una vera novità. Ma la portata di questa novità è piuttosto incerta: l’attuale riferimento operativo - il modello elaborato nel 2004 dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario - misura i risultati dei processi formativi in termini di crediti formativi universitari (CFU) acquisiti. Approssimando rozzamente, si potrebbe dire in termini di esami superati. Un caveat è immediato. Attenzione: si tratta di un indicatore che non esprime impegno e qualità didattica degli atenei e che può invece sollecitare una concorrenza al ribasso tra di essi. Per quanto riguarda la qualità della ricerca, occorre ricordare che l’unica valutazione della ricerca è stata fatta dal CIVR, su impulso del ministro Moratti, per il triennio 2001-2003. Il ministro Mussi ha rallentato l’attività del CIVR e nessun aggiornamento di quella valutazione è stato compiuto. Ovviamente, molte cose succedono nell’ambito della ricerca in 5 anni. Dunque utilizzare oggi i risultati della valutazione 2001-2003 provocherà, con ogni probabilità, svariate distorsioni.

Su tutto questo il decreto non dice nulla. Stabilisce solo che le modalità di ripartizione del 7% saranno definite con apposito decreto del ministro. Vedremo dunque in seguito come l’incertezza e le attuali riserve saranno sciolte.

Sul terreno dei concorsi, a cui il dibattito di queste settimane ha dedicata tanta attenzione, non sembra proprio si sia avviata una rivoluzione. Il decreto ha solo sparigliato le carte, un risultato certamente di enorme soddisfazione ma, operativamente, dagli esiti del tutto incerti.

Vediamo meglio. In primo luogo tutte le commissioni di concorso saranno composte da ordinari, eccettuato il membro interno dei concorsi per ricercatore che può essere un associato. Le commissioni emergono da un sorteggio nell’ambito di una rosa di votati di dimensione tripla rispetto a quella della commissione. Non possono far parte della commissione professori dell’ateneo che ha emesso il bando. I concorsi per ricercatore sono solo per titoli, integrati da una discussione sugli stessi titoli. Gli atenei – modifica apportata in Senato -possono riaprire i termini per la presentazione di nuove domande sui posti banditi.

L’eliminazione degli associati e l’eliminazione delle prove scritte nei concorsi per ricercatore eliminano possibili fonti di inquinamento, e vanno dunque bene. Molto ingenua è invece l’attribuzione agli atenei della facoltà di riaprire i termini dei concorsi. La CRUI (conferenza dei rettori) si è affrettata ad esprimere un orientamento contrario, motivandolo con i contenziosi che potrebbero poi aprirsi. I ricorsi sono certo un’attività diffusa nel paese, ma si poteva realisticamente pensare che i rettori non assumessero una posizione di tutela dei propri elettori-aspiranti vincitori di concorso, e della rete di sponsor che li sostiene?

Per il resto, null’altro si può dire. Le nuove regole sostituiscono una rilevante casualità della commissione alla sostanziale determinazione della commissione ad opera delle innumerevoli cordate che si sono create sui concorsi. La casualità della commissione dà garanzia di risultati migliori? Dopo 23 tornate di concorsi fasulli, con ingressi a dir poco variegati in ogni ruolo della docenza universitaria, la casualità della commissione non dà di per sé garanzie. Potrebbe anche accadere che i risultati si rivelino migliori dove il profilo atteso era basso e peggiori dove invece si puntava in alto! Complessivamente, le disposizioni sui concorsi segnano un intervento molto modesto.

Certamente positivo è il potenziamento delle risorse per il diritto allo studio e l’istituzione di un’anagrafe nazionale di tutti i docenti universitari. Una connessione tra scatti stipendiali e produzione scientifica (i cui criteri di identificazione saranno definiti da apposito decreto) è, inoltre, timidamente disegnata. Ma, anche qui, il tema rimane molto aperto.

Concorsi e conferme. Con questo decreto, conclude Giavazzi, “abbiamo fatto passi da gigante verso la fine dei concorsi”. I passi in questione, dal testo del decreto, mi sfuggono e non capisco bene l’ottimismo di Giavazzi. Personalmente, poi, credo che il nostro sistema universitario non possa ancora sbarazzarsi di concorsi e di regole per gestirli. Ma questo è un altro discorso.

Il punto che va sollevato con tutta la forza è la necessità di limitare i danni delle regole oggi in vigore. Sotto questo aspetto, il decreto fa ben poco. E’ una troppo piccola soddisfazione rincuorarsi con una prossima fine dei concorsi, tralasciando che vi sono alle porte quasi quattromila nuove idoneità per posti di professore, attribuite con concorsi la cui capacità di selezione rimane molto incerta, o tralasciando i corposi ingressi di ricercatori legati alla prima annualità del piano straordinario per i ricercatori del novembre 2007 e la circostanza che l’accesso a questo ruolo è stato, fino ad oggi, troppo spesso sottoposto al solo vaglio che un professore ordinario fa di un proprio allievo.

Fino ad oggi, non sono state toccate le regole sulle conferme in ruolo, a cui ogni vincitore di concorso è sottoposto dopo un triennio di prova. Chi vive in università sa bene che i giudizi di conferma si risolvono molto spesso in una pura formalità. L’attuale decreto non fa alcun riferimento al tema e nessun pronunciamento da parte di coloro che in qualche modo lo hanno ispirato vi è stato. Considero francamente inspiegabile tutto ciò.

Io ho più volte proposto due correzioni. La prima: abrogare una vecchia norma che stabilisce la dispensa dal servizio dopo due giudizi negativi, ammettendo il mantenimento del ruolo inferiore acquisito o predisponendo un qualche altro paracadute per ricercatori non confermati; la seconda: eliminare la designazione della commissione di conferma attraverso un sorteggio ed aprire tale designazione ad apporti stranieri.

Tecnicamente, non è forse facile fare queste correzioni. Ma, in particolare, la designazione della commissione potrebbe dar luogo a una innovazione straordinaria per il nostro sistema di selezione, della cui debolezza le regole attuali sono parte integrante.

E’ possibile avere un qualche sostegno alla proposta di unire subito al decreto Gelmini, che poco può garantire sui concorsi in atto, una modifica delle conferme in ruolo, assai più efficace e meno aleatoria nel garantire la qualità della selezione?

Indietro

Commenti

Ci sono 13 commenti

Per quanto riguarda le commissioni di conferma, se un inetto viene confermato, sono tutti contenti e nessuno protesta. Se un inetto non viene confermato, apriti cielo, quantomeno ci scappa il ricorso al Tar. Non c' è equilibrio nel nostro sistema istituzionale fra interesse privato e interesse pubblico. Il primo prevale sempre o quasi sempre, anche perchè il perseguimento del primo e non del secondo è compatibile rispetto agli incentivi. Una chiara dimostrazione di questo è in quello che segue. Sono stato membro di un' infinità di commissioni di conferma, sicuramente parecchie più di cento, tenuto conto di quelle di conferma dei ricercatori. Non in un sol caso mi sono trovato con un candidato per cui il giudizio della struttura di appartenenza fosse men che positivo. Tutti bravi, tutti assidui, tutti lavoratori? Assolutamente no. Ma qui entra in campo la differenza fra osservare e verificare. So che Tizio è  inetto, è noto che fa delle pessime lezioni,  che è assenteista e di scarsa serietà nei comportamenti accademici (poniamo, passa tutti con voti alti indipendemente da quello che sanno, per rendersi popolare con gli studenti a garanzia di copertura dei comportamenti di cui sopra). Ma come faccio a dimostrarlo? Se ne parlo in consiglio di facoltà non solo mi attiro l' ostilità omertosa dei colleghi ("cane non mangia cane" e poi se passa tutti va bene, favorisce la produzione di laureati o magari dei crediti, il nuovo indice di successo di cui si parla nel contributo della collega), ma anche eventuali azioni giudiziarie dell' interessato. Per cui non ne faccio di niente. Ergo: tutti i giudizi di dipartimenti e facoltà non valgono la carta su cui sono scritti. Si tratta di una semplice ritualità, così come gli esami e i crediti di cui sopra e, apparentemente, nel loro complesso, i giudizi di conferma. Come cambiare? Per esempio, con un meccanismo per cui al posto della conferma ci sia l' avanzamento nella carriera, non con idoneità, ma a numero chiuso,poniamo una certa proporzione degli aventi titolo. Qualunque idoneità a numero aperto va incontro ai problemi di cui sopra, come nel famiglierato caso dei giudizi per il passaggio in ruolo degli incaricati negli anni ottanta.

La sostanziale inutilità attuale delle conferme in ruolo è dovuta a molti fattori. Gli incentivi della commissione (esterna) a dare un giudizio negativo sono nulli. Tanto il candidato scarso resta in un'altra università. Inoltre c'è il fatto che le conferme, in teoria, sono tre: da Ricercatore, da Associato e da Ordinario. Troppe. Che senso ha avere un giudizio di conferma a 40-45 anni (età alla quale oggi si diventa ordinari in alcune discipline)? Anche in questo caso, piuttosto che inventarsi cose come il sorteggio della commissione di conferma, basterebbe seguire il modello anglosassone. Dopo 5-6 anni dall'assunzione con un contratto a tempo determinato, ci dovrebbe essere un (UNO! non tre) giudizio di conferma (la decisione di tenure) del Dipartimento. Supportato magari da lettere di esperti del field esterni al Dipartimento. Ovviamente, come sappiamo, il problema è quello degli attuali incentivi dei Dipartimenti a selezionare i loro membri. Ma è questo IL problema. Se non risolviamo quello, tutti gli altri accorgimenti, tipo i sorteggi delle commissioni concorsuali recentemente stabilita dal ministro o l'identificazione dei requisiti  minimi proposta dal CUN, sono nel migliore dei casi inutili e nel peggiore dei casi dannosi. Dannosi non in sè, ma perchè danno l'illusione che ci siano dei meccanismi "intelligenti" e "oggettivi" che possano sopperire all'assenza di incentivi appropriati dei Dipartimenti. Un'illusione che dura da molti anni e che molti danni ha causato all'Università italiana.

 

Perche' la commissione esterna non ha incentivi mentre le lettere per tenure, esterne anch'esse, dovrebbe averli? Io scrivo decine di lettere di tenure - senza incentivi - e faccio sempre in modo che il dipartimento che me le chiede sappia cosa penso realmente del candidato. Lo faccio perche' il dipartimento che mi chiede una lettera in generale vuole la mia opinione - se volesse solo uno stampino alle loro scelte mi comporterei diversamente (non scriverei la lettera che costa gran fatica o lo farei solo in cambio di favore reciproco). 

Sono d'accordo: Il problema è dare responsabilità ai dipartimenti, e premi e punizioni se fanno la scelta giusta o sbagliata. Se non si risolve questo problema, se non si introduce un meccanismo di premi/punizioni per le scelte, si andrà sempre poco lontano. Che il premio/punizione sia dato dal  "mercato", oppure da una valutazione tipo RAE: questo non so dirlo. Ritengo il secondo approccio più fattibile in Italia.

La differenza sta nella differenza dei sistemi giuridici. In Italia ogni decisione della pubblica amministrazione va motivata e la motivazione è soggetta a impugnazione presso la giustizia amministrativa. Come conseguenza le decisioni devono essere prese sulla base di elementi verificabili e non semplicemente di osservabili. Se vengono attribuiti al candidato comportamenti o qualità semplicemente osservabili, ma non verificabili (cioè non obbiettivamente provabili) il candidato può sottoporre chi li esprime ad un' azione giudiziaria per danni o altro, a seconda delle circostanze. In definitiva i giudizi possono essere espressi solo sulla base della valutazione discrezionale nell' ambito in cui la commissione soltanto è competente, cioè le pubblicazioni. In pratica questo si presta all' abitudine ipocrita in sede concorsuale (qui travalico la questione delle conferme) di attribuire ai candidati ordinamenti per quanto riguarda i meriti scientifici completamente assurdi. Mi ricordo di avere partecipato come commissario a un concorso a cattedra in cui un candidato aveva circa 250 citazioni isi e i due vincitori (a maggioranza, non con il mio voto) una o due soltanto. Ovviamenente la decisione era giustificata con presunti meriti scientifici, ma era di fatto fondata su criteri completamente differenti. Nell' ambito anglosassone, apparentemente, la commissione non deve motivare e non rende conto a nessuno e i referee sono del tutto privati e a titolo riservato e non sono soggetti a scrutinio giurisdizionale.

Il decreto Gelmini come era in principio era una via di mezzo fra un obbrobrio ed una farsa. Dopo le proteste di studenti, ricercatori e precari della ricerca la parte più raccapricciante (il blocco praticamente completo del turn-over) è stata eliminata quasi di nascosto senza che nessuno ammettesse che trattavasi di una idiozia.

Adesso rimane la farsa: il decreto Gelmini è uno scatolotto vuoto che demanda tutto a misteriosi "decreti attuativi" sui quali non si sa nulla. È ovvio che se questi decreti attuativi fossero ottimi il tutto diventerebbe un'ottima legge. È altrettanto ovvio che, se i decreti saranno pessimi, la legge sarà una pessima legge.

Il vantaggio strategico del produrre uno scatolotto vuoto è che tutti possono riporci le loro speranze e crogiolarsi nell'idea che "se fanno i decreti attuativi a modino allora andrà tutto bene". In questo modo si spengono le proteste, si raffreddano gli animi e si manda il tutto nel dimenticatoio fino a nuovo ordine.

Insomma: non mi pare 'sto gran segnale di svolta

Come si prevedeva, il decreto Gelmini è stato definitivamente approvato dalla Camera con il ricorso al voto di fiducia. Rimaniamo ora in attesa di regolamenti e decreti attuativi, per avere segnali più precisi sul se e come si vorranno affrontare i problemi strutturali dell’università.

Voglio invece insistere ancora, in modo più diretto e chiaro, sulla mia proposta di modifica dei giudizi di conferma.

Premessa. E’ un dato di fatto che i concorsi locali della riforma Berlinguer hanno coinvolto nelle commissioni di concorso una quantità di professori. A seguito di ciò si sono costituite innumerevoli cordate nel nostro tessuto universitario, dirette a chiudere nella sostanza il concorso già nella fase della formazione della commissione. Una quantità di gente che avrebbe avuto scarsissima o nessuna probabilità di far parte di commissioni nazionali si è trovata a gestire concorsi e a immettere nei ruoli persone provviste di analoga, scarsa o nulla, probabilità di successo in concorsi nazionali. 

Parallelamente al numero dei commissari di concorso, è cresciuto il numero dei commissari nei giudizi di conferma. Ciascuna conferma ha infatti una propria, specifica commissione, designata per sorteggio.

Ciò premesso, i giudizi di conferma tendono ad essere una pura formalità per due motivi: 1) Al di là di aspetti di scarsa serietà o impegno, vi sono remore a gettare in mezzo a una strada persone in età matura, presumibilmente ormai prive o comunque in gravi difficoltà per una alternativa di lavoro. La legge stabilisce infatti che la non conferma esonera dal servizio. 2) La enorme moltiplicazione di commissari crea una sorta di cappa omertosa sulla selezione dei docenti. Crea, cioè, incentivi perversi: non favorisce la serietà di valutazione, ma favorisce i timori di ritorsioni e i reciproci favori.

Il primo motivo può essere facilmente superato: basta ammettere che la non conferma non pregiudica il ruolo inferiore acquisito. Il secondo coinvolge problemi assai più seri e richiede interventi assai più delicati. Il sorteggio non ha nessun senso nell’ambito di un corpo docente che ha raggiunto, dopo anni di concorsi fasulli, livelli enormi di eterogeneità. Per questo motivo e per gli incentivi perversi che offre, egualmente insensato sarebbe il mantenimento di tante commissioni di conferma quanti sono i concorsi. Dunque come designare le commissioni di conferma? Io suggerisco un’apertura, almeno parziale, dei confini nazionali.

Infine, ho l’impressione che Panunzi e Lipari vadano oltre il punto che io sollevo. Scrive Panunzi: 

 

Ovviamente, come sappiamo, il problema è quello degli attuali incentivi dei Dipartimenti a selezionare i loro membri. Ma è questo IL problema.

 

Certamente! Per quanto riguarda i docenti universitari, questo è IL problema. Ma nel mio intervento io mi chiedo un’altra cosa. Mi chiedo: con circa 4.000 nuove idoneità per posti di professore alle porte e un piano triennale straordinario di assunzioni di ricercatori, avviato nel 2007, dobbiamo soltanto aspettare che il ministro Gelmini, o un qualunque altro futuro ministro, risolva IL problema? La mia risposta è: NO. Realisticamente, non c’è alcuna garanzia, nemmeno con i sorteggi del decreto Gelmini, che le selezioni su QUESTI posti siano efficienti.  In queste condizioni chiedere, possibilmente in coro e a gran voce, di predisporre almeno un filtro diventa quasi doveroso.

IL problema rimane, ma insistere su IL problema dovrebbe non essere incompatibile con interventi che si pongono il più limitato obiettivo di porre qualche riparo ai guasti del recente, triste passato.

Neanche io ho alcuna fiducia nell'efficacia dei sorteggi delle commissioni. Non riesco a capire come alcuni nostri colleghi siano convinti delle virtù salvifiche del sorteggio. E penso che la politica di bandire tanti posti da ricercatore sia folle, come ho già detto in un altro post, per la semplice ragione che a quel livello si fronteggia un enorme problema di selezione avversa. Ho anche il vago - e spero infondato- sospetto che il ministro Moratti prima e l'attuale ministro poi abbiano approvato questa politica sulla base della  convinzione che solo i ricercatori facciano ricerca (ed i professori no), ma questo è irrilevante. Sono però anche convinto che l'idea di avere tre conferme (ricercatore, associato e ordinario) sia semplicemente fuori dal mondo. Se è vero che la conferma da ricercatore avviene troppo presto (dopo tre anni e forse meno adesso) è anche vero che la conferma degli ordinari è semplicemente ridicola. Se Michele, o Sandro o Alberto, tanto per fare tre nomi che i nostri lettori conoscono,  dovessero decidere di rientrare in Italia come Ordinari, dovrebbero essere giudicati dopo tre anni da una commissione per la conferma sulla base della loro produttività nel triennio. A me non sembra sensato. La decisione di tenure deve essere unica, come in America. Altrimenti non può che essere una formalità, come avviene adesso.

 

Realisticamente, non c’è alcuna garanzia, nemmeno con i sorteggi del decreto Gelmini, che le selezioni su QUESTI posti siano efficienti.  In queste condizioni chiedere, possibilmente in coro e a gran voce, di predisporre almeno un filtro diventa quasi doveroso.

 

Ritengo che il provvedimento di imporre il sorteggio dei commissari di concorso in questa tornata, come anche ridurre il peso delle sedi locali nelle commissioni di concorso sia un passo negativo verso la soluzione del problema, anche se riconosco la buona fede che ha motivato il decreto ora convertito.

In definitiva, nonostante tutti i vincoli procedurali, nonostante la composizione nazionale delle commissioni di esame, in Italia ogni Ateneo con poche eccezioni ha sempre bandito posti su misura per i propri candidati (eventualmente piu' un idoneo di una sede che provvede il commissario amico) e ha poi ottenuto che il prescelto vincesse.  Il sistema di incentivi esistenti e' tale che qualunque estraneo ai giochi e in buona fede capiti in una commissione pilotata con candidato preconfezionato ha tutto da perdere e nulla da guadagnare ad opporsi al desiderio della sede che ha bandito il posto.

Io ritengo che sia meglio prendere atto di questa realta', che peraltro all'estero e' prevalentemente la normalita', e dare completa liberta' di scelta a chi bandisce i posti, ma allo stesso tempo, anzi preferibilmente ancora prima di lasciare libere le briglie, iniziare una valutazione estremamente rigorosa e incisiva dei risultati didattici e scientifici degli Atenei e anche della reale produttivita' scientifica di tutto il personale di ruolo, magari iniziando da chi ha legami di parentela nello stesso Ateneo.  Poi, in base ai risultati della valutazione, occore intervenire incisivamente sia sui fondi di ricerca, sia sul budget disponibile per futuri reclutamenti, sia anche in una certa misura sulla remunerazione dei docenti, iniziando da quelli di elevata anzianita' e che hanno ricoperto posizioni apicali e quindi presumibilmente responsabili delle scelte pregresse.

Purtroppo la scelta di sorteggiare le commissioni e di sottrarre potere nelle commissioni alla sede che ha bandito il posto va nella direzione opposta alla combinazione di autonomia e responsabilita' che sarebbe auspicabile, vale a dire va nella direzione di fare concorsi nazionali e affidarsi ad una presunta buona volonta' collettiva degli accademici dei settori disciplinari che il passato dimostra sostanzialmente inesistente per la grande maggiuranza, come ci si puo' logicamente aspettare perche' semplicemente non esistono in Italia valutazioni e incentivi di alcun genere che possano premiare chi opera scelte scientificamente corrette rispetto a chi scambia favori per mettere in cattedra amici e parenti.

 

 

"E’ un dato di fatto che i concorsi locali della riforma Berlinguer hanno coinvolto nelle commissioni di concorso una quantità di professori. A seguito di ciò si sono costituite innumerevoli cordate nel nostro tessuto universitario, dirette a chiudere nella sostanza il concorso già nella fase della formazione della commissione. Una quantità di gente che avrebbe avuto scarsissima o nessuna probabilità di far parte di commissioni nazionali si è trovata a gestire concorsi e a immettere nei ruoli persone provviste di analoga, scarsa o nulla, probabilità di successo in concorsi nazionali."

Le "innumerevoli cordate"  con vincita di "persone provviste di analoga, scarsa o nulla, probabilità di successo in concorsi nazionali" sono state la diretta conseguenza del micidiale meccanismo delle tre idoneità (e anche delle due) associato ad una elezione organizzata e deterministica (o quasi, nel senso che le maggioranze precostituite di tre venivano sempre o quasi sempre elette) che precostituiva la maggioranza e i tre (o due) vincitori, piuttosto che la quantità di professori coinvolti nelle commissioni, non la quantità in se stessa, ma il modo del coinvolgimento. Le vecchie commissioni nazionali gestite da professionisti dei concorsi che derivavano la loro autorevolezza ed eliggibilità dall' aver messo in cattedra larghe cordate di reciproci tirapiedi (o "allievi" che dir si voglia) piuttosto che da propri meriti scientifici non mi pare che meritassero grande credibilità. Fra coloro che avevano "scarsa probabilità di successo in concorsi nazionali" c' erano sicuramente anche i colleghi  con titoli molto più solidi degli "allievi" (oltre ovviamente dei "maestri") che, come i fondatori di NoisefromAmerika, si trovavano "in orbita" in università estere privi del necessario "aggancio" con un padrino nazionale. Se poi andassimo a vedere da vicino le commissioni degli ultimi concorsi, probabilmente scopriremmo che a di là del contorno di due eletti a caso, i due che facevano maggioranza col commissario interno erano quasi sempre gli stessi, che si presentavano candidati e che sarebbero finiti nelle commissioni nazionali secondo vecchio sistema.