Cosa non va nella riforma Gelmini e cosa si dovrebbe fare

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Il disegno di legge Gelmini vuole realizzare una università che fornisca un buon servizio pubblico, l’educazione terziaria. Crede di poterlo fare con alcune modifiche organizzative, che vedono l'università come un'azienda, e quindi dando più potere al suo manager, il rettore. Il decreto però abbandona l’università come luogo di produzione di ricerca. Condannata a camminare su una sola gamba l’università italiana ristagnerà, e quindi anche la qualità dell' educazione diventerà scadente. Discutiamo del perché sia così e del cosa si potrebbe ancora fare.

Breve storia degli ultimi dieci anni

La riforma Gelmini giunge dopo diverse trasformazioni dell’università italiana negli ultimi anni, alcune buone, altre pessime. Ricapitoliamo. Il ministro Moratti fece tre innovazioni importanti. Avviò la valutazione sistematica della ricerca con un organismo di qualità, il CIVR, che aveva questa valutazione come compito istituzionale. Eliminò le due idoneità dai concorsi e tornò al vincitore unico. Infine, soppresse il ruolo di ricercatore sostituendolo con contratti triennali rinnovabili.

Il ministro Mussi è stato la controriforma: ha fermato la valutazione, ha reintrodotto le due idoneità (con un consenso politico purtroppo pressoché unanime) e ha avviato una disciplina diretta a correggere i pasticci fatti dalle facoltà sui corsi di laurea, con l'unica idea che sarebbe stato possibile avere buone lauree semplicemente imponendo vincoli di natura quantitativa alle facoltà. Il ministro Gelmini ha continuato la controriforma Mussi: ha mantenuto per due anni ferma la valutazione (il CIVR è stato riattivato solo pochi giorni fa), ha rafforzato ancora i vincoli sui corsi di laurea e soprattutto ha avviato un'ampia riforma – l’attuale disegno di legge - basato sull’idea che si possa riformare l’università pensandola come una azienda che produce educazione terziaria. Coerentemente con l'idea dell'università come azienda, si dà peso al manager dell'impresa puntando al rafforzamento del governo centrale delle università e in particolare del rettore.

La linea dei due ultimi ministri avrà conseguenze pesanti per l’università. Vediamo perché, iniziando dal problema vero, che non è una didattica scadente, ma una ricerca debole.

 

L’università italiana oggi e fra dieci anni

 

La situazione dell’università italiana già oggi, rispetto a tutti gli indicatori significativi, è preoccupante. Per gli indicatori, la scelta possiamo lasciarla al lettore, uno qualunque di quelli che la comunità internazionale accetta come misure fedeli di qualità va bene. Per esempio, il numero di citazioni in uno qualunque degli indici disponibili. Il numero di pubblicazioni in riviste peer-reviewed, le prime dieci di ogni disciplina. Il numero di grants ottenuti in competizioni internazionali. Il numero di studenti di dottorato di paesi stranieri che vengono a studiare in Italia. La posizione in una delle tante classifiche delle università mondiali. Una qualunque di queste misure, o una media ponderata. Il risultato sarà sempre lo stesso. Guardiamo a quelli più significativi. Per numero di articoli scientifici pubblicati per abitante (dati Eurostat, 2005) l’Italia è sotto alla media europea, insieme a Spagna, Grecia, Repubblica Ceca, Ungheria. Sopra la media ci sono paesi che sembra naturale aspettarsi: Svezia, (circa tre volte il nostro numero), Danimarca, giù fino a Belgio e all’Austria (che ne hanno un terzo più di noi). La percentuale dei brevetti all’Ufficio Patenti USA ci vede con meno di un punto percentuale (0.77, per la precisione: Taiwan da solo ne ha più di 4, il Giappone 18). Quel che è peggio, questo indicatore sta peggiorando: siamo scesi dal 1995, e ci hanno superato paesi piccoli come l’Olanda e Israele. Questi dati concordano con i risultati dell’Academic Ranking of World Universities, dove le università italiane non hanno prestazioni eccellenti, che danno circa l’80 per cento del peso a indicatori di qualità della ricerca.

Facciamo ora una predizione facile: con la riforma Gelmini, l’università italiana fra dieci anni sarà, rispetto a quegli indicatori, in una situazione di gran lunga peggiore di quella attuale. Più precisamente, saremo di gran lunga al di sotto degli altri paesi europei, come Inghilterra, Germania, Francia, a grande distanza dagli Stati Uniti, con una distanza sempre più breve dai paesi emergenti come la Polonia, che potrebbero addirittura averci superato.

 

Il DDL e il dibattito in Senato

 

La ragione per una predizione che sembra pessimistica, ma è solo realistica, è semplice. Il disegno di legge e il dibattito che lo ha seguito hanno sempre ignorato la questione fondamentale da affrontare. Ricordiamola. L’università è il luogo ideale dove si svolgono didattica e ricerca. Una università eccellente eccelle in tutti e due. Ma la didattica non può trainare la ricerca, mentre la ricerca può trainare e traina la didattica. Stiamo parlando qui di un sistema universitario, non di una singola istituzione. Chi indica i colleges inglesi (anche i più prestigiosi) come il luogo in cui la didattica eccelle perché i docenti seguono one-to-one and face-to-face gli studenti non capisce due principi fondamentali.

Il primo è questo: nei colleges di Cambridge (come King’s o Trinity: i classici colleges) si fa didattica, non si fa ricerca. I tutors che insegnano a stretto contatto con gli studenti non sono i ricercatori prestigiosi e non sono quelli che fanno la qualità dell' Università di Cambridge. Questi sono nei dipartimenti, nei laboratori, nel Downing Site, nel New Cavendish. Quando vanno nei colleges è per andarci a cena, o a dormire se han deciso di viverci. L'impulso e lo stimolo della nuova ricerca si trasmette dai dipartimenti ai colleges, e per questo, solo per questo, l'insegnamento nei colleges è nuovo, vitale, eccitante. Chi indica i colleges come esempio da seguire conferma in modo drammatico la incomprensione alla base del fallimento della nostra università. Chi indica il problema della università italiana nella facilità ad iscriversi e difficoltà a laurearsi (un esempio è qui) sta ancora parlando della didattica. Cercare di curare questi sintomi preoccupanti significa appunto curare i sintomi, perdendo di vista il vero male, che è un altro. L’università vive se è il luogo di produzione di ricerca eccellente. La legge che si sta realizzando manca questo punto fondamentale, e condanna l’università italiana a un futuro di secondo ordine. Così come non abbiamo una industria elettronica (e biologica, e tante altre) non avremo neppure una università eccellente.

Il secondo è che una differenziazione nel livello di qualità delle istituzioni universitarie è non solo un bene, è una condizione essenziale per il buon funzionamento dell' intero sistema universitario. Intanto c'è una divisione delle competenze. Dei migliori undergraduate colleges negli Stati Uniti, come Oberlin, Carleton, Williams, Wellesley, nessuno in Italia ha sentito parlare, perché appunto quelle istituzioni privilegiano l'insegnamento. Ma c'è anche una differenza di qualità, che si rispecchia in una differenza di prezzo. L'idea che ogni università debba essere di ottima qualità è una affermazione di principio tanto dannosa quanto assurda. Pensate: ogni macchina deve essere di ottima qualità, ogni paio di scarpe dev'essere di ottima qualità, ogni film o romanzo deve essere di ottima qualità, ogni albergo deve essere di ottima qualità ... Le università invece sì, chissà perché.

 

Il decreto legge è la traduzione in legalese di questa incomprensione. Perché esso manchi questo punto fondamentale lo abbiamo già detto in diverse sedi, per esempio qui, ma ci torniamo volentieri sopra. Il disegno di legge ha due elementi fondanti: il primo è un rafforzamento della governance centrale, puntando a rafforzare i già notevoli poteri di fatto del rettore. Il secondo è una apparenza di democrazia, basata su un Consiglio di Amministrazione non elettivo e che diviene l’unico organo deliberante dell’ateneo e su una consistente presenza nel CdA, almeno il 40%, di membri esterni all’ateneo. Questa struttura allarga i rischi delle gestioni clientelari che vediamo in azione ogni giorno. Invece gli incentivi, in particolare quelli alla ricerca che dovrebbero essere l'asse portante, sono rinviati a decreti del governo senza che il disegno di legge fornisca direttive precise e vincolanti. In sintesi: la riforma applica all’università una sorta di modello di centralismo democratico, centrato sulla figura del rettore.

Gli emendamenti del relatore e quelli dell' opposizione

Gli emendamenti del relatore Valditara attenuano la democrazia - e questo non è un male perché è democrazia puramente fittizia -  e inaspriscono il centralismo - e questo è un male poiché il centralismo nel disegno di legge non ha nulla ha che fare con un ammodernamento del sistema, non ha nulla a che fare con ciò che realmente serve, e cioé un accettabile sistema di incentivi. Per il primo aspetto, gli emendamenti Valditara rinviano sostanzialmente alle sedi la decisione sull’inclusione o meno del personale tecnico-amministrativo nell’elettorato attivo per l’elezione del rettore. Per il secondo aspetto, gli emendamenti Valditara richiedono l’autorizzazione del rettore perché i docenti possano svolgere attività di didattica o di ricerca esterna all’ateneo, e attribuiscono al rettore l’attivazione di provvedimenti disciplinari nei confronti dei medesimi. Queste innovazioni non sono esattamente efficienti, anzi sono pericolose in un contesto in cui il rettore è eletto da tutti i docenti, come prevede il disegno di legge. Il PD accetta l’impianto della riforma e propone solo di dosare in modo un po’ diverso centralismo e democrazia, conferendo un maggior ruolo al Senato Accademico.

 

Vediamo ora i dettagli della questione.

 

 

 

Il rapporto fra dipartimenti e facoltà

Iniziamo con una nota positiva. Nel disegno di legge c’è una innovazione buona e importante: le chiamate di nuovi professori, che oggi sono fatte dalle facoltà, verrebbero affidate ai Dipartimenti. Solo le proposte di chiamata, ma è già qualcosa. Ma le relazioni tra dipartimenti e facoltà, e il modo in cui verranno istituiti nuovi posti di ruolo, sono punti oscuri nel disegno di legge e non vengono toccati negli emendamenti. Valditara va incontro alle facoltà, ossia al mantenimento dello status quo, stabilendo semplicemente che le facoltà di un ateneo non possano essere più di dodici. Il suo emendamento attenua il vincolo della stesura originaria del ddl, che prevedeva un numero di facoltà proporzionato alle dimensioni dell’ateneo. Noi vediamo all’orizzonte lotte e impegno straordinari nei nostri atenei per, nella sostanza, semplici permutazioni di nomi. Ce ne era bisogno?

Gli incentivi

Il decreto attribuisce al Governo deleghe per l'emanazione di decreti su cinque ambiti diversi. Valditara non tocca la prima delega che è quella relativa agli incentivi. Ed è un male, perché questa delega, pur stabilendo criteri, li formula in modo genericissimo e dunque non fornisce alcun indirizzo per l’elaborazione di uno schema di incentivi. Valditara si occupa invece della delega relativa alle attività del personale docente. Propone di annullarla e che il ddl formuli direttamente regole sul tema: lo stato giuridico dei docenti. L’idea di Valditara è che solo le università hanno competenza a valutare i propri docenti e le valutazioni dell’ANVUR dovrebbero essere fatte al solo fine di permettere o meno la partecipazione dei docenti a commissioni di concorso. Per l’ANVUR, l’emendamento Valditara indica come criterio di valutazione la presenza continuativa nel dibattito scientifico, attestata da pubblicazioni su riviste accreditate. Niente altro. D’altro lato i docenti sono valutati dalla propria università per lo scatto di stipendio. La valutazione è una valutazione "del complessivo impegno didattico, di ricerca e gestionale". Con uno spettro di parametri di valutazione così ampio ci sarà sempre il modo di promuovere tutti, e magari chi è più allineato alla governance del momento.

Che fare

Per tutelare la ricerca il disegno deve realizzare alcune semplici ma fondamentali condizioni. Per prima cosa, occorre rafforzare il CIVR, come organo con il compito esclusivo di valutazione della ricerca. Sulla base delle valutazioni del CIVR si deve disegnare un sistema di incentivi adeguato a stimolare la ricerca dove è possibile.

Il disegno di legge dovrebbe enunciare chiaramente l'obiettivo a regime della quota del finanziamento degli atenei che va alla ricerca nonché il piano per raggiungere questa quota. Il disegno deve anche stabilire come questa quota debba essere amministrata, e c'è un solo modo per farlo bene. Siccome il luogo di produzione della ricerca sono i dipartimenti, i dipartimenti devono anche essere i destinatari principali di questa quota, in base alla qualità e quantità della ricerca prodotta. L’intervento dei singoli atenei in questa allocazione deve essere il più possibile limitato: le mediazioni dei rettori e dei CdA vanno ridotte al minimo.

 

Infine, va affrontata seriamente la questione degli incentivi personali ai ricercatori: il decreto deve stabilire che parte di questa quota debba contenere anche incentivi personali per i ricercatori. Ossia: aumenti di stipendio e stipendi differenziati a seconda della qualità e quantità di ricerca prodotta. I vincoli a questa componente della retribuzione devono essere minimi. La qualità della ricerca individuale deve essere valutata al di fuori dell’ateneo, o con l’ausilio di criteri oggettivi, o con valutazioni offerte da organismi come il CIVR.

Queste sono, secondo noi, le cose da fare; con l'idea chiara in testa che la competizione oggi è altissima e viene oramai da tutto il mondo. O si fa sul serio nei prossimi dieci anni o il caso è chiuso per sempre.

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Commenti

Ci sono 82 commenti

Il civr e' stato istituito dal governo Prodi col  D.Lgs. 204/98 del 5 giugno 1998.

Correggete.

 

 

Igor, ci dici:

Il civr e' stato istituito dal governo Prodi col D.Lgs. 204/98 del 5 giugno 1998. Correggete.

 

Grazie per darci l'occasione di tornare su un punto importante.

Noi diciamo, a ragion veduta, che la Moratti avvio' la valutazione sistematica della ricerca, non che creo' il CIVR. Avvio' e' il termine, come si avvia un' auto lasciata in sosta. Nel nostro caso quell'auto era rimasta in sosta per diversi anni. Riporto il pezzo del libro di Paola Potestio, l'autrice con me di questo post, nel suo libro "L'Universita' Italiana: un irrimediabile declino?" che descrive bene questa vicenda:

 

3. La valutazione della ricerca

Nel 1998 viene istituito con apposito decreto, in attuazione della Legge Bassanini del 1997, il CIVR, ossia il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca. Il titolo del Decreto istitutivo è "Disposizioni per il coordinamento, la programmazione e la valutazione della politica nazionale relativa alla ricerca scientifica e tecnologica". La nascita del CIVR, dunque, non mostra un legame diretto con l’autonomia degli atenei, ma è ovviamente un evento rilevante per poter finalmente inquadrare l’autonomia in un sistema di valutazione. I principali compiti affidati al CIVR sono "attività per il sostegno alla qualità e alla migliore utilizzazione della ricerca scientifica e tecnologica nazionale. A tal fine [il CIVR] promuove la sperimentazione, l’applicazione e la diffusione di metodologie, tecniche e pratiche di valutazione della ricerca".

Il CIVR inizia i propri lavori nel settembre 1999: come informa il sito web, sedute dei (7) membri componenti il Comitato, audizioni, convegni, analisi di indicatori, acquisizioni di elementi conoscitivi, raccomandazioni di indirizzo.

L’approdo a una più sostanziosa operatività si realizza nel 2003. Il ministro Moratti dà incarico al CIVR di formulare le linee guida per la valutazione della ricerca. Il testo elaborato delinea il processo di valutazione che il CIVR attuerà sulla attività, nel triennio 2001-2003, di tutto il sistema di ricerca italiano (università, enti pubblici di ricerca, progetti speciali finanziati dal MIUR).

 

Il disegno di legge Gelmini vuole realizzare una università che fornisca un buon servizio pubblico, l’educazione terziaria. [...] Il decreto però abbandona l’università come luogo di produzione di ricerca.

[...]

L’università vive se è il luogo di produzione di ricerca eccellente.

 

In tutto il mondo l'istruzione terziaria non è solo Università, l'Università non è solo Università eccellente, l'Università eccellente non è solo eccellente nella ricerca, e l'Università eccellente nella ricerca non lo è necessariamente in quella di frontiera, che si misura con pubblicazioni, magari (?) nelle sole riviste ISI.

Perchè si dovrebbero adottare canoni bizzarri solo per l'Italia? Per fare come avrebbe voluto la Moratti con la scuola, cioè fare un'istruzione secondaria con soli Licei?? Per fortuna quel progetto non andò in porto, ma causò un'impennata di iscrizioni nei Licei a danno di Istituti Tecnici e Professionali, con il bel risultato di acuire la carenza di periti e tecnici necessari al sistema produttivo italiano (oltre a svilire l'immagine dell'istruzione tecnica). Con il sistema produttivo italiano che ci ritroviamo, invece, si dovrebbe adottare la strada inversa per l'istruzione terziaria, istìtuendo anche un canale di formazione professionalizzante anzichè puramente accademico. Per dirla tutta, le Università italiane hanno provato loro a buttarsi anche in questo settore con il ben noto allargamento dell'offerta formativa, ma non ne avevano nè la missione, nè soprattutto - diciamocelo chiaramente - la capacità. L'Università Italiana ha sempre voluto essere "formalmente" Accademia, giammai lasciare spazio ad un "collegio politecnico" che le si affiancasse, per attuare una diversificazione reale e non raffazzonata della proposta didattica. Per colmo di scarogna, poi, l'eventuale tentativo ben riuscito in varie realtà locali non sarebbe stato (ancora) notato/ricompensato, nel diluvio di critiche cieche e strumentali - prive di valutazioni puntuali e qualitative.

La posizione esposta nell'articolo rafforza la solita anima conservatrice dell'Accademia Italiana, che vuole sentirsi unica e indistinta portatrice dei valori storici e sempiterni dell'"U-ni-ver-si-tà".

RR

P.S.: la discussione in VII Commissione del Senato sugli emendamenti all'Art. 1 ha già prodotto una convergenza sulla reintroduzione della ricerca al pari della didattica come "mission" dell'Università italiana. Quindi il tentativo gelminiano, che era stato anche descritto nelle bozze del Piano Nazionale della Ricerca (pag. 32):

- nell’ambito degli Atenei, differenziamento delle eccellenze formative da quelle di ricerca. Il riordino universitario potrebbe prevedere Università dove la didattica (teaching university) rappresenta il 90% dell’attività e Università (research university) dove il 50% delle attività sono di ricerca

 

è già quasi abortito. D'altra parte l'idea era stata raccolta solo dal gruppo delle Università AQUIS, in un loro documento di Novembre.

 

 

 

La posizione esposta nell'articolo rafforza la solita anima conservatrice dell'Accademia Italiana

Piuttosto il contrario: l'anima conservatrice dell'accademia italiana si alimenta del sottosviluppo della ricerca e dell'asserita invalutabilita' quantitativa della stessa. Cioe' le cose contro le quali l'articolo prende netta posizione.

Rustichini e Potestio affermano:

 

[...per l’università. Vediamo che il problema vero, non è una didattica scadente, ma una ricerca debole....[

[...perdendo di vista il vero male, che è un altro. L’università vive se è il luogo di produzione di ricerca eccellente....]

[...Il disegno di legge dovrebbe enunciare chiaramente l'obiettivo a regime della quota del finanziamento degli atenei che va alla ricerca nonché il piano per raggiungere questa quota...]

[...parte di questa quota debba contenere anche incentivi personali per i ricercatori....]

Queste sono, secondo noi, le cose da fare;

 

Personalmente mi permetto di dissentire e se mi è consentito anche di sostenere che l'analisi non mette bene a fuoco l'idea generale e i principi che muovono detta riforma Gelmini.

Avevo imparato che le riforme si fanno con i soldi, ora “la coraggiosa proposta fatta della Gelmini, introducendo (due) elementi fondamentali e rivoluzionari” (cit. Zingales dall'Espresso 11/2009), di soldi ne toglie anziché mettercene e ancora peggio li toglie a tutti “buoni e cattivi”.

Ogni discussione “pro o contro” la situazione dell’università italiana credo debba partire dall’evidente premessa che la suddetta sia largamente sotto finanziata, cioè a dire la percentuale del PIL spesa dai vari Paesi “a noi affini” nell'istruzione terziaria (universitaria) è al di sopra dello 0,9% del PIL speso dall’Italia, quando la media dei paesi OCSE è dell'1,4%.

Questo è il problema principale, il nodo attorno a cui ruota l'esistenza futura dell'intera università italiana. Come si può pensare di fare buona didattica e buona ricerca se si è malpagati e malfinanziati?

Molti sanno che tanti atenei sono al collasso finanziario, (ad es. i tre atenei toscani e Trieste giusto per fare nomi, a cui entro il 2012 si uniranno molte altre università). Bene, nessuno si è mai chiesto come mai (nonostante tutte le storture, gli imbrogli, le inefficienze denuncite sui giornali e anche su questo sito), queste università (Siena, Pisa, Firenze, Trieste) così fortemente indebitate portano al loro interno molte eccellenze? (si pensi magari solo a Pisa, alla sua medicina e alla classe di scienze). Ci sarà una minimima correlazione tra spesa e produzione scientifica? Ora come si fa a parlare di incentivi quando una riforma è fatta a costo (sotto)zero (prevede infatti tagli progressivi per i prossimi anni). Perchè anche questo avevo imparato tanti anni fa, zero diviso qualsiasi numero fa sempre zero. O si pensa di pagare gli incentivi facendo aumentare il fondo premiale dal 7% (si veda poi come è stato calcolato lo scorso anno), al 30% dell'FFO (così come auspica la ministra), sulla base di una valutazione Anvur? e gli stipendi degli amministrativi e tutto il resto come li si paga?

Il problema del finanziamento dell'università è un problema trascurato forse volutamente da più parti. Si inizi a dire che i finanziamenti destinati all'università e alla ricerca debbono passare dallo 0,9 ad es. al 2% del PIL, poi ricominciamo a parlare giustamente di professori fannulloni, imbroglioni, asini, ecc e di incentivi alla ricerca, di governance e altri concetti che diversamente suonano astratti e lontani da quello che è il nodo centrale del problema (ovviamente a mio modestissimo parere), ripeto quello del sottofinanziamento di tutta l'università italiana e in particolare della sua ricerca.

Si puo’ discutere all’infinito se le retribuzioni nell’ universita’ italiana siano basse o alte, perche’ la questione e’ imprecisa. Invece la discussione si conclude subito se si fanno affermazioni specifiche. Eccone due:

1. Le retribuzioni in Italia sono troppo uguali (perche’ sono, appunto, uguali per tutti e differenziate in sostanza solo per ruolo e anzianita’). Certo sono troppo uguali rispetto agli Stati Uniti.

Dalla prima segue una seconda conclusione:

2. Le retribuzioni che contano per influenzare gli esiti della competizione internazionale sono troppo basse. Immagina che l’ Universita’ di Milano voglia attirare una promessa dell’ economia, che ha un lavoro negli USA. O offre quello che offre a tutti con la stessa nzianita’, o dovrebbe elevare la retribuzione di tutti fino al livello della competizione. La seconda soluzione e’ impossibile, quindi si fa la prima cosa, che non funziona mai.

In fondo la questione e’ molto semplice. Immaginiamoci cosa sarebbe del calcio italiano per squadre se si imponesse che tutti i calciatori guadagnino lo stesso. Quali sarebbero le conseguenze di questa follia sono ovvie per tutti. Noi ci limitiamo a fare la modesta proposta che gli attaccanti sono pagati in base ai goals che fanno. Non e’ ideale, ma e’ meglio della follia che regna nel nostro calcio immaginario e nell’ universita’ italiana
reale.

Trovo il post largamente condivisibile nell’analisi, e particolarmente là dove si evidenzia la continuità tra l’opera dei due Ministri Mussi e Gelmini.  La parte propositiva mi sembra al contrario di una estrema povertà, risultando incomprensibile come sia sufficiente valorizzare i Dipartimenti quali centri propulsivi di ricerca, per avere una svolta virtuosa. Per tradurre in termini reali quanto prospettato, sarebbe necessario avere dipartimenti direttamente finanziati dal Ministero o da privati e dotati di completa autonomia.   A questo punto non si capirebbe più quale sarebbe il loro ruolo nella didattica – che per molti corsi di laurea non può afferire ad un unico dipartimento -  e quale dovrebbe essere la consistenza numerica, o se si preferisce, la varietà disciplinare.

  Gli stipendi differenziati sarebbero un mezzo eccellente per migliorare la ricerca, ma mettere in piedi un meccanismo praticabile per classificare ciascun docente – visto che lo stipendio riguarda il singolo – non è semplice e sarebbero benvenute idee concrete.

  Il post soffre poi – ed è l’aspetto di maggiore insufficienza – di una contraddizione: giustamente si sottolinea come l’uguaglianza tra atenei sia in conflitto con l’eccellenza di alcuni tra essi, e tuttavia si sostiene con disinvoltura che solo il miglioramento della ricerca può salvare l’università italiana.

Ma si parla di un miglioramento generalizzato o riservato solo ad alcuni  atenei? Qui bisognerebbe avere idee chiare: se l’università è anche una scuola superiore che deve preparare quadri intermedi, le università specializzate in questa direzione potrebbero non eccellere nella ricerca, come avviene in molti altri paesi. Così, la battaglia per differenziare gli atenei dovrebbe avere la precedenza su tutto.

   E per finire sulla governance: rafforzare i poteri del rettore è davvero un’idea perversa. Anche qui non si capisce dal post quali siano le soluzioni possibili per limitare questo potere. Uno degli emendamenti Valditara risponde a questa esigenza proponendo la sfiducia nei confronti del rettore da parte del Senato. L’unica  arma decisiva contro l’eccesso dei poteri del vertice sarebbe quella di un consiglio di amministrazione composto da persone non facenti parte dell’accademia, cosa che già avviene nelle università private od in quelle USA.  Nel caso nostro sorge lo spettro della lottizzazione, capace di far morire sul nascere qualsiasi (buona) idea.

Sono anni che discuto della politica dell’ Universita’, e ho raggiunto la conclusione che e’ meglio puntare su alcune proposte, limitate e precise, piuttosto che esporre un disegno organico elegante e articolato.

Delle poche proposte che elenchiamo alla fine, una qualsiasi provocherebbe una trasformazione profonda dell’ Universita’ italiana. Basta pensare a quanta resistenza incontrerebbe, e che effetti produrrebbe, una retribuzione differenziata sulla base della ricerca.

Forse mi sbaglio, ma la discussione mi pare piu' chiara cosi'.

 

 

Questo è il problema principale, il nodo attorno a cui ruota l'esistenza futura dell'intera università italiana. Come si può pensare di fare buona didattica e buona ricerca se si è malpagati e malfinanziati?

 

 

L'università sarà sempre malpagata e malfinanziata se i soldi saranno utilizzati per aumentare il numero dei professori e/o i loro salari come è successo negli ultimi trent'anni. Cf. per i dati

www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/1704

 

Giovanni Federico scrive:

   L'università sarà sempre malpagata e malfinanziata se i soldi saranno utilizzati per aumentare il numero dei professori e/o i loro salari come è successo negli ultimi trent'anni.

Io non confonderei i due piani, cioè quello del sottofinanziamento dell'istruzione terziaria che fa dell'Italia un paese in via di "sottosviluppo" con quello dell'utilizzo dei fondi.

L'italia investe molto meno degli altri paesi dell'area ocse in istruzione universitaria e ricerca ( e questo è un fatto).

Le riforme, particolarmente quelle che tendono a trasformare l'università in libera impresa, si fanno con i capitali, cioè mettendoci soldi non tagliando i fondi (anzi il fondo: è uno solo, quindi va al singolare).

Partiamo da questo presupposto, e partano da questo presupposto i tanti Minosse lombardi che nelle loro giuste denunce non sempre hanno reso un buon servizio all'università. Poi (immediatamente dopo che la percentuale del Pil investito in istruzione terziaria e ricerca è passato ad un valore al di sopra della media ocse), si parlerà di come malamente è redistribuito questo fondo, di come i professori siano dei buoni a nulla, capaci solo di autopromuoversi e aumentarsi gli stipendi, si discuterà di incentivi e di governance senza il rischio di avere una visione onirica dei fatti.

intanto la corte dei conti ha bocciato la laurea breve: troppi indirizzi frammentati

La Corte dei Conti, anzichè limitarsi a fare il proprio lavoro di vigilanza sulle revisioni contabili - e nelle Università c'è ampia materia per vigilare, come dimostrano i casi di Siena e simili - si è impancata a giudice accademico della qualità, producendo un rapporto di 170 pagine che ovviamente i giornalisti non hanno letto in toto, ma di cui sono circolate veline fatte a bella posta per produrre un profluvio di titoli sui giornali di oggi. E mettere i piedi nella discussione sul ddl Gelmini (che peraltro non tratta direttamente di ordinamenti didattici).

Se lo avessero letto, il rapporto, avrebbero (forse) scoperto che la Corte ha semplicemente copiato e incollato pezzi di un altro rapporto, quello del CNVSU, già noto da dicembre. Il quale rapporto faceva i soliti conti statistici sul numero dei corsi, ed altri simili valutazioni su scala sistemica, senza peraltro avere mai condotto quelle valutazioni istituzionali (nelle singole Università) che, sole, avrebbero potuto fornire dei giudizi di qualità "elementari" sulla progettazione didattica fatta, e sulla reale attuazione. Altri dati, un po' diversi (nel tenore e nel giudizio), erano invece stati forniti dalla banca dati AlmaLaurea. Quello sì, che è un lavoro fatto bene, sul campo.

I docenti universitari non sono certo immuni da critiche, ma non certo per aver applicato la riforma, casomai per non averlo fatto. Assumersi la responsabilità di essere i gestori dell'autonomia didattica, come teorizzato da molti - anche dai critici - significa innanzitutto saper fare quel lavoro lì, disegnare un profilo del corso, progettare un curriculo, garantirne la qualità e il suo miglioramento in modo continuativo. Ma i professori italiani hanno dimostrato invece di non sapere neanche cos'è un titolo di studio.

Però incaricare la Corte dei Conti di fare veline giornalistiche non è la soluzione, se ne rendano conto i commentatori volanti e la destra bavosa.

RR

 

 

I docenti universitari non sono certo immuni da critiche, ma non certo per aver applicato la riforma, casomai per non averlo fatto. Assumersi la responsabilità di essere i gestori dell'autonomia didattica, come teorizzato da molti - anche dai critici - significa innanzitutto saper fare quel lavoro lì, disegnare un profilo del corso, progettare un curriculo, garantirne la qualità e il suo miglioramento in modo continuativo. Ma i professori italiani hanno dimostrato invece di non sapere neanche cos'è un titolo di studio.

Si ma c'è un enorme moral-azzard, i docenti quanto meno per la mia esperienza, tendono a farsi i fatti loro a massimizzare la loro utilità, il ché spesso e volentieri significa fregarsene totalmente degli studenti. Una delle mie maggiori delusioni nei confronti dei miei docenti è stata vedere come hanno fatto i corsi delle nuove lauree. In cui al posto di avere lo studente al centro avevano i fatti loro al centro seppur vincolati, sta volta da un numero massimo di esami ed altri vincoli. Risultato i corsi non sono coerenti, sono pieni di esami messi li fine a se stessi, tali corsi ne abbassano notevolmente la qualità.

Si ma c'è un enorme moral-azzard, i docenti quanto meno per la mia esperienza, tendono a farsi i fatti loro a massimizzare la loro utilità, il ché spesso e volentieri significa fregarsene totalmente degli studenti. Una delle mie maggiori delusioni nei confronti dei miei docenti è stata vedere come hanno fatto i corsi delle nuove lauree. In cui al posto di avere lo studente al centro avevano i fatti loro al centro seppur vincolati, sta volta da un numero massimo di esami ed altri vincoli. Risultato i corsi non sono coerenti, sono pieni di esami messi li fine a se stessi, tali corsi ne abbassano notevolmente la qualità.

Davide, sono d'accordo "statisticamente" con te sull'analisi elementare. Ma questa incapacità di gestire la didattica significa solo che, lasciati fare da sè, i professori sono come tutti gli altri componenti di questa società italiana a moralità limitata. Già lo sapevamo - e perchè andava meglio prima, con lauree che duravano 7-8 anni?

La risposta, dal mio punto di vista, è semplice (ma non viene fuori nei commenti e negli articoli): bisognava mettere la Vigilanza, la Valutazione Puntuale, come fanno nel resto del mondo. I professori Italiani non l'hanno mai voluta, perchè consentire a dei Panel di Valutazione di venire a vedere come fanno, chessò, il calcolo dei crediti, per non dire delle scelte dei corsi, la gestione delle prove d'esame, significa in partenza arrendersi all'evidenza. Che in qualche modo verrebbe fuori.

Rimaniamo in Europa, dove il "3+2" e' stato adottato quasi dappertutto, e vedremo che la situazione è ben diversa. Stiamo ancora più vicini, e andiamo dai cugini francesi, che hanno un sistema e un'amministrazione "concettualmente" simile. Chiediamo agli amici dell'AERES. Ma per i giornalisti italiani fare le ricerche è troppo faticoso.

RR

  E' necessario riconoscere che la didattica negli atenei italiani è piuttosto carente. Le cause di ciò - non correlabili in moltissimi casi alla qualità della ricerca - vanno individuate nelle carenze organizzative (comuni a qualsiasi istituzione del Belpaese) e principalmente alla mancanza di controlli da parte degli organi collegiali preposti. Per citare uno degli aspetti più rozzi, calendari di esami ed orari di lezione vengono decise - in parecchie facoltà - secondo le esigenze dei docenti, e non secondo quelle degli utenti. Un altro aspetto riguarda la scarsa comunicazione di tipo personale esistente tra docenti ed allievi, anche in quelle situazioni nelle quali esiste un rapporto numerico favorevole al contatto diretto. E' probabile che sia anche questo il prodotto di una scarsa attenzione da parte degli organi di controllo, che sono poi di tipo collegiale con un vertice elettivo. Anche la tradizione della lezione cattedratica potrebbe giocare un ruolo significativo. 

  Purtroppo, ben pochi dei soloni che discettano sull'università discutono questi aspetti "minori", capaci di rendere però buoni o cattivi i risultati, specie se riferiti alla maggioranza degli studenti.  

L'idea che ogni università debba essere di ottima qualità è una affermazione di principio tanto dannosa quanto assurda. Pensate: ogni macchina deve essere di ottima qualità, ogni paio di scarpe dev'essere di ottima qualità, ogni film o romanzo deve essere di ottima qualità, ogni albergo deve essere di ottima qualità ... Le università invece sì, chissà perché.

Quanta ideologia! Quanta vacuità! Gli autori sarebbero sicuramente bocciati ad un esame di Sistemi Educativi in una qualsiasi Università anche mediocre. Le Università devono essere sostanzialmente buone, questo si richiede. Mi sembra di ri-leggere il Perotti (in "L'Università truccata") quanto tentava di denigrare il controllo di qualità, in una pagina del suo libro, e invece stava descrivendo esattamente il sistema di accreditamento statunitense!! Su quella pagina stavo cadendo dalla sedia...

Gli autori farebbero bene ad informarsi meglio: in Europa non si ammettono istituti di istruzione superiore mediocri, e in America, pur potendo operare legalmente in alcuni Stati, non sono "de facto" considerati per ogni rilevante utilizzo successivo del rispettivo titolo di studio. Su questo non si transige.

Corre l'obbligo di indicare almeno una referenza - e di solito indico la competente Autorità Garante della Qualità del Regno Unito, la Quality Assurance Agency, di cui riporto qui il riassunto dei compiti, dalla home-page:

  • safeguarding the public interest in the sound standards of higher education qualifications
  • informing and encouraging continuous improvement in the management of the quality of higher education

Ma i professori italiani se ne fregano...

RR

 

 

Gli autori farebbero bene ad informarsi meglio: in Europa non si ammettono istituti di istruzione superiore mediocri

 

...e a me la pasta viene sempre buona! Ma cosa vuol dire? se tanto non c'e' controllo e' solo l'ennesimo riempirsi la bocca, no? Se l'europa non ammettesse universita' mediocri una buona fetta degli istituti italiani, spagnoli, tedeschi, portoghesi, francesi, etc, etc dovrebbe essere dichiarata fuori legge.

 

Anche in Italia per avere appalti pubblici ci vuole la certificazione antimafia. Lei ha una curiosa (ma non unica) incapacità a distinguere fra dichiarazioni ufficiali e realtà universitaria. Forse perchè è espertissimo delle prime e ha pochi contatti con la seconda.

A me sembra che il DDL Gelmini contenga prevalentemente chiacchiere che hanno una grande capacità di generare altre chiacchiere. L'unico aspetto rilevante è quello della prevista (e non immeritata) promozione della stragrande maggioranza  degli attuali ricercatori a professore associato. Questa operazione impegnerà tutte le risorse disponibili nei prossimi anni che sono le risorse provenienti dall'imminente pensionamento di un gran numero di percettori di alti stipendi. Non sarebbe nemmeno un errore se le promozioni comportassero uno spostamento dei docenti dalle sedi che ne hanno troppi alle sedi che ne hanno troppo pochi. Purtroppo però questo non avverrà, ed infatti l'utilizzazione delle risorse per le promozioni ne renderà impossibile una ragionevole ridistribuzione

 

A me sembra che il DDL Gelmini contenga prevalentemente chiacchiere che hanno una grande capacità di generare altre chiacchiere. L'unico aspetto rilevante è quello della prevista (e non immeritata) promozione della stragrande maggioranza  degli attuali ricercatori a professore associato. Questa operazione impegnerà tutte le risorse disponibili nei prossimi anni che sono le risorse provenienti dall'imminente pensionamento di un gran numero di percettori di alti stipendi. Non sarebbe nemmeno un errore se le promozioni comportassero uno spostamento dei docenti dalle sedi che ne hanno troppi alle sedi che ne hanno troppo pochi.

 

Probabilmente ne sai piu' di me ma dalle informazioni che ho io 1) non c'e' alcuna ope-legis 2) non mi e' per nulla evidente che potra' essere promossa la gran parte degli attuali ricercatori 3) non mi e' evidente che rimarranno tutti o in gran parte dove sono.

2) le promozioni sono comunque limitate da budget e punti-organico, e non mi e' chiaro a quale percentuale di ricercatori queste risorse consentono la promozione nei prossimi anni, prima che i posti siano sostanzialmente riservati ai nuovi ricercatori a termine.

3) la promozione di interni e' consentita per il 25% massimo delle posizioni (immagino ci sara' una lotta epocale per alzare questa percentuale). Possibile che ogni Ateneo avra' a disposizione 4 posizioni per ogni suo ricercatore?

Riguardo alla riforma in preparazione comunque mi pare buona cosa l'eliminazione del ricercatore, che diventa una specie di assistant professor a termine che se fa bene con elevata probabilita' diventa associato nella stessa sede dopo 5-6 anni.

Credo che il passaggio alla seconda fascia di docenza da parte dei ricercatori non sara' facilmente realizzabile. Nelle casse delle universita' entreranno molte risorse in meno. Il sistema italiano, poi, e' afflitto dal problema dell'etica, per cui quasi mai sono i migliori a vincere i concorsi. La "valutazione comparativa" non solo e' scarsamente applicata, ma a volte smaccatamente e spudoratamente calpestata. Non sono rari i casi di ordinari che sono diventati tali a prescindere dalle pubblicazioni (il ministro Brunetta, ordinario, ha dichiarato di essere un premio Nobel dell'economia mancato.... su Web of Science ha 3 pubblicazioni.... Tremonti manco una...). Il problema dell'etica e' decisamente primario (stendiamo un velo pietoso sulla qualita' dei dirigenti politici..). Negli scorsi anni i docenti universitari (non tutti) hanno, purtroppo, seguito l'esempio dei politici, pensando unicamente agli interessi personali a berve termine, con il risultato della moltiplicazione del numero di corsi di laurea e del numero degli ordinari, proprio con la logica del rafforzamento del proprio settore scientifico-disciplinare.

Le riduzioni del FFO sono notevoli. Per esempio, a Torino ci saranno 48 milioni di euro (M) in meno rispetto al 2009. Ed il 2009 e' stato gia' una mezza tragedia. A fronte di un FFO attuale di circa 250 M, il bilancio di 800 M ci dice che molte risorse arrivano dall'esterno (fondi di ricerca europei e contratti vari). Si restituisce allo stato 220 M (fra IVA e IRPEF), indicando che e' praticamente gia' a costo zero... Ma il vincolo sull'ammontare dei salari (90%) e' sul FFO (credo). L'ulteriore tagli e' significativo. Sarebbe stato molto piu' lungimirante, secondo il mio modesto parere, ridurre il numero delle universita' italiane che a tutt'oggi sono grossomodo 95 (mentre sono cresciute e di parecchio negli ultimi anni!), contando anche le "telematiche" e le private. Non sono contro le private, a patto che queste non usufruiscano dei contributi statali, cosa che ad oggi mi risulta succede, e che quindi riducono la fetta di finanziamento a disposizione di quelle pubbliche...

Al momento il rettore di Torino ha proposto un piano ambizioso di mantenimento dell'organico basato solo su presunti fondi extra che potrebbero arrivare dallo stato specificatamente per le universita' virtuose (Torino e' in cima alla lista di queste). Ammesso che Torino ci riesca, cosa della quale dubito fortemente, a causa della continua erosione dei fondi a disposizione, non vedo come le altre universita' italiane possano sostenere un passaggio in massa dei ricercatori alla seconda fascia.

Oltretutto, gli ordinari fra 70 e 72 anni, che dovevano andare forzatamente in pensione quest'anno, hanno vinto un ricorso nazionale per cui sono stati riimmessi in ruolo, con un aggravio ulteriore sulle casse universitarie.

Insomma, non vedo bene la situazione finanziaria italiana in genere, meno che mai quella universitaria....

Forse andro' fuori tema Gelmini, ma e' per dare un'idea delle condizioni al contorno che spesso rendono inapplicabili certe criteri che in altri paesi funzionano bene. Il problema dell'etica rimane, a  mio giudizio, fondamentale. Condivido il commento che la didattica va a traino della ricerca, solo che la ricerca in Italia non e' sostenuta e valutata come si dovrebbe. Manca totalmente un controllo a posteriori. I finanziamenti delle ricerca sono erogati (spesso) senza una vera valutazione del progetto, e paticamente sempre senza un controllo a posteriori della qualita' della ricerca fatta. Guarda caso sono sempre i soliti (alcuni assolutamente meritevoli) a prendere i finanziamenti, e non c'e' spazio per altri.

Per concludere, vedo il DDL Gelmini come una pericolosa deriva verso il federalismo/regionalismo, al quale saranno costrette le universita' strozzate dai tagli finanziari, che potrebbe risultare semplicemente in un maggior controllo locale da parte dei soliti. In qualche caso si potrebbe cadere bene (ottima ricerca), ma in altri si potrebbe cadere dalla classica padella alla classica brace ("boss" locale). Nella peggiore delle ipotesi saranno i politici locali a dettare le regole sulla ricerca.

Per quanto riguarda il ritorno dei "cervelli", sono pessimista. Ci sono stati negli anni scorsi delle posizioni riservate a ricercatori italiani all'estero, ma solo formalmente. Non mi risulta che si siano realizzate molti di questi ritorni. Alcuni, poi, come il direttore dell'istituto di tecnologia di Genova di recente isituzione, rientrato dagli USA dove dirigeva fior fiori di laboratori biologici, e' stato licenziato perche' non in linea con le posizioni politiche (insomma, i politici volevano decidere chi assumenre).

Scusate se sono stato prolisso...

 

Per concludere, vedo il DDL Gelmini come una pericolosa deriva verso il federalismo/regionalismo, al quale saranno costrette le universita' strozzate dai tagli finanziari, che potrebbe risultare semplicemente in un maggior controllo locale da parte dei soliti. In qualche caso si potrebbe cadere bene (ottima ricerca), ma in altri si potrebbe cadere dalla classica padella alla classica brace ("boss" locale). Nella peggiore delle ipotesi saranno i politici locali a dettare le regole sulla ricerca.

 

Questa e' una caratteristica intrinseca del federalismo, ma la soluzione e' semplice: andare a lavorare in un'altra universita' meglio gestita. E' piu' facile di quanto non sia espatriare per sfuggire a una malamministrazione uniforme su scala nazionale.

Si, ma il federalismo USA ha un senso. Gli Stati sono grossi quanto l'intera Italia... Inoltre, gli stipendi sono gli stessi in tutta Italia, e la costituzione non prevede che possa essere altrimenti. E andare a toccare la costituzione in questo periodo non mi sembrano fra le idee piu' felici...., difficilmente attuabile, considerando le lotte interne (Fini-Berlusconi) e l'opposizione che ha deciso praticamente di fare harakiri....

Quanto alla mobilita'... magari!!!! Ma lo stesso bilancio delle universita' fa si' che un passaggio di carriera, se interno alla stessa universita' sia gia' economicamente complicato, ma che diventi economicamente molto poco sostenibile se avviene fra universita' diverse (costa molto meno il delta piu' che un nuovo dipendente). Senza contare che la mobilita' del lavoro in Italia e' molto piu' difficile che negli USA.

Secondo me, saro' ripetitivo, il problema morale ed etico e' prioritario a tutti gli alti livelli della societa'. Senza tener conto di questo si rischia che qualunque buon intento vada alla malora prima ancora di nascere.

Aggiungo un punto di riflessione sulle proposte del Governo in materia Universitaria. Da una parte si tagliano i fondi alle università pubbliche, dall'altra si annuncia (lo scopro casualmente) che vi sarà una nuova Università del pensiero Liberale che sarà aperta a Villa Gernetto, la villa settecentesca acquistata dal premier.

Notizia apparsa sul Sole24ore col titolo "Berlusconi: Putin sarà il primo docente all'Università del pensiero liberale". Stento a crederci...

 

Questa è la ragione per cui non mi piace definirmi liberale. In Italia il termine è privo di significato. Suppongo che dopo Putin faranno parlare qualche rappresentanza, antica o moderna, dei repubblichini.

In questo appello, si sostiene ancora una volta che "senza un solido collegamento con la ricerca, una buona didattica è impossibile".

Posto che questa affermazione non è sicuramente condivisa da ameriKani, inglesi, e molti altri (quasi tutti) visto che hanno un sistema d'istruzione superiore parecchio diversificato, colgo l'occasione per ribadire, a chi fosse interessato (non agli appelli, di natura senz'altro politica), che il consenso del dibattito politico internazionale quale risulta dallo stato dell'arte della ricerca non supporta l'affermazione di cui sopra. Certo, forse ci vorrebbe "un solido collegamento con la ricerca" per farlo sapere anche agli italiani, comunque rimane il dubbio su cosa si dovrebbe fare, secondo gli estensori dell'appello, con quei Dipartimenti che risultassero ai loro occhi (informati da qualche CIVR, beninteso), scarsi nella ricerca. Forse chiuderli, immagino. Ministerializzando i dipendenti, come con l'ISAE o l'ISPESL.

RR

Dipende dal tipo di didattica che si vuole fare.... Al liceo non serve la ricerca.

Ma mentre la didattica (universitaria) puo' andare al traino della ricerca, l'opposto non si verifica mai.

 

 

In questo appello, si sostiene ancora una volta che "senza un solido collegamento con la ricerca, una buona didattica è impossibile".

Posto che questa affermazione non è sicuramente condivisa da ameriKani, inglesi, e molti altri (quasi tutti)

 

forse non ti ho capito bene cosa intendi, ma per quanto riguarda UK non sono mica tanto d'accordo: che di fatto ci siano dipartimenti/universita' che siano prevalentemente teaching oriented si, ma come linea di indirizzo c'e' sempre il presupposto che le universita' siano fortemente research oriented, e il funding che prendi o meno in base ai risultati di quello che ora si chiama "Research Excellence Framework" sono fortemente condizionanti (al punto che un dipartimento che non va bene sotto quel profilo puo' essere tranquillamente chiuso, i meno research active mandati in pre-pensionamento, gli altri riassorbiti da altri dipartimenti: ed e' successo).

 

Approfitto del post precedente che riprende il discorso Gelmini, per sottolineare come piu' volte qui su nFA si sia ribadito che uno stato che rende retroattive certe leggi non rappresenta uno stato di cui ci si puo' fidare. Si era discusso sullo scudo fiscale che ha fatto rientrare capitali "poco puliti" dall'estero, e che non e' corretto tassare ORA quei capitali che sarebbe stato logico tassare PRIMA.

Invece, il DDL Gelmini sembra che contenga una norma non chiarissima, ma che si presta ad interpretazioni negative. L'art. 9 c. 4 fissa un tetto retroattivo per gli incrementi stipendiali conseguiti nel biennio 2008-2009, stabilendo che non si possa aver superato il 3,2 %, per effetto dei "rinnovi contrattuali del personale dipendente dalle PA" ... e dei "miglioramenti economici del rimanente personale in regime di diritto pubblico".

Mi pare che rendere retroattiva questa norma su accordi e contratti già conclusi, sia illogico e soggetto a ricorsi. Soprattutto se gli aumenti sono stati stabili per legge.

Forse ne avete già parlato, nel qual caso me ne scuso, ma vorrei richiamare la vostra attenzione sull'art.44 del dl. 31/5/2010 n. 78 - "Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica" - che recita:

 

Art. 44

(Incentivi per il rientro in Italia di ricercatori residenti all’estero)

1. Ai fini delle imposte sui redditi è escluso dalla formazione del reddito di lavoro dipendente o autonomo il novanta per cento degli emolumenti percepiti dai docenti e dai ricercatori che, in possesso di titolo di studio universitario o equiparato e non occasionalmente residenti all’estero, abbiano svolto documentata attività di ricerca o docenza all’estero presso centri di ricerca pubblici o privati o università per almeno due anni continuativi e che dalla data di entrata in vigore del presente decreto ed entro i cinque anni solari successivi vengono a svolgere la loro attività in Italia, acquisendo conseguentemente la residenza fiscale nel territorio dello Stato.

2. Gli emolumenti di cui al comma 1 non concorrono alla formazione del valore della produzione netta dell’imposta regionale sulle attività produttive.

3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano a decorrere dal primo gennaio 2011, nel periodo d’imposta in cui il ricercatore diviene fiscalmente residente nel territorio dello Stato e nei due periodi d’imposta successivi sempre che permanga la residenza fiscale in Italia."

 

 

Non so come la vediate voi ma a me pare che il criterio stabilito al comma 1 per definire il ricercatore meritevole di incentivo per il rimpatrio non sia particolarmente stringente. O sbaglio?

Grazie per la segnalazione.

No, davvero non molto stringente.

documentata attività di ricerca o docenza all’estero presso centri di ricerca pubblici o privati o università per almeno due anni continuativi

Non ci sono condizioni sulla ricerca condotta, e basta aver insegnato corsi elementari.

In questo modo si selezionano i ricercatori che vanno all'estero per un periodo di studi/vacanza, si ottengono delle statistiche positive che dimostrano che si e' posto rimedio al brain drain, e non si cambia nulla della sostanza. Questo e' il vero difetto: che si fa finta di aver affrontato un problema.

 

Il comma 1 cerca, mi sembra, di definire il concetto di 'rientro' (ovvero di 'residente all'estero'), non quello di 'meritevole'. In linea di principio questo sarebbe corretto: ci penserebbero poi i singoli istituti a selezionare, nel loro interesse, i migliori. Non c'e' bisogno che sia il legislatore a stabilire i criteri di bonta'.

Ovviamente, come sempre in Italia, e' qui che casca l'asino: siccome il sistema non e' generalmente costruito in modo da dare forti incentivi alle universita' per selezionare i migliori, la cosa non funzionera'.

Mi fa piacere leggere su ilsole24ore un articolo di Alessandro Figà Talamanca dal titolo "I risparmi non devono «bruciare» la riforma" in cui fondamentalmente si ribadisce quanto espresso un po' di tempo fa: i tagli dei salari agli universitari sono iniqui perchè si tagliano prevalentemente quelli dei più giovani (ricercatori ed associati) che all'inizio di carriera sono fortemente penalizzati, mentre i salari degli ordinari con maggior anzianità (che potrebbero sopportare meglio il taglio allo stipendio, visto che il loro è piuttosto elevato anche per meriti di semplice anzianità) lo sono decisamente meno. Lo stesso concetto è ripreso anche su un altro articolo, sempre sul sole, dal titolo "Nelle università più tagli agli stipendi dei giovani docenti".

Ora mi pare di poter concordare con Alessandro Figà Talamanca.

Riprendo questo vecchio thread per evidenziare come le paure allora esposte si stiano drammaticamente verificando. Qui non si tratta di tagliare gli stipendi, ma di farlo con criterio.

A parte la classe dei docenti universitari, quale altra classe della pubblica amministrazione ha subito o sta subendo dei tagli in maniera così regressiva ed iniqua? I magistrati, dopo la protesta, pare abbiano recupereranno i mancati scatti. I tagli ai politici pare siano scomparsi (qualcuno ha notizie?). Insomma, pare che i soli a pagare pesantemente la crisi nella PA siano i docenti universitari.

 E' così?

Su lavoce.info un interessante articolo di Massimo Baldini ed Enza Caruso, da leggere...