Il capitale della Banca d’Italia. Una breve storia

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Nel furore della pugna, qualcuno forse si sarà posto due domande: i) ma perché le banche private possiedono la Banca d’Italia?; ii) quanto hanno reso le azioni della Banca d’Italia nel tempo? Oggi rispondiamo alla prima. Domani, Francesco Lippi e Brighella risponderanno alla seconda

 La Banca d’Italia fu fondata nel 1893, ma le sue origini risalgono a ben prima dell’Unità*. Ciascuno stato pre-unitario aveva una o più banche con diritto di emissione. Quella del Regno di Sardegna era stata fondata nel 1844 come Banca di Genova da un gruppo di finanzieri e mercanti, prevalentemente genovesi, ed aveva assunto il nome di Banca Nazionale Sarda nel 1849. Si trattava di una ditta privata, anche se sottoposta al controllo del ministero del Tesoro, che svolgeva anche attività bancaria, pur con alcuni limiti statutari. Raccoglieva depositi senza interessi e faceva prestiti commerciali a breve (sconto cambiali). I profitti derivavano dalla differenza fra gli interessi ricevuti ed il costo di produzione dei biglietti, più, in regime di gold standard, il costo-opportunità delle riserve auree. La banca infatti aveva l’obbligo di detenere in riserva una quantità di oro (a reddito nullo) pari almeno al 30% dell’emissione per garantire la convertibilità in oro dei biglietti. In realtà il Piemonte e l’Italia rimasero nella maggior parte degli anni in regime di non convertibilità (corso forzoso), aumentando i  profitti delle banche di emissione (in parte appropriati dal governo con complessi accordi). Le loro azioni erano quotate in borsa e gli azionisti ricevevano un ‘normale’ dividendo. Più o meno questo era il modello delle altre banche con diritto di emissione, italiane ed estere.

Dopo accesi dibattiti, il neonato regno d’Italia decise di mantenere l’autonomia delle banche di emissione degli stati pre-unitari, pur con una posizione preminente della Banca Nazionale (rinominata ‘nel Regno d’Italia’). Dal 1861 al 1893, rimasero, oltre alla Banca Nazionale, la Banca Romana, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito (i toscani, si sa, sono litigiosi e non si mettono mai d’accordo fra loro), il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia. Il modello di business rimase misto, parte pubblico (diritto di emissione secondo le direttive del Tesoro) e parte privato (finanziamento a breve con sconto cambiali, investimento in titoli di stato). Nel 1893 scoppiò un grave scandalo alla Banca Romana, che aveva finanziato generosamente politici e faccendieri vari, emettendo biglietti doppi, cioè falsi ed era sull'orlo del fallimento. Nel modello 'misto', investire in azioni delle banche di emissione implicava un rischio, anche se il signoraggio forniva parte dei profitti. Infatti gli azionisti delal banca Romana persero il loro investimento.

La crisi offrì la possibilità di una razionalizzazione. La Banca Romana e le due banche toscane furono fuse nella Banca Nazionale, che assunse il nome di Banca d’Italia. Il capitale di quest’ultima venne redistribuito ai soci (privati) delle banche assorbite. Nei decenni successivi, la Banca, sotto la guida di Stringher, seguì una politica di impieghi molto prudente, per assorbire  il pesante onere della liquidazione delle perdite della Banca Romana, ma nello stesso tempo acquisì notevole prestigio ed indipendenza operativa, con un ruolo crescente di guida e finanziamento del sistema bancario (p.es. durante la crisi finanziaria del 1907 e durante la guerra). Tale ruolo fu però riconosciuto solo dalla riforma bancaria del 1926, quando il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia persero il diritto di emissione e la Banca d'Italia assunse il compito di vigilanza sul sistema bancario. Formalmente, continuò anche l’attività bancaria alla clientela privata, che però perse sempre più importanza nel suo bilancio. Due anni più tardi, nel 1928, il capitale della Banca d’Italia fu aumentato ed entrarono per la prima volta istituti pubblici, casse di risparmio e monti di pietà, con una quota del 20%. A differenza di quelle dei privati, le loro azioni non erano trasferibili.

Arriviamo al 1936 ed alla legge bancaria, partorita dalla grande crisi che aveva fatto fallire tutte le principali banche commerciali, salvate dall’IRI. La legge completò il processo di trasformazione della Banca d’Italia in una banca centrale pubblica nella definizione moderna. Fece cessare l'attività bancaria al pubblico: da allora in poi tutti i profitti derivarono dal signoraggio, senza più riserva obbligatoria in oro, essendo la lira formalmente inconvertibile.  Il valore nominale delle azioni fu fissato in 1000 lire, di cui però solo 600 versate, per un totale di 300 milioni (da cui i famosi 156000 euro). I soci privati vennero liquidati con  1300 lire per azione, contro 1727 dell’ultima quotazione di borsa, sulla base di un valore patrimoniale, al netto degli immobili, di 1285 lire. Le azioni furono trasferite a 'enti morali e istituti che non erano di diritto privato', le casse risparmio e monti di pietà, e ad istituzioni finanziarie di proprietà pubblica, cioè l’INA e le cosiddette ‘banche di interesse nazionale’ (Credito Italiano, Banco di Roma e Banca Commerciale). Alla fine del processo, le casse di risparmio si trovarono col 61.7% del capitale e le altre istituzioni col 38.3%. La legge ammetteva la negoziazione di azioni ma solo fra gli istituti autorizzati, ed in pratica la distribuzione del capitale è rimasta invariata da allora. In sostanza, anche se formalmente una società per azioni, la Banca d'Italia era un ente pubblico. Il dividendo era una partita di giro fra istituzioni pubbliche. Inoltre, come più volte ricordato, i soci non avevano alcun potere di gestione: si limitavano ad incassare una mancia, che, come si vedrà nel prossimo post, rimase esigua fino agli anni Novanta.

La Banca d’Italia è ritornata di proprietà privata a seguito della privatizzazione delle banche di interesse nazionale e della quasi-privatizzazione delle casse di risparmio con la legge Amato-Ciampi. Chiaramente queste decisioni andavano contro lo spirito della legge bancaria per quanto riguarda la proprietà della banca d’Italia  Mi domando se al momento della stesura di queste leggi qualcuno abbia sollevato il problema. Come noto, quasi tutte le casse sono stata poi assorbite dai due grandi gruppi bancari, Intesa e Unicredit, che quindi ora detengono la maggioranza della Banca d’Italia. Proprio negli anni Novanta, in coincidenza (casuale?) con questo processo, il dividendo distribuito dalla Banca è aumentato moltissimo.  Riassumendo, la Banca d’Italia è stata per circa un secolo un ibrido, parte banca e parte istituto di emissione, di proprietà privata e per sessant’anni una banca centrale di proprietà pubblica. E' tornata ad essere di proprietà privata, senza cambiamenti sostanziali nel suo modus operandi, come conseguenza (involontaria?)  delle privatizzazioni. 

 

*Le informazioni sono tratte principalmente da L. Conte La Banca Nazionale (Napoli 1990) e Angelo de Mattia Storia del capitale della Banca d’Italia (Roma 1977)

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Commenti

Ci sono 15 commenti

Vorrei sapere come si esplicherebbe la cosidetta "proprietà privata" della banca d'italia, allorquando la partecipazione dei vari istituti bancari era limitata a delle quote di capitale (non liberamente trasferibili) pari a miserrimi 300 milioni di lire (miserrimi a confronto delle risorse finanziarie complessive della banca d'italia, sulle quali i partecipanti al capitale non potevano in alcun modo liberamente disporre).

Non capisco cosa intende. A quale momento della storia si riferisce? Cosa intende 'si esplicherebbe'?

Mi permetto di copiare la porzione di un commento che ho appena postato nella discussione relativa a "Le quote Bankitalia: la solita porcata", vista comunque l'attinenza all'argomento. Ed anche perché vorrei dargli maggiore risalto, a traino di questo nuovo intervento, e magari avere qualche feedback. Chi è interessato al resto (era un ragionamento più articolato) può vedere il post originario. Ringrazio Marco Ardemagni per gli utili spunti di discussione.

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A mio parere non è vero che la nuova legge rende definitivi ed irreversibili, dei vantaggi arbitrariamente concessi alle banche. Anzi, questa è forse la soluzione più flessibile, perché non comporta alcun esborso per lo Stato.

Da un punto di vista di net present value, la dividend policy, attuata dal 1999 in poi vale €7.5 miliardi. Abbiamo già detto che questa valorizzazione entrerà ufficialmente a bilancio delle banche e contribuirà al loro rafforzamento patrimoniale, senza che oggi ci sia alcun reale trasferimento monetario. Anzi, sappiamo che lo stato incamera la tassazione della plusvalenza, quindi è un’operazione che libera cassa.

Immaginiamo che, tra due anni, il governo cambi idea e modifichi lo statuto della BdI e (dopo una complessa battaglia politica ed, eventualmente, legale sull’argomento, dato che l’ABI presumibilmente non starà a guardare) riduca il tetto massimo dei dividendi allo 0.1% delle riserve (ritornando, di fatto, alla dividend policy pre Fazio). Tutto questo avrà due semplici effetti: le banche saranno costrette ad aggiornare in bilancio il valore della quota, riducendolo ad un quinto di quello precedente; sulla base di questa minusvalenza, le banche pagheranno meno tasse (di fatto gli verranno restituiti i 4/5 della tassazione versata oggi). Ovvero, una vera e propria marcia indietro. Chiaramente, sarà necessario che la manovra venga adeguatamente prevista nella legge finanziaria, per supplire a queste minori entrate.

Unica complicazione, se la vendita della partecipazione da parte di Intesa o Unicredit a soggetti terzi fosse già avvenuta, essi incorrerebbero in un danno e pretenderebbero un risarcimento. Va detto che i potenziali acquirenti delle quote sono istituzioni finanziarie sofisticate. Sarebbe strano se il contratto non prevedesse, come è norma in situazioni simili, una clausola di claw-back, che permetta di pretendere dal venditore un rimborso a causa delle modifiche legislative che riducono il valore della quota.

Questo dimostra che la misura approvata in Parlamento non è un trucco contabile, nè sancisce in sè un passaggio di risorse dall'erario alle banche, adattandosi in modo neutro ai dividendi già percepiti dal 1936 ad oggi. Nel momento in cui, questo o un nuovo governo, volesse riconsiderare la dividend policy della Banca d'Italia, sarà in grado di farlo liberamente senza pregiudizio.

Lei è eccessivamente benevolo sulla riforma, mi perdoni.

Vero che fra un anno la legge può porre limiti diversi. Ma il punto della legge è stabilire una norma, uno status quo, e gli status quo sono difficili da cambiare. Prima della riforma si sarebbe potuti passare da 70m l'anno  a 10 così come negli anni '90 si e ' passati da zero ai livelli attuali, più o meno, e nessuno avrebbe granché potuto dire niente (domani pubblicheremo la serie storica dei dividendi rintracciata da due collaboratori). La nuova norma dice che "70m, per sempre, vanno bene", anzi, temo che qualcuno troverà normale fra 20 anni "rivalutare" usando qualche sofisma come quelli che leggiamo in giro. 

Perché, capisce, è un sofisma dire che non si è sancito un passaggio di risorse dall'erario alle banche, con la scusa (immagino) che siccome la legge stabilisce un limite massimo, possiamo anche distribuire zero da domani ... tanto poi sono le banche si arrangeranno a rivalutare le quote in bilancio.

La legge ha stabilito che 70 milioni l'anno è il focal point. Se l'anno prossimo diventano zero, chi le vuole più quelle quote? Nessuno. Se la banca se le ricompra, a che cifra le ricompra? L'unica cifra accettabile è zero, ogni cifra superiore è un passaggio di risorse dall'erario alle banche. In questo senso, il passaggio di risorse c'è, a meno che non si decida, da domani, di smetterla di distribuire dividendi, per sempre, e di non ricomprare le quote a prezzi superiori a zero. Ma perché si dovrebbe decidere se la legge ha sancito il contrario, che 70m l'anno sono ragionevoli? La legge, insomma, ha sancito che va bene trasferire 7.5b alle banche (o come flusso di dividendi, o come prezzo di riacquisto). 

Perché, alla fin fine, quei 7.5b o 70m l'anno sono dell'erario, dei cittadini. Fino agli anni '90 nessuno ha discusso questo fatto, che mi pare assodato dal punto di vista economico, ma oserei dire anche etico. Lo status quo sancito dalla legge  è che siano di qualcun altro. È questa la porcata, non era chiaro nel nostro post originale, credo, ma credo che questa discussione, di cui la ringrazio, l'abbia chiarito.