Bisturi, Provette e Valigie di Cartone: l'immigrazione negli USA

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Negli ultimi mesi il dibattito sull’immigrazione negli USA si è fatto, a dir poco, arroventato. Oggetto del contendere è una serie di proposte per riformare le leggi sull’immigrazione che, se da un lato intende rafforzare i controlli alle frontiere, dall’altro mira a legalizzare gli immigrati clandestini attualmente su suolo americano, ad istituire un 'guest worker program' per lavoratori temporanei, e ad aumentare le quote di visti per residenza permanente (le famose green cards). Questo dibattito può forse essere istruttivo anche nel contesto italiano.

Lunedi Primo maggio, mentre in buona parte del mondo i lavoratori

festeggiavano, negli Stati

Uniti centinaia di migliaia di immigrati manifestavano per esprimere il

loro sostegno a una serie di iniziative legislative che dovrebbero

legalizzare una buona parte degli attuali immigrati clandestini, e

aumentare i flussi immigratori - sia di braccianti sia di astrofisici,

medici, ingegneri, biologi - negli USA. Al tempo stesso, sul confine tra

Texas e Messico, i "Minutemen" ergevano una barriera di filo spinato

per dire che se non ci pensa il governo americano a fermare

l'immigrazione dal Messico, ci penseranno i cittadini.

Ci sono oggi negli USA circa 36 milioni di immigrati, ovvero il 12%

della popolazione complessiva. Di questi, quasi un terzo (circa 11

milioni) sono “unauthorized” o “undocumented”, insomma clandestini. Gli

immigrati “regolari” rappresentano dunque circa l’8.5% della

popolazione. In confronto, in Italia gli stranieri regolari sono quasi

tre milioni, ovvero circa il 4.8% della popolazione. Ma si sa, gli

Stati Uniti sono un paese di immigrati. E difatti l’attuale presenza

non è un fatto nuovo: anzi, agli inizi del ventesimo secolo la

percentuale di immigrati negli USA sfiorava il 15% della popolazione.

Se questo è lo stock, quali sono i flussi? Le stime più attendibili

parlano di un afflusso annuo di 350,000 – 600,000 clandestini, e di 6 –

700,000 regolari. La maggioranza degli immigrati clandestini proviene

dal Messico e, pur avendo livelli di educazione piuttosto bassi (uno su

due non ha finito le scuole superiori), sono tuttavia “selezionati”: la

percentuale di maschi messicani emigrati clandestinamente negli USA che

ha almeno 9 anni di educazione è circa il 50%, mentre fra i maschi

messicani residenti in Messico la percentuale è del 35%. Questa

statistica, in sé, non dovrebbe sorprendere: visto che emigrare

rappresenta comunque un costo (abbandonare la famiglia e gli amici del

bar dell’angolo, pagare $2,000 al coyote che ti fa attraversare di

nascosto la frontiera, trovare un lavoro e un posto per dormire, ecc.) è chiaro che chi emigra ha motivazioni, abilità, ambizione, livello

di educazione superiori a chi non lo fa.


E quali sono i benefici dell’emigrare? Il differenziale medio di

salario orario tra Messico e Stati Uniti, per un lavoratore

(clandestino) di 27 anni che a malapena ha finito le elementari, viene

stimato attorno ai 6-7 dollari. Il

calcolo del valore attuale netto sull’arco dell’intera vita lavorativa della decisione di

emigrare dal Messico agli Stati Uniti è complesso, e produce stime molto differenti a seconda delle ipotesi che si fanno sull'andamento futuro dei salari e sui tassi di sconto. Una stima rozza e approssimativa si aggira intorno ai 300.000 dollari. E questa è probabilmente una stima per difetto,

visto che presumibilmente le opportunità di mobilità sociale negli

Stati Uniti sono superiori a quelle in Messico.

Ma gli immigrati non sono solo i braccianti clandestini. Negli Stati Uniti arrivano anche i laureati, i medici, gli ingegneri, i biologi, i matematici, ecc. Tanto che la distribuzione per livelli di educazione della popolazione di immigrati e' bimodale (cioe' ha due picchi), come dimostra la figura qui sotto: se da un lato ci sono parecchi immigrati che non hanno neanche finito le superiori, dall'altro ci sono anche molti laureati o in possesso di Master e dottorati. E la percentuale di "cervelloni" fra gli immigrati e' addirittura piu' alta che fra i cittadini nati e cresciuti negli USA: 10.1% contro 7.5%.

 

 

educazione

 

 

Gli americani, però, non sono molto contenti di questa situazione. A

parte il fatto che proprio non va loro giu’ l’idea che chi viola la legge riceva poi un’amnistia, a parte le loro preoccupazioni

che gli immigrati non parlano inglese (vero, in parte) e poi aumentano

il tasso di criminalita’ (falso: gli americani DOC compiono più atti

criminosi degli immigrati), c’è la percezione che gli immigrati rubino

il lavoro ai cittadini americani - qui si distingue tra “foreign born”

e “natives”, il che fa un pò ridere perché di natives sono rimasti

solo due indiani (pellerossa, tanto per capirci) nelle riserve - e

deprimano i salari dei lavoratori americani, soprattutto quelli a bassi

livelli di educazione. Per non parlare di tutti i servizi sociali

(sanità, educazione, ecc.) che si sbafano gli immigrati clandestini

senza pagare le tasse.

Ma cosa dicono gli economisti di tutto ciò? Per

quanto riguarda l’impatto degli immigrati sulle opportunità di lavoro

e i salari dei natives, la stragrande maggioranza degli studi empirici

conclude che, sorpresa!, l’effetto è nullo, zero, zilch, nada. Questo

risultato si ottiene sia paragonando fra loro diverse città americane

con diversa intensità di immigrazione, sia esaminando episodi storici

di un improvviso forte afflusso di immigrati in una certa regione degli

USA (ad esempio, nella primavera del 1980 il Mariel boatlift da Cuba a

Miami fece aumentare di colpo la forza lavoro di Miami del 7%! Anche in quel caso salari e l’occupazione dei residenti non ne risentirono).

Certo, questo risultato empirico sembra un po' strano. Ma una

spiegazione (anzi, diverse) c’è. Primo, in un’economia aperta come

quella statunitense, se l’afflusso di immigrati fa aumentare l’offerta

di lavoro, il risultato è che cambiano i processi produttivi e il mix

di beni e servizi prodotti, ma non cambiano i salari. Per fare un

esempio, se a Los Angeles ci sono un sacco di immigrati dal Messico, il

risultato è che l’industria tessile di magliette a buon mercato

prospera (invece di finire tutta in Cina o in Vietnam), ma non che i

salari dei natives ne risentono.

La seconda spiegazione possibile è che, anche per un’occupazione e un

livello educativo dati, lavoratori immigrati e natives non sono

esattamente intercambiabili, ma sono piuttosto complementari.

L’immigrato porta idee, modi di lavorare, abilità specifiche diverse

da quelle del native, e la produttività ne trae beneficio. E quindi i

salari posso addirittura aumentare. Uno studio recente di Gianmarco

Ottaviano e Giovanni Peri trova che un aumento di lavoratori immigrati

pari al 6% della forza lavoro statunitense fa aumentare i salari medi

del 2%, grazie a questo meccanismo.

Per quanto riguarda invece l’impatto sui bilanci fiscali degli stati,

sul bilancio federale, e sulla fornitura di servizi sociali, le stime

indicano effetti negativi dell’immigrazione sui bilanci locali e

statali, positivi sul bilancio federale. Per esempio, siccome la

popolazione di immigrati è in media più giovane di quella native, gli

immigrati tendono ad influire positivamente sul bilancio della

previdenza sociale. La grandezza di questi effetti, tuttavia, è molto

piccola rispetto alle dimensioni del deficit pubblico (meno del 5%).

Queste stime sono però abbastanza semplicistiche: non tengono conto

per esempio, dei possibili cambiamenti di politica fiscale indotti

dall’immigrazione, oppure - a livello locale - dell’effetto degli

immigrati sui valori immobiliari e quindi sul gettito di tasse tipo ICI.

Ci

sono infine gli effetti “intangibili” dell’immigrazione sul paese ospite.

I nuovi arrivati portano con se nuove idee e nuove energie,

innovazioni, nuove imprese e intraprese. E come dice un famoso storico

(americano) di New York, Ken Jackson, New York City “…has been

unusually successful for almost four centuries because of its

heterogeneity, not in spite of it; because of its openness, not in

spite of it; and because of its immigrants, not in spite of them. […]

The constant infusion of new energy and ideas into the metropolis over

the years enabled New York to meet economic and technological

challenges that destroyed the prospects of competing cities.”

 

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