Moon, Mark Strand
Open the book of evening to the page
where the moon, always the moon appears
between two clouds, moving so slowly that hours
will seem to have passed before you reach the next page
where the moon, now brighter, lowers a path
to lead you away from what you have known
into those places where what you had wished for happens,
its lone syllable like a sentence poised
at the edge of sense, waiting for you to say its name
once more as you lift your eyes from the page
close the book, still feeling what it was like
to dwell in that light, that sudden paradise of sound.
*
Luna
Apri il libro della sera alla pagina
in cui la luna, sempre la luna, ancora appare
lì tra due nuvole, muovendosi piano, così piano che sembrerà
siano trascorse ore prima che possa voltare alla pagina seguente
lì dove la luna, più luminosa ora, fa approdare un sentiero
che ti conduca via da ciò che hai appreso
dentro i luoghi in cui tutto quello che avevi sperato si avvera,
la sua sillaba solitaria come un bisbiglio penzoloni
al margine del senso, ad aspettare che sia tu a pronunziarne il nome
ancora una volta staccando lo sguardo dalla pagina
chiudendo il libro, ancora sentendolo così com’era
quel sospendersi nella sua luce, quell’inatteso paradiso del suono.
*
Eating Poetry, Mark Strand
Ink runs from the corners of my mouth.
There is no happiness like mine.
I have been eating poetry.
The librarian does not believe what she sees.
Her eyes are sad
and she walks with her hands in her dress.
The poems are gone.
The light is dim.
The dogs are on the basement stairs and coming up.
Their eyeballs roll,
their blond legs burn like brush.
The poor librarian begins to stamp her feet and weep.
She does not understand.
When I get on my knees and lick her hand,
she screams.
I am a new man.
I snarl at her and bark.
I romp with joy in the bookish dark.
*
Mangiare poesia
Cola inchiostro dagli angoli della mia bocca.
Non c’è felicità pari alla mia.
Ho mangiato poesia.
La bibliotecaria non crede ai suoi occhi.
Ha gli occhi tristi
e cammina con le mani chiuse nel vestito.
Le poesie sono scomparse.
La luce è fioca.
I cani sono sulle scale dello scantinato, stanno salendo.
Gli occhi ruotano le orbite,
le zampe chiare bruciano come stoppia.
La povera bibliotecaria comincia a battere i piedi e a piangere.
Non capisce.
Quando mi inginocchio e le lecco la mano,
urla.
Sono un uomo nuovo.
Le ringhio, abbaio.
Scodinzolo di gioia nel buio libresco.
*
Traduzione di nc, 2009
Mark Strand e la metafisica dell’assenza
Mark Strand nasce nel 1934 a Summerside, nella Prince Edward Island in Canada, ma cresce negli Stati Uniti ed attualmente vive a New York. Il suo modo di fare poesia è abbattimento di regole e catene della tradizione lirica, la sua poesia si fonde alla prosa senza perdere il piacere della pausa, del respiro, del ritmo intrinseco alla narrazione stessa. La poetica di Strand penetra il pensiero tuffandolo e vestendolo di sogno e realtà, come un entrare ed uscire da un tunnel, come un meditare aprendo e chiudendo gli occhi …: verità e fantasia si fanno esperienza sensibile che si fonde al vissuto, cui egli dà le sue risposte attraverso i versi che assumono forme nuove, quasi un elenco di “pensierini” a volte, apparentemente semplici come innocue gocce d’acqua, che alla fine dell’intera lettura lasciano il segno sulle labbra come il tocco dell’acqua sulla nuda pietra.
Della semplicità si può fare arte complessa, quasi irraggiungibile: la perfezione della linea retta che si ricurva inseguendo dolcemente il suo percorso per poi puntualmente tornare diritta al punto di partenza. Una poetica delle domande, mi verrebbe da dire, in cui Strand si risponde scrutandosi, sempre interrogandosi sull’idea delle cose reali. Ne risultano risposte a volte apparentemente spezzate che racchiudono in sé il senso di un pensiero vasto e profondo che sembra non raggiungere mai se stesso, mai, fino a divenire anch’esso nuovo interrogativo, nuova ricerca, nuova meditazione, altra/alta poesia. Il senso dell’assenza come presenza piena, quasi metafisica, la descrizione della quotidianità che scorre nel tempo, nei giorni, uguale a se stessa, permea di un senso di tristezza versi che si arricchiscono di immagini potenti ed evocative senza risultarne appesantiti nella loro logica fluidità.
“fissare il nulla è imparare a memoria
quello in cui noi tutti verremo spazzati”
Un’attesa graffiante della morte, descritta con la nudità e la crudezza dell’esorcizzazione di chi la fissa dritta negli occhi con atteggiamento coraggioso e disilluso, aspettando senza fretta, gelidamente quasi, la propria fine. Di sé Strand dice di raccontare sempre la stessa «vecchia storia», quella «sui minuti che muoiono e le ore, e gli anni», la storia «di me stesso, di te, di tutti».
Tu sai, Natalia, che faccio fatica e resisto a commentare la poesia in pubblico - solo so leggerla, solo quasi sempre e ad alta voce quando il coraggio evapora la timidezza che altrimenti mi trattiene quasi sempre.
Ma le eccezioni hanno i loro diritti e, complice il mio essere "di turno", questa è una di quelle.
M'han preso, guarda tu il caso, questi tre versi così miei ORA che non so se piangere, ridere o solo scrivertelo, che è quel che faccio risparmiandomi così di far le altre due cose:
Eppoi, visto che ci siamo, per ragioni che non so quei tre versi m'hanno fatto ricordare degli altri (che con Strand non vedo cosa abbiano a che fare ma che stranded erano evidentemente nella mia mente), questi:
E, salutandoti, ti chiedo: ce lo leggi come sai fare tu quando te ne venga la voglia?
Io a volte l'ho letto da solo, molto da solo, sorprendendomi per come la campagna veneta che io conoscevo potesse assomigliare, nella mia mente e nelle sue parole, a quella palestina. Ma forse, appunto, forse l'ho letto troppo da solo ...