Introduzione
Il termine ''riforme strutturali'' è un po' troppo generico, per cui è opportuno precisare meglio di cosa si sta parlando. Intendo essenzialmente tre aree di intervento:
- Interventi di regolazione dei mercati. Solitamente i mercati più importanti che richiedono riforme regolatorie sono quello del lavoro e quello del credito. In Italia sono importanti anche gli interventi sui mercati dei beni e dei servizi.
- Interventi di finanza pubblica: livello e composizione della spesa, livello e composizione delle entrate fiscali.
- Interventi sull'organizzazione del settore pubblico, includendo le regole di funzionamento della pubblica amministrazione e la dimensione e composizione del patrimonio pubblico.
Visto che a nFA siamo persone cattive, inizio osservando i buchi più evidenti contenuti nel documento.
- Il documento non contiene una singola parola sull'assetto del sistema bancario e sul ruolo che in esso svolgono le fondazioni, principale strumento di controllo politico del credito. Questo è quantomeno singolare, dato che il documento lascia intendere che buona parte del crollo della domanda aggregata verificatosi in Italia è conseguenza di qualche forma di credit crunch, ossia di malfunzionamento del sistema finanziario. Italia Unica non sembra ritenere opportuno cercare di capire le cause strutturali di questo fenomeno, e non ritiene necessario ripensare la struttura di controllo delle istituzioni creditizie italiane. Ritiene invece che l'incapacità del nostro sistema creditizio di erogare credito possa essere rimediata con una maggiore presenza pubblica nel settore, espandendo il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti, in particolare nel ''rilancio del settore immobiliare e dei mutui per le famiglie'' (pag. 7), e del Fondo Centrale di Garanzia. In altre parole, la proposta per superare i problemi creditizi è quella di trasformare almeno un pezzo della CDP in qualcosa di simile a Fanny Mae. È evidente che i leader di IU nel mondo delle fondazioni bancarie si trovano completamente a proprio agio, ed è evidente che pensano che ciò che è servito ad alcuni di loro sul piano professionale possa servire al paese. Temo sia vero l'opposto.
- Nel documento non troverete alcuna proposta di riduzione della spesa pensionistica. Nella parte relativa alla riduzione della spesa pubblica si afferma di puntare a ''una riduzione tra il 5 e il 10% dei circa 500 miliardi di spesa pubblica non pensionistica'' (enfasi mia) grazie alle immancabili riduzioni degli sprechi e razionalizzazioni. Ma in realtà le cose sono anche peggiori. Vi è la richiesta esplicita di riduzione dell'età pensionabile, con un contributo a carico delle pensioni d'oro. Il pezzo rilevante è a pagina 17 e merita di essere citato per intero (le parti in grassetto sono nel testo originario).
Accelerare il ricambio di personale nelle aziende bloccando, almeno in questa situazione di crisi occupazionale, la crescita dell'età di anzianità per la pensione (41 e 42 anni, rispettivamente per donne e uomini, di anzianità appaiono già un livello più che sufficiente) e finanziando questa iniziativa attraverso un piccolo contributo di solidarietà a carico delle pensioni d'oro sopra un certo livello di ammontare e sotto un certo livello di contribuzione.
Passiamo ora alla disamina dei differenti campi di intervento.
Regolazione dei mercati
Abbiamo già commentato sul mercato del credito. Per il mercato del lavoro il documento propone (pagine 17 e 18) interventi abbastanza marginali: potenziamento del contratto di apprendistato, estendendone la durata e alzando a 35 anni il limite di età e blocco della crescità dell'età per la pensione di anzianità, come ricordato poco sopra. Ci sono un paio di petizioni di principio abbastanza ovvie, come ''facilitare la ricollocazone lavorativa attraverso vera formazione'' e ''rendere stabile e vincolante una chiara normativa sulla rappresentanza che dia garanzie di certezza dei contratti e della loro esigibilità''. Ottimi propositi, ma sospendiamo il giudizio in attesa di chiarimenti sull'attuazione. Dopotutto nessuno ha mai chiesto falsa formazione o una normativa oscura sulla rappresentanza, ma evidentemente il diavolo sta in dettagli che nel documento programmatico non sono presenti.
La principale proposta però non riguarda la regolamentazione del mercato stricto sensu ma la tassazione del lavoro. Vale la pena anche in questo caso di riportare la frase per intero.
Premiare l'aumento della produttività mettendo a disposizione delle imprese la possibilità di pagare fino a due mensilità di salario in più - senza contributi e tasse - a fronte di accordi di forte aumento della produttività a livello aziendale.
Questa è veramente un'idea delirante e vale la pena di spiegare in dettaglio perché lo è. Iniziamo osservando che non è un'idea nuova: è un provvedimento già vigente dal 2008, e recentemente rinnovato per il 2014. Non risulta che abbia prodotto alcun risultato misurabile. Questo può essere dovuto in parte anche alle modalità demenziali con cui il provvedimento è stato attuato: sono pochi soldi che di anno in anno i governanti trovano il modo di prorogare, un anno alla volta. È ovvio che in un simile quadro di incertezza normativa i comportamenti di lavoratori e imprese non possono cambiare gran ché. La proposta di Italia Unica è quella di estendere e rendere più corposo l'intervento.
Facciamo pure finta che questo sia possibile e che tutte le incertezze attuative viste finora vengano superate e le risorse reperite. Il punto è che, al di là della pessima attuazione, è l'idea in sé a essere sbagliata. Il sistema fiscale deve essere il più semplice e trasparente possibile e deve interferire il meno possibile nelle scelte degli agenti economici, quando non esiste una ragione evidente per farlo (ad esempio tasse per rendere più costose le attività inquinanti). Con questa misura invece si introducono complicazioni e distorsioni di cui non si vede lo scopo. È facile parlare di aumento della produttività, è molto più complicato definire le norme fiscali in modo che le riduzioni di imposte siano effettivamente indirizzate a tale scopo. Molto semplicemente, questa non è cosa che si può fare. L'unico risultato sarà di detassare la parte variabile del salario, a fronte di accordi sindacali che stabiliscano quali particolari attività possano essere detassate. La dinamica che ci si può attendere da questa regolamentazione è ovvia. Senza precise indicazioni legislative su cosa costituisce ''salario di produttività'' e cosa no, sindacati e imprese avranno incentivo a rinominare parte del salario in modo che sia detassabile anche se è parte della remunerazione ordinaria. A quel punto il fisco inizierà ad accorgersi che il programma è troppo costoso e inizierà a diramare circolari cercando di restringere il campo di applicazione. Forse interverrà il parlamento con altre leggine. Al ché sindacati e imprese cercheranno nuovi modi per aggirare le normative e godere delle detrazioni fiscali. E così via, di complicazione in complicazione, riducendo di volta in volta il senso e la coerenza del sistema fiscale.
Le distorsioni sono di due tipi. Primo, si distorcono le scelte contrattuali. La variabilità della retribuzione dovrebbe essere determinata in autonomia dalle parti sociali a livello di impresa, dove le informazioni sono migliori. È una scelta tra incentivazione e assicurazione che non c'è alcun bisogno di distorcere. Detto diversamente: per quale ragione al mondo, una impresa che decide di pagare un salario fisso ai lavoratori dovrebbe essere penalizzata rispetto a un'altra che invece paga un salario variabile? Magari l'impresa che paga un salario fisso ha deciso che gli incentivi li fornisce lungo la vita del lavoratore, premiando con promozioni quelli che ritiene più produttivi. Trattare tale impresa peggio di un'altra che invece sceglie di incentivare con un bonus legato ad obiettivi interni di produttività non dovrebbe essere tra le priorità del legislatore. Secondo, si limita arbitrariamente il campo di applicazione. La riduzione delle tasse può solo avvenire in imprese che sono in grado di stipulare accordi sindacali che recepiscono i requisiti della legge. Tipicamente, saranno le imprese di maggiore dimensione. Anche in questo caso non si capisce quale ragione possa portare a causare tale distorsione. È veramente così brutto dire semplicemente che si abbassano le aliquote?
Per quanto riguarda gli altri mercati non c'è molto. In generale c'è un atteggiamento favorevole alle liberalizzazioni, che è una delle parti migliori del documento. In omaggio alla generale timidezza del documento non c'è proposta di abolizione degli ordini professionali (pagina 23) anche se si propone l'introduzione di una legge ''per cui nessun ordine professionale possa più in alcun modo emanare regole che finiscano per incidere sulla libertà di mercato o di concorrenza dei professionisti''. Onestamente sono un po' scettico che una simile legge possa essere efficace ma almeno l'intenzione sembra buona. In altro punto del documento si parla dei Fondi Complementari e delle Casse di Previdenza, i cui patrimoni finanziari dovrebbero essere ''mobilitati'' per lo sviluppo economico (pag. 8). Un dirigismo d'antan abbastanza preoccupante, oltre che probabilmente velleitario.
Tasse e spesa pubblica
Il programma prevede di tagliare le tasse per 50 miliardi. Metà di questi dovrebbero andare alle famiglie e metà alle imprese. Se ho capito bene la riduzione delle tasse derivante dall'esenzione del ''salario di produttività'', il cui costo atteso per il fisco non viene quantificato, dovrebbe essere in aggiunta ai 50 miliardi. Ci sono una serie di misure minori, ma il grosso della riduzione per le famiglie dovrebbe venire da una riduzione dell'Irpef per 20 miliardi, aumentando fino a 8.000 euro l'esenzione per ogni figlio o familiare non autosufficiente a carico. Per le imprese si propone una riduzione di 24 miliardi, ottenuta dimezzando l'Ires (il cui gettito attuale è 32 miliardi) e riducendo del 30% l'Irap per i privati, per un costo di 8 miliardi. Il restante miliardo dovrebbe venire da altre misure minori. Da segnalare la proposta di riduzione dell'aliquota contributiva INPS al 21%, dal 28% medio attuale, per lavoratori autonomi e parasubordinati. Si tratta di un altro intervento distorsivo, dato che il lavoro dipendente paga aliquote più alte. Anche in questo caso, sembra che l'idea di abbassare le aliquote in modo uniforme e per tutti sia troppo difficile da concepire. Si scherza naturalmente, il problema come sempre è che le distorsioni pagano politicamente più delle riduzioni uniformi, che necessariamente sono di minor misura.
Il grosso della riduzione Irpef prende più la forma di un intervento assistenziale che di un intervento che possa stimolare la partecipazione alla forza lavoro. La riduzione si indirizza infatti in particolare verso le famiglie con figli (e quindi ''più bisognose'') e non si accompagna a una diminuzione delle aliquote. Gli unici effetti positivi da questo punto di vista si possono verificare in termini di partecipazione alla forza lavoro in famiglie che hanno figli e che non sfruttano appieno le detrazioni perché il reddito di un solo coniuge non è sufficiente. Si tratta probabilmente di effetti limitati, e in ogni caso dipenderanno dai dettagli di messa in atto del provvedimento. Più efficaci appaiono gli interventi di riduzione del carico fiscale delle imprese, anche se non viene spiegato con quale logica si è deciso di ripartire la riduzione tra Ires e Irpef.
In ogni caso, le proposte di riduzione delle tasse si possono giudicare solo in rapporto alla credibilità delle proposte di riduzione della spesa. Il documento non è affatto convincente. In primo luogo appare la immancabile storiella del recupero dell'evasione fiscale, quantificato in 25 miliardi annui (pagina 11), più di un punto e mezzo di PIL. Non ho veramente alcuna voglia di commentare, e faccio fatica a credere che ci sia ancora qualcuno che prende sul serio questi numeri. Per il resto, come già osservato, si fa la scelta di non toccare la spesa pensionistica e si annuncia l'intenzione di ridurre ''tra il 5% e il 10%'' i 500 miliardi di spesa che non riguardano pensioni e interessi sul debito. Il 5% sono 25 miliardi, che insieme ai 25 miliardi di presunto recupero dell'evasione dovrebbero essere sufficienti a finanziare la riduzione di Irpef, Ires e Irap. Naturalmente questo significherebbe che il calo effettivo della pressione fiscale sarebbe solo di 25 miliardi, non di 50. Sulla credibilità dei piani di riduzione della spesa sospendo il giudizio. Il documento chiaramente cerca di evitare tutti i punti politicamente difficili. Oltre a evitare il tema pensioni non si dice nulla sugli stipendi pubblici, in particolare quelli più alti. Si parla di razionalizzazioni, eliminazione delle duplicazioni etc. etc. Difficile non essere d'accordo, ma non sono realmente punti che possano caratterizzare il nuovo movimento; si possono leggere cose assolutamente analoghe nei documenti del PD o del centrodestra (quando cerca di scrivere qualcosa, cosa poco frequente).
Organizzazione del settore pubblico
Il documento afferma in modo molto promettente che ''le partecipazioni pubbliche in aziende vanno cedute tutte, ad eccezione di quelle che servono a controllare le reti essenziali''. In linea di principio questo è l'approcco giusto: la foresta di aziende controllate dalla politica è enorme e copre parti cruciali del sistema produttivo italiano. Va quindi privatizzata ed i settori coinvolti resi davvero concorrenziali. Ma come? Cercherete invano in tutto il documento il nome delle aziende da vendere! In realtà, in almeno un paio di punti, si menziona la gestione della Rai dando chiaramente per scontato che questa azienda non è tra quelle da vendere. E se non è da vendere la RAI lo sarà Finmeccanica, per dirne una? Ricordiamo inoltre che il programma prevede la cessione di attivi pubblici alla Cassa Depositi e Prestiti ''per un ammontare tra 30 e 50 miliardi''. Il sospetto che quando si dica ''vanno cedute tutte'' si intenda ''vanno trasferite dal Tesoro ad altri enti comunque controllati dalla politica'' resta molto forte. In ogni caso la proposta di vendere tutte le partecipazioni pubbliche stride con la logica di altre parti del documento. Se il settore pubblico è così bravo ad allocare il credito, come sembrano pensare gli estensori del programma, perché mai non dovrebbe governare gli investimenti di una grande impresa con impatto sistemico come ENI? Se il settore pubblico ha le capacità per scegliere bene gli investimenti da finanziare, verrebbe da pensare che dovrebbe anche avere le capacità per scegliere gli investimenti delle imprese che controlla. Pensare che il settore pubblico sia buono a fare una delle due cose ma non l'altra non appare molto logico e coerente.
Ci sono poi una serie di altre proposte utili, anche se minori (tipo l'anticipo dell'eliminazione dei rimborsi elettorali), che di nuovo non sono particolarmente differenti da quelle che appaiono nei programmi di altre forze politiche. Una nota particolarmente positiva, a mio avviso, invece è l'approccio al federalismo. Anche se il tema non è molto sviluppato, viene ribadito con forza che gli enti locali devono finanziare il grosso della propria spesa con entrate proprie. Come al solito i dettagli sono importanti, ma questa può essere un'area in cui possono esserci sorprese positive.
In conclusione, anche la parte relativa alle riforme strutturali si rivela complessivamente deludente, anche se qualche spunto interessante è presente.
"...riduzione dell'aliquota contributiva INPS al 21%, dal 28% medio attuale, per lavoratori autonomi e parasubordinati. Si tratta di una altro intervento distorsivo, dato che il lavoro dipendente paga aliquote più alte."
Consideriamo anche altri fattori: 1) pioggia o vento, che i clienti paghino o no, che uno i soldi li guadagni o no, il "cartellone" minimo INPS per gli agenti di commercio è di € 3.860/annui, cifra assolutamente proibitiva per i giovani e che contribuisce a rendere il sistema regressivo: se vogliamo equità, lo vogliamo allora estendere ai dipendenti (discorso simile per i professionisti, con quelle sanguisughe delle casse professionali) ?; 2) gli autonomi, quando sono malati (anche una semplice caviglia storta) saltano la cena: mi sembra diverso dai dipendenti; 3) i dipendenti non sono parassitati anche dall' Enasarco.
Per me la previdenza obbligatoria andrebbe, almeno nel lungo termine, completamente abolita per tutti, ma analizziamo bene la situazione, prima di fare paragoni.
Alessio, perfettamente d'accordo con te che occorre guardare alla situazione nel complesso ma le distorsioni si rimediano eliminandole, non aggiungendo altre distorsioni. Per dire, leviamo il minimo di 3860 euro. Il sistema fiscale dovrebbe essere il più neutrale possibile per la scelta tra lavoro autonomo e lavoro dipendente e non dovrebbe introdurre differenze arbitrarie, magari poi compensando misure che risultano di aggravio con altre misure distorsive di sgravio.
Poi capisco benissimo che la realtà del processo politico possa portare a fare scelte di compromesso subottimali. Ma qua stiamo parlando di un programma che cerca di proporre ciò che è meglio per il paese, non quello che si può ottenere al mercato delle vacche. Senza principii chiari è difficile muoversi nella giusta direzione.