Qualche giorno fa, Michele Boldrin ha scritto
Eppoi, fra gli ordinari ed associati, il problema NON sono solo quei pochi che vanno in parlamento o quei molti di più (stima nasometrica: media del 30-40% con facoltà dove si arriva al 60%) che, mentre fan finta di fare il professore universitario passano il 90% del loro tempo nel loro studio professionale (medico, commercialista, fiscalista, consulente aziendale, consulente marketing, consulente statistico, consulente strategico, ingegnere, architetto, avvocato, notaio, editore, dentista, membro del consiglio d'amministrazione di a, b, c, d, assessore, ...). Il problema son anche quei (pochi) che non fanno i deputati, non hanno il secondo lavoro e, magari, fanno anche un po' di ricerca e didattica seriamente.
Sai perché sono anche questi il problema? Perché sono omertosi. Perché non hanno mai, assolutamente mai, avuto il coraggio di esporre pubblicamente le magagne degli altri e chiedere meritocrazia. Non hanno mai avuto il coraggio di organizzarsi e dire: noi siamo i docenti universitari che fanno ricerca e didattica, quelli (nome, cognome, indirizzo) non fanno ricerca e didattica ma usano l'università per farsi gli affari privati. Vanno cacciati o vanno, per lo meno, messi in un ruolo DIVERSO dal nostro. Altro che buffonata del tempo parziale: adjuct professors o lecturers, si chiamano a casa mia. Prendono due lire, insegnano quel che devono insegnare e non contano nulla, nulla, nella vita del dipartimento. Il loro lavoro è un altro, in facoltà vengono ad arrottondare.
E invece no: da sempre tutti assolutamente zitti, allineati e coperti! Ecco, quella è la "colpa" politica di fondo dell'ordinario medio: l'omertà. Come sta accadendo, appunto, fra i ricercatori. Come è successo a Roma 3 con il caso Valeria Termini ... L'elenco è infinito, infinito.
Omertosi, questo sono gli ordinari (e gli associati, ed i ricercatori) italici. Altro che dente avvelenato. They fit perfectly in the country they belong.
Boldrin ha ragione. Gli universitari italiani sono omertosi. In questo post, tenterò di spiegare perché, partendo dall’ipotesi che (nella media) i professori siano esseri razionali e che quindi la loro omertà sia razionalmente motivata.
Innanzitutto, specifichiamo cosa si intende per “denuncia”. Non si tratta, genericamente di “chiedere meritocrazia”. Quello si fa ogni giorno, salvo poi definire “meritocrazia” in maniera tale da portare vantaggio a se stessi o ai propri amici ed allievi. Si tratterebbe di invece elencare per nome e cognome i colleghi incapaci e/o fannulloni, portando anche qualche pezza di appoggio (es. X non ha pubblicato un articolo da dieci anni, Y si fa fare lezione dal ricercatore). Raccogliere le informazioni necessarie è possibile, ma costa in termini di fatica e di tempo sottratto ad altre attività, magari più piacevoli. Inoltre, una denuncia individuale sarebbe poco utile. L’autore avrebbe ottime probabilità di essere emarginato e considerato un pazzo senza essere preso sul serio. Infatti, i casi di denuncia pubblica personale sono rari e in genere riflettono profonde rivalità personali, spesso derivanti dall’esito sfavorevole di un concorso.
Non a caso, Michele parla di “coraggio di organizzarsi”, ipotizzando quindi un’azione collettiva da parte di un gruppo di docenti che “fanno anche un po' di ricerca e didattica seriamente” (quelli “bravi”). Perché non lo fanno? La risposta è semplice, anche se triste: non lo fanno perché non servirebbe a nulla, almeno con la legislazione vigente.
In primo luogo, i poteri sanzionatori nei confronti dei professori inadempienti da parte degli organi accademici sono praticamente nulli. Al massimo il preside della facoltà può richiamare un professore che non mantiene i propri obblighi didattici – senza alcun effetto, salvo far arrabbiare il fannullone e non essere votato la volta successiva. Ancora peggio per l’attività scientifica: i professori sono legalmente tenuti a far ricerca, non a pubblicare i risultati. Quindi, un accusato, se gentile e in vena di collaborazione, può sempre rispondere che non ha pubblicato nulla da vent’anni perché sta lavorando ad un opus magnum che cambierà la disciplina. E’ impossibile provare il contrario.
La situazione potrebbe cambiare, se venisse approvata la legge Gelmini. Nella versione passata al Senato [art.6], introduce una sanzione individuale per i fannulloni, nella forma di blocco degli scatti di anzianità (a giudizio delle università) e/o di esclusione dalle commissioni di concorso (secondo giudizio dell’ANVUR). E’ facile prevedere che queste sanzioni saranno applicate a pochissimi sfortunati. Sarà molto facile pubblicare qualcosa. Il barone fannullone si limiterà ad apporre la propria preziosa firma ai lavori dei suoi collaboratori (ricercatori, borsisti etc.), come già spesso fa. Chi non ha collaboratori, potrà mettersi d’accordo con qualche amico: io ti faccio firmare il mio articolo oggi e tu mi fai firmare il tuo domani. In ogni caso, definire standard minimi assoluti di produttività individuale è operazione molto delicata. Le voci che girano in proposito suggeriscono che il ministero pensa ad una definizione molto elastica di “pubblicazione scientifica”. Si parla di includere praticamente qualsiasi lavoro purché stampato da riviste o case editrici riconosciute, comprese quelle locali, magari sponsorizzate dall’università stessa (o pagate con i soldi dei fondi di ricerca). Personalmente, ho qualche dubbio sull’utilità di costringere persone incapaci di pubblicare in sedi adeguate a scrivere qualcosa solo per soddisfare un requisito minimo. Sarei addirittura contrario a sacrificare preziosi alberi per produrre la carta necessaria. D’altra parte, introdurre criteri più stringenti solleverebbe delicati problemi di valutazione.
Consideriamo un caso concreto, Emiliano Brancaccio, l’animatore della famosa lettera degli economisti. Il suo sito, http://www.emilianobrancaccio.it/ricerca/, elenca una serie di pubblicazioni negli ultimi tre anni – due articoli su riviste in lingua inglese (a me sconosciute), un capitolo di libro pubblicato da una rispettabile casa editrice inglese, due articoli su riviste italiane ed un working paper. Sicuramente, Emiliano Brancaccio sarebbe definito uno studioso produttivo secondo gli standards ministeriali. Sono altrettanto sicuro che Michele Boldrin avrebbe fortissime obiezioni a valutare queste pubblicazioni come lavori scientifici.
L’organizzazione del sindacato dei “bravi” sarebbe comunque difficile, anche se le sanzioni individuali per i fannulloni fossero effettivamente efficaci. Quali vantaggi potrebbe avere un ordinario “bravo” a partecipare all’iniziativa? A legislazione vigente, quasi nessuno. Una volta vinta la cattedra, il suo stipendio è pre-determinato fino alla pensione. Certo, un’azione efficace contro i fannulloni aumenterebbe il prestigio del suo ateneo e dell’università italiana nel suo complesso, e quindi anche il suo status sociale. Ma in questo caso, si pone un evidente problema di free riding: se il vantaggio è collettivo ed indiretto, perché un singolo professore dovrebbe darsi da fare? Inoltre, i “bravi” si attirerebbero l’odio dei colleghi fannulloni, con un netto peggioramento della qualità della vita collettiva. I “bravi” potrebbero avere un vantaggio personale solo se le sanzioni contemplassero il licenziamento o la degradazione dei fannulloni ad “adjuct professor”, una sanzione estrema ed assolutamente non contemplata nella discussione attuale. In tal caso, infatti, potrebbero liberarsi risorse per assumere altri colleghi. Per gli ordinari, il vantaggio sarebbe indiretto: potrebbero far assumere i propri allievi (tutti “bravi” per definizione). Per associati e ricercatori il vantaggio potrebbe essere più diretto in quanto si aprirebbero spazi per promozione interne. Ma una denuncia pubblica comporterebbe gravi rischi per la propria carriera se la pratica non si concludesse con il licenziamento dell’accusato. Infine, anche in questo caso, si porrebbe un problema di free-riding: nessuno dei “bravi” avrebbe infatti la sicurezza di poter gestire le risorse liberate.
Quindi, il comportamento auspicato da Boldrin è, allo stato delle cose, irrazionale e sarebbe frutto di un afflato di indignazione morale. Potrebbe diventare razionale se cambiassero gli incentivi. La nuova legge in teoria fa un passo decisivo in questa direzione, l’unico aspetto positivo di un provvedimento altrimenti molto discutibile ed orrendamente pasticciato. Infatti crea un incentivo diretto al controllo sociale attraverso l’attribuzione di una quota dei finanziamenti totali dell’università sulla base della produttività scientifica. Si noti che la sanzione sarebbe collettiva e comparativa, non individuale e basata su requisiti minimi. Non si tratterebbe più di valutare personalmente Brancaccio ma il suo dipartimento in confronto con altri dipartimenti e quindi, implicitamente, di affermare che il lavori di Brancaccio, pur “scientifici”, sono peggiori di quelli di Giavazzi. Quindi, la presenza di fannulloni danneggerebbe direttamente i “bravi”. Al minimo, ridurrebbe le risorse disponibili per nuove assunzioni, acquisto attrezzature etc... In casi più gravi, potrebbe addirittura mettere in pericolo il pagamento degli stipendi di tutti, se la percentuale dei finanziamenti dipendenti dalla produttività scientifica fosse elevata.
Il senatore Possa, ex compagno di banco di Berlusconi ed un tempo professore a contratto al Politecnico di Milano, aveva proposto un ridicolo limite massimo del 3%. Nella versione approvata dal Senato, si stabilisce un limite massimo del 10% complessivo. E’ poco, ma non pochissimo: potrebbe comportare una riduzione anche molto consistente del finanziamento delle università peggiori se la varianza degli indici di qualità fosse sufficientemente ampia. Tutto dipende però dai criteri di valutazione. Sta attualmente iniziando il secondo round del VQR (Valutazione della qualità della ricerca, 2004-2008) e si aspetta il mitico ANVUR. Non sono molto ottimista, ma per ora, piuttosto che niente, meglio piuttosto.
Be', stavolta no. Segue dimostrazione.
Io faccio il ricercatore a Bologna. Qualche mese fa i ricercatori a Bologna (e altrove) si sono mobilitati contro il disegno di legge Gelmini. Particolare preoccupazione destava la figura dei ricercatori a tempo determinato, detti anche "3+3". Come spiegava il Sole 24 Ore:
Cosa c'e' in questo che disturbava i ricercatori a tempo indeterminato? Ovvio: il fatto che mentre loro per diventare associati devono sostenere un concorso (con tutta l'incertezza e la lentezza del caso: per dare un'idea, i concorsi banditi nel 2008 dopo diversi anni si stanno svolgendo adesso), i nuovi ricercatori a tempo determinato lo diventerebbero (a condizione che ci siano i requisiti, stabiliti a priori, in termini di pubblicazioni) per decisione della propria universita': niente concorsi, niente lungaggini, una procedure "tenure-track" di tipo anglosassone.
Sorvolo sull'insensatezza di questa norma in assenza di meccanismi che leghino i finanziamenti a un'universita' alla valutazione del lavoro delle persone che quell'universita' decide di assumere o promuovere. Il punto interessante e' che i ricercatori a tempo indeterminato si sentono scavalcati e questo e' inconcepibile in questo paese per vecchi dove una fondamentale componente del merito pare essere l'anzianita', il tempo speso in fila ad aspettare che venga il proprio turno alla promozione.
Questo si sentiva dire nelle assemblee dei ricercatori: noi siamo stati qui anni ad insegnare un sacco di corsi ogni anno (un ricercatore ha carico didattico obbligatorio nullo, come il nome "ricercatore" suggerisce), tappando i buchi per tenere a galla le facolta'. E ora ci trattate cosi'? Vogliamo, come minimo, che siano banditi contestulmente all'introduzione dei ricercatori a tempo determinato un numero sufficiente di concorsi da associato a garantire di fatto una promozione ope legis a tutti (o quasi) noi che abbiamo acquisito il merito di un'attesa piena di didattica -- non lo si diceva in questi termini espliciti ma questa e' la sostanza.
A me e altri tre colleghi (Elena Argentesi, Matteo Lippi Bruni, e Paolo Vanin) questa e' parsa cosa assurda, folllia pura. E non siamo stati omertosi, per niente. Siamo andati all'ennessima assemblea per dire che se bisognava fare una battaglia bisognava farla per il merito scientifico e non per difendere privilegi, e che (sostanzialmente) ci siamo rotti i coglioni di rivendicazioni che non abbiano come primo criterio quanto, cosa, dove hai pubblicato.
Essendo impossibile parlare in quelle assemblee abbiamo scritto una lettera di dissenso e di controproposta che abbiamo inviato a tutti i nostro colleghi della facolta' di economia e ai rappresentanti dei ricercatori dell'ateneo (che c'hanno ignorato e non poteva essere altrimenti).
Ve la mando se la volete, ma e' piuttosto banale. Si riassume cosi': per fare dell'universita' italiana un luogo di "eccellenza" e' necessario (e spesso sufficiente) selezionare e promuovere ricercatori e docenti in base a rigorosi criteri di merito nell'attivita' scientifica. Quindi va rigettato ogni automatismo nella progressione delle carriere e ogni confusione tra "merito" di un ricercatore e attivita' didattica svolta o peggio ancora anzianita'. L'idea di riservare "quote" per la promozione dei ricercatori a tempo indeterminato e' quindi marcia e rivelatrice di una mentalita' marcia. Proponevamo poi di coalizzarci per tagliare la testa al toro, chiedendo di:
Io personalmente volevo aggiungere la proposta di "scelta di regime" in modo che nessun ricercatore a tempo indeterminato si senta discriminato, ma non ho trovato consenso. L'idea e' semplice: i vecchi ricercatori hanno il vantaggio del posto fisso. Quelli a tempo determinato hanno salari piu' alti e carriera piu' snella (be', fino ad associato) come nella tenure track, ma non hanno garanzia del posto. Consentiamo allora ai primi che si sentono discriminati di rinunciare, chi vuole, alla garanzia del posto in cambio dei vantaggi degli altri che sarebbero la causa della discriminazione. Chiaro no? Indovinate cosa ci farebbe l'assemblea dei ricercatori con quest'ultima proposta.
La morale e' che non tutti i ricercatori sono omertosi, allineati e coperti. Queste cose io e altri continueremo a dirle ogni volta che ce ne sara' l'occasione.
Se questo andra' a nostro discapito in Italia emigreremo anche noi, che le lingue le conosciamo. No problemo.
Giulio, io contento come una pasqua di essere contraddetto in questi casi, specialmente se la contraddizione è dovuta ad un controesempio.
Ma, al momento, quanto racconti conferma purtroppo la mia stima "nasometrica". Vedremo se altri si aggregherano.
Mi domando, infine: com'è che non hai riprodotto qui la lettera ed usato nFA come strumento di propaganda e raccolta adesioni? Siete sempre in tempo per farlo, ovviamente.
Sono totalmente d'accordo, al mille per mille, mi hai tolto le parole di bocca.
Complimenti, ottima iniziativa.
Aggiungo che la riforma della semi-tenure 3+3 potrebbe funzionare, ma solo se ci sono per davvero i soldi per confermare i meritevoli dopo 6 anni e se i criteri di valutazione del merito saranno ben fatti.
Giulio, alcune osservazioni e domande (con un po' di ritardo...).
Dici:
Non dubito che ciò possa essere vero per alcuni (molti?). A me personalmente però disturba il fatto che nel testo del ddl licenziato dal Senato non vi sia (o almeno, io non vi abbia trovato) alcuna indicazione riguardo l'obbligo di accantonare i fondi necesserari per l'assunzione, in qualità di associati, dei ricercatori TD che risultassero corrispondenti ai desiderata della facoltà e/o ai (vaghi) requisiti ministeriali. Concorderai che, così come è scritta, questa norma definisce una fattispecie alquanto distante dalla tenure-track, o sbaglio?
La (proposta di) riforma appare poi ai miei occhi addirittura "schizofrenica" quando pretende di coniugare questo (vago) concetto di meritrocrazia e di valorizzazione della ricerca condotta su standard internazionali con i seguenti meccanismi di attribuzione dei fondi (cito dal testo del ddl):
Mi pare un po' blando come incentivo ad assumere brillanti ricercatori...
Sulla base della lettera del ddl dunque, non mi sembra proprio che la protesta dei ricercatori sia da biasimare tout court. L'evidenza di cui dispongo (puramente aneddotica, si badi) testimonia inoltre che a mobilitarsi sono proprio quelli che questo mestiere lo fanno con riconosciuto successo: a Roma le manifestazioni di dissenso più forte si sono avute soprattutto nei dipartimenti di Fisica, di Matematica e di Chimica. In questi dipartimenti, indicati da molti con l'abusata espressione di centri di eccellenza, l'adesione al blocco della didattica ha rasentato il 100%! Possibile che alla base di tutto ci sia il fatto che:
ne dubito...
PS: ho letto della notizia delle "ritorsioni" del tuo ateneo verso i ricercatori dissenzienti, volevo sapere se avevi qualche novità in proposito.