Introduzione
Anche in questo caso voglio iniziare in modo pedante, ricordando alcuni principi di economia pubblica su cui vi è largo consenso tra gli studiosi ma che hanno trovato scarsissima eco nel dibattito politico. Nel pezzo sul federalismo municipale ho enunciato alcuni di questi principi e ho fatto la seguente affermazione, senza svilupparla ulteriormente:
... si può aggiungere un principio di carattere generale, che riguarda sia il governo centrale sia quelli locali: servizi pubblici che offrono benefici individuali (come ad esempio sanità e istruzione) dovrebbero essere il più possibile finanziati mediante tasse pagate dagli utilizzatori di tali servizi. Ovviamente interventi di carattere distributivo per favorire l'accesso a tali servizi di persone a basso reddito sono sempre possibili, ma come principio generale è bene che la redistribuzione avvenga a livello centrale.
Questo è ciò che viene normalmente chiamato, in scienza delle finanze, il "principio del beneficio". La logica è semplice. Nei casi in cui è possibile mettere in relazione un bene prodotto dal settore pubblico al consumo di un particolare individuo, allora a tale individuo dovrebbe essere richiesto di coprire il costo di produzione. Ciò evita sprechi di risorse, ossia situazioni in cui il bene prodotto costa di più del valore ottenuto dal beneficiario. Non sempre è possibile applicare questo principio, e anche quando è possibile può non essere semplice. Ciò non toglie che dovrebbe essere applicato quando possibile. Se si teme che certi beni fondamentali (sanità e istruzione sono i due esempi più ovvi) potrebbero essere preclusi a chi non ha reddito sufficiente, allora il modo giusto di intervenire è mediante redistribuzione del reddito, che può prendere la forma di accesso a prezzi più bassi ai servizi.
Va anche chiarito perché vale il criterio generale per cui è bene che le politiche redistributive, tra cui il livello di progressività della tassazione, è meglio che vengano decise a livello centrale. Vi sono due ragioni. Primo, le differenze di progressività delle aliquote tra vari enti locali (che è cosa diversa dal livello generale delle tasse) rischiano di generare fenomeni distorsivi nell'allocazione del capitale umano. In soldoni, questo significa che se un territorio sceglie un'¡imposta più progressiva per fini redistributivi rischia di vedersi scappare i contribuenti a più alto reddito. Un simile rischio lo corre anche lo stato nazionale, i cittadini ad alto reddito possono emigrare, ma in forma più attenuata: dopotutto, cambiare paese è ancora più difficile che cambiare regione. Questo rischio è probabilmente limitato nel contesto italiano, soprattutto per le regioni più grosse e per i livelli di cambiamento delle aliquote contemplati nel progetto di decreto, ma è tuttavia presente. La seconda ragione per cui le politiche redistributive è meglio vengano decise centralmente è che questo garantisce maggiori potenzialità redistributive. Dopotutto, se tutti i poveri sono nella regione A mentre tutti i ricchi sono nella regione B allora le uniche politiche redistributive possibili sono di tipo inter-regionale. Si noti che qua non si sta discutendo dell'opportunità o meno di attuare politiche redistributive. Si sta semplicemente dicendo che se si decide di farle, allora è meglio farle a livello centrale, piuttosto che a livello locale.
Vi è un ulteriore punto che vorrei aggiungere, dato che penso sia cruciale nel contesto italiano, e che riguarda l'adozione di regole rigide rispetto a regole flessibili. Anche in questo caso vi è ampio accordo tra gli studiosi sui costi e benefici dell'una e dell'altra soluzione. Le regole flessibili hanno il vantaggio di offrire maggiore spazio di manovra in caso di eventi imprevisti, mentre hanno lo svantaggio di incentivare comportamenti che causano proprio questi eventi "imprevisti". Per le regole rigide vale ovviamente l'esatto contrario.
L'applicazione al finanziamento degli enti locali è come segue. Se il finanziamento viene determinato ex post mediante negoziazione, indubbiamente ci sarà maggiore elasticità nel venire incontro a esigenze improvvise, ma si daranno incentivi agli enti locali a creare buchi di bilancio per poi reclamare il loro ripianamento. In assenza di un potere centrale forte in grado di punire con efficacia gli enti locali che si comportano in questo modo, la conseguenza inevitabile è quella di incentivare l'indebitamento degli enti locali. Regole rigide, che prevedono finanziamenti determinati ex ante e procedure automatiche e sottratte alla discrezionalità politica (questo è un punto fondamentale) per punire gli enti locali che non rispettano i vincoli di bilancio, possono evitare il problema.
Credo che vi sia abbastanza consenso sul fatto che in Italia l'incapacità di punire con sufficiente durezza gli enti pubblici che non rispettano il pareggio di bilancio sia sempre stato un problema, che a dir la verità si è sempre accompagnato al problema gemello di avere uno stato centrale incapace di determinare con sufficiente anticipo le risorse a disposizione degli enti locali. Un movimento verso regole rigide e chiare appare dunque desiderabile almeno nel contesto italiano.
Il decreto attuativo sul federalismo regionale
Cerchiamo quindi ora di valutare lo schema di decreto per il finanziamento di regioni e province (oltre che per la "determinazione di costi e fabbisogni standard nel settore sanitario"; le spese sanitarie fanno la parte del leone nei bilanci regionali, essendo pari a circa l'80% della spesa), alla luce dei principi esposti in precedenza.
A differenza del decreto sul federalismo municipale, quello sul federalismo regionale è ancora in divenire. L'ottobre scorso venne licenziata una bozza. La conferenza Stato-Regioni ha prodotto una serie di osservazioni e il consiglio dei ministri ha approvato la settimana scorsa una bozza aggiornata. Non posso fornire un link alla bozza aggiornata, anche se ne ho preso visione. Potete trovare una sua esposizione in questo articolo del Sole 24 Ore. Un commento più approfondito, sempre sul Sole, viene fatto da Massimo Bordignon. Al di là delle modifiche dell'ultima ora e delle schermaglie politiche che determineranno chi voterà o meno la versione finale del decreto, le linee principali sembrano però abbastanza chiare e scarsamente suscettibili di modifica.
Una buona base di partenza per comprendere l'impianto del decreto è data dall'audizione di Luca Antonini, presidente della Copaff, del 2 marzo scorso, che offre il seguente riassunto del provvedimento.
La fiscalizzazione dei trasferimenti statali, l'abrogazione dell'addizionale sull'energia elettrica, la nuova dimensione dell'addizione regionale all'Irpef e la conseguente eliminazione dell'aspettativa dei ripiani statali, la possibilità di ridurre fino ad azzerarla l'Irap, l'applicazione del principio della territorialità, sono soluzioni che, senza sconvolgere il quadro esistente, lo correggono e lo razionalizzano in profondità, garantendo una maggiore tracciabilità della spesa e della imposizione regionale, favorendo quindi un maggiore controllo da parte degli elettori sulle dinamiche di spesa.
La frase chiave è "senza sconvolgere il quadro esistente". Questo è un problema, perchè il quadro esistente è pessimo e andava sconvolto. Questo provvedimento offre invece correzioni al margine, che in buona misura mettono semplicemente una pezza ai provvedimenti contro le autonomie (in particolare, il blocco delle addizionali IRPEF) che hanno caratterizzato l'azione dell'attuale governo. Che poi venga favorito "un maggiore controllo da parte degli elettori sulle dinamiche di spesa" mi pare più una pia speranza che una conclusione cui si possa giungere con un'analisi spassionata del decreto, come argomenterò più in dettaglio in seguito.
Ma andiamo per ordine, e vediamo con maggiore esattezza i contenuti del decreto. In sostanza, ci sono 4 fonti principali di finanziamento delle regioni: la compartecipazione all'IVA, le addizionali IRPEF, l'IRAP e infine una serie di tasse minori regionali.
La compartecipazione IVA
Sul meccanismo di compartecipazione IVA, che viene anche usato per finanziare i comuni, vale quanto detto nel post sul al federalismo municipale: si tratta di un pessimo meccanismo, che unisce gli aspetti negativi del finanziamento decentralizzato (variabilità del gettito ed esposizione a fattori di rischio locali) agli aspetti negativi del finanziamento centralizzato (mancanza di autonomia decisionale e deresponsabilizzazione degli enti locali). Per non farsi mancare nulla, comunque, permane il regime di decisione ex post mediante negoziazione delle aliquote di compartecipazione. L'aliquota di compartecipazione infatti è regolata dall'art. 11, comma 3, che è rimasto invariato rispetto alle ultime modifiche e che afferma quanto segue:
La percentuale di compartecipazione all'IVA è stabilita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'Economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano al livello minimo assoluto sufficiente ad assicurare il pieno finanziamento del fabbisogno corrispondente ai livelli essenziali delle prestazioni in una sola regione. Per il finanziamento integrale dei livelli essenziali delle prestazioni nelle regioni ove il gettito tributario è insufficiente, concorrono le quote del fondo perequativo di cui al comma 5 del presente articolo.
Come si vede facilmente, una bella supercazzola per dire che ci si mette d'accordo dopo, anno per anno. Ossia, si continuerà a fare come si è fatto fino ad adesso. La principale differenza, dal punto di vista retorico, sarà che si inquadrerà il discorso in termini di "soddisfacimento dei livelli essenziali delle prestazioni", un termine su cui i nostri politici mettono un gran peso ma che non può voler dire nulla di serio.
Vale la pena di guardare anche al comma 5 dell'articolo 11, che è quello che regola il fondo perequativo. Anche questo è rimasto invariato nell'ultima versione (a parte l'anticipo di un anno, al 2013, dell'inizio del fondo), e afferma quanto segue:
E' istituito, dall'anno 2013, un fondo perequativo alimentato dal gettito prodotto da una compartecipazione al gettito dell'IVA determinata in modo tale da garantire in ogni regione il finanziamento integrale delle spese di cui al comma 1 dell'art. 10 del presente decreto. Nel primo anno di funzionamento del fondo perequativo le suddette spese sono computate anche in base ai valori di spesa storica; nei successivi quattro anni devono gradualmente convergere verso i costi standard. Le modalità della convergenza sono stabilite con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per Ì rapporti con le Regioni, di concerto con il Ministro dell'Economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Ai fini del presente comma, per il settore sanitario, la spesa coincide con il fabbisogno sanitario standard come definito ai sensi dell'articolo 21.
Il fondo perequativo in sostanza servirà ad evitare eccessive disparità nelle entrate; ciò rende la compartecipazione IVA in tutto e per tutto simile a un trasferimento operato dallo stato centrale, e così in effetti è stata usata finora. Il presunto superamento del criterio della spesa storica e la convergenza verso i costi standard appare come come una sonora presa in giro. Come si vede infatti i criteri di convergenza verranno determinati in futuro con decreto di questo, sentito quell'altro etc. etc. In sostanza, ci sarà ricontrattazione continua, anno per anno, che andrà peraltro nel calderone generale della ricontrattazoine sull'aliquota di compartecipazione. Che poi, visto come stanno le cose, è semplicemente ricontrattazione continua sui livelli dei trasferimenti centrali.
Ciò che rende tutto questo particolarmente triste e patetico è che si tratta di un film già visto. Il Dlgs. 56/2000, la legge sul finanziamento degli enti locali fatta dal centro-sinistra, conteneva già norme per il superamento del criterio della spesa storica. Andate a guardare l'art. 7 della legge, ma fatelo solo se avete un'alta tolleranza per il burocratese. Per tutti gli altri, consiglio questo rapporto della Regione Veneto del 2005, in particolare la tabella di pagina 4 che mostra la gradualità del superamento della spesa storica prevista dalla legge. In sostanza, se la legge fosse stata attuata ci dovremmo quasi essere, dato che entro il 2013 la spesa storica doveva sparire come criterio di assegnazione dei fondi. E invece siamo qua, a riproporre un'altra legge molto simile alla precedente, con un altro piano graduale che andrà incontro agli stessi fallimenti. È una previsione facile, date le norme dell'attuale decreto attuativo che, ancora una volta, rimandano le decisioni e prevedono a ogni punto rilevante ricontrattazione e decisioni politiche discrezionali. A quanto pare il fallimento della 56/2000 non ha insegnato assolutamente nulla.
Le addizionali IRPEF e l'IRAP
Anche le addizionali regionali IRPEF non sono cosa nuova, vennero introdotte nel 1997 insieme all'IRAP (art. 50 della legge 446/97). Tra i primi atti del nuovo governo (legge 93 del 27 maggio 2008) vi è stato il blocco delle addizionali, sia regionali sia comunali. Tale provvedimento, insieme all'eliminazione dell'ICI sulla prima casa, ha posto notevole pressione sulle finanze locali.
Il decreto attuativo elimina il blocco delle addizionali, permettendo in certo qual modo di tornare alla situazione precedente. L'ultima versione accoglie la richiesta delle regioni di permettere l'uso delle addizionale già dal 2011, così garantendo un immediato aumento della pressione fiscale (inevitabile, dato il modo in cui Tremonti ha gestito le finanze locali da quando si è reinsediato al ministero). Nulla di particolarmente nuovo quindi, anche se il decreto prevede, per il futuro, maggior margine di manovra per le regioni. Il decreto attuativo però contiene alcune caratteristiche che rendono questo strumento particolarmente mal disegnato. Ma andiamo per ordine.
Il livello delle addizionali IRPEF è dato dal comma 1 dell'art. 5:
A decorrere dall'anno 2011 ciascuna Regione a Statuto ordinario può, con propria legge, aumentare o diminuire l'aliquota dell'addizionale regionale all'IRPEF di base. La predetta aliquota di base è pari allo 0,9% sino alla rideterminazione effettuata ai sensi dell'articolo 2, comma 1, primo periodo. La maggiorazione non può essere superiore:
a) allo 0,5 per cento, sino all'anno 2013;
b) all' 1,1 per cento, per l'anno 2014;
c) al 2,1 per cento, a decorrere dall'anno 2015.
L'aliquota di base (che sarà dello 0,9% fino al 2013 e poi sarà ricontrattata di anno in anno; si veda l'art. 2 del decreto) può in principio essere ridotta, ma di fatto questo sarà molto difficile. Svolge di fatto un ruolo sostitutivo ai trasferimenti statali e concorre anche al fondo perequativo. La vera autonomia regionale si eserciterà pertanto sulle maggiorazioni, il cui importo massimo crescerà nel tempo (non è chiaro perché). Ma anche qui si tratta di un'autonomia falsa, e per capire perché bisogna guardare al secondo comma dell'art. 5.
Resta fermo il limite della maggiorazione dello 0,5 per cento, se la Regione abbia disposto la riduzione dell'IRAP. La maggiorazione oltre lo 0,5 per cento non trova applicazione con riferimento ai titolari di redditi complessivi rientranti nei primi due scaglioni
Cominciamo dalla prima frase. L'art. 4 del decreto prevede la possibilità, ma solo a partire dal 2013, di ridurre (ma non aumentare) le aliquote IRAP ''fino ad azzerarle''. La riduzione, peraltro, non solleva le regioni dall'obbligo di contribuire al fondo perequativo di cui l'Irap è una fonte, e quindi risulterà assai improbabile. Ma ad ogni buon conto, con una pesante ingerenza centralista, la legge impedisce alle regioni di scegliere il mix preferito tra imposizione delle persone e imposizione delle imprese: se si aumenta l'Irpef oltre lo 0,5% non si può ridurre l'Irap. Una simile misura mostra chiaramente che il governo o non capisce cosa è un federalismo serio, o lo capisce ma non ha alcuna intenzione di attuarlo. È anche una misura inutile e stupida. La sua ratio è quella di evitare che le regioni possano abbassare le tasse sulle imprese mediante aumento delle tasse sulle persone fisiche. Ma a parte il fatto che questa decisione andrebbe lasciata alle regioni, se veramente i governatori regionali vogliono tassare i propri cittadini per favorire le imprese possono sempre farlo erogando sussidi. La differenza ovviamente è che un taglio delle tasse è chiaro, trasparente e va a beneficio di tutte le imprese, mentre i sussidi sono tipicamente opachi e decisi discrezionalmente dai politici. È interessante leggere a questo proposito il seguente pezzo tratto dal documento che contiene le proposte di modifica del decreto dei deputati PD:
La facoltà attribuita alle Regioni di ridurre l’IRAP fino ad azzerarla è semplice propaganda, poichè non ne esistono né le condizioni né i presupposti. Altra cosa è prospettare interventi mirati per determinati settori produttivi.
È probabilmente vero che le regioni potranno far ben poco in termini di riduzione dell'Irap. Ma è veramente inquietante la successiva precisazione sugli ''interventi mirati per determinati settori produttivi''.
E veniamo alla seconda parte del comma, quella che esclude i primi due scaglioni di reddito dalla maggiorazione Irpef oltre lo 0,5%. Nell'introduzione a questo pezzo ho ricordato che esiste largo consenso tra gli studiosi sul fatto che le politiche redistributive è meglio farle a livello centrale. Questo decreto viola in modo palese tale principio, dato che permette alle regioni di isitituire maggiorazioni sopra lo 0,5% unicamente per gli scaglioni di reddito superiori ai primi due, ossia solo su chi guadagna più di 28.000 euro. L'idea è più o meno la stessa di quella che ha indotto, nel decreto sul federalismo municipale, a esentare la prima casa dall'imposizione sugli immobili: mettere al riparo gli amministratori inefficienti dall'ira che un aumento delle tasse può generare tra gli elettori, facendo in modo che la tassazione aggiuntiva ricada solo su una piccola parte dei votanti.
Per capire meglio in quale quadro quantitativo si inserisce questa normativa è utile dare un'occhiata ai dati elaborati dal ministero dell'economia sul gettito IRPEF nel 2009. Riassumo nella seguente tabella dei dati che potete trovare in modo più completo a pagina 15 della relazione linkata.
Classi di reddito | Percentuale dichiaranti | Percentuale del gettito |
---|---|---|
Oltre 70.000 | 2,98% | 26,52% |
35.000-70.000 | 10,08% | 25,26% |
26.000-35.000 | 14,24% | 14,54% |
meno di 26.000 | 72,69% | 33,69% |
In sostanza, esentando dalla maggiorazione i primi due scaglioni di reddito si finisce per escludere circa tre quarti dell'elettorato. Tale frazione però paga solo circa un terzo dell'imposta netta. Quindi le regioni hanno la possibilità di raccogliere comunque un gettito cospicuo imponendo le addizionali e limitando al tempo stesso l'effetto negativo sull'elettorato. Il problema sarà particolarmente accentuato nelle regioni meridionali, dove i redditi medi sono più bassi. Notare inoltre che i commi 4 e 5 permettono anche l'istituzione di detrazioni a livello regionale, accentuando quindi ulteriormente il carattere redistributivo del fisco regionale.
Su questo bisogna dare atto al PD di aver preso una posizione chiara e corretta, affermando che ''vanno cancellate le possibilità di introdurre detrazioni o differenziazioni di aliquota per scaglioni'' (pag. 5 del documento). La sciocchezza è tutta farina del sacco della Lega e del PdL. Va segnalato peraltro che la versione iniziale del decreto prevedeva che l'esclusione dei primi due scaglioni valesse solo per lavoratori dipendenti e pensionati. La mannaia dell'addizionale si abbatteva dunque inesorabile sugli artigiani e lavoratori autonomi con reddito inferiore ai 28.000 euro. Questa parte è ora sparita, ma deve aver generato qualche divertente serata di discussione nelle sezioni della Lega.
Conclusione
Ci sono tante altre cose nel decreto: finanziamento delle province, ulteriori tributi regionali e loro gestione, fabbisogni standard nel settore sanitario e varie cose ancora. Credo però che una analisi dettagliata a questo punto non sia necessaria. Da un lato questo pezzo è già fin troppo lungo e dall'altro il quadro generale non cambia gran ché. Mi limiterò quindi ad alcune considerazioni conclusive.
È ormai chiaro che il federalismo fiscale non porterà a nessun cambiamento rilevante. Il problema centrale che andava risolto era duplice: da un lato occorreva garantire agli enti locali risorse certe e stabilite con anticipo, in termini di trasferimenti e di basi imponibili; dall'altro era necessario porre fine al sistema di ricontrattazione endemica che ormai da tempo caratterizza la finanza locale, prevedendo misure drastiche ed efficaci contro gli enti locali incapaci di pareggiare i propri bilanci.
Nulla del genere appare nei decreti attuativi. Viene mantenuto il sistema della determinazione discrezionale ed ex post delle variabili chiave per la determinazione delle risorse: questo vale per la compartecipazione all'IVA, per l'aliquota base dell'addizionale IRPEF e varrà ancor di più per la determinazione di costi e fabbisogni standard. A questo punto infatti credo si sia capito che le procedure di determinazione dei costi e fabbisogni standard, indipendentemente dalla professionalità con cui verranno eseguite, saranno poi soggette alle opportune ''interpretazioni politiche''. E se questo non bastasse sono previsti interventi discrezionali sul (lunghissimo) percorso di convergenza tra spese storiche e spese standard.
Il dibattito avvenuto nei due anni che ormai ci separano dall'approvazione della legge 42/2009 è stato abbastanza scoraggiante. Gli enti locali hanno prevalentemente giocato sulla difensiva, guardando soprattutto al breve periodo e cercando di garantirsi le risorse per operare. Atteggiamento miope ma tutto sommato comprensibile, dato che il governo è più di una volta intervenuto in modo irrazionale e con tagli indiscriminati. Da parte delle forze governative è mancata qualunque leadership e qualunque visione d'insieme sulla riforma. In tal modo l'unica cosa che si è stati in grado di produrre è uno scadente compromesso al ribasso che fa poco più che riproporre le pratiche passate.
Due anni buttati via. Forse un giorno qualcuno rimetterà mano in modo sensato a questa materia cercando soluzioni che vadano al di là del populismo spicciolo e della difesa della casta. Ma al momento tale giorno appare molto, molto lontano.
Molto interessante. Non mi aspettavo nulla di diverso dalla nostra classe politica. Un possible typo
Inferiore o superiore?
E' giusto "inferiore" come scritto, la frase va letta nel contesto. Una prima versione delle norme sul federalismo fiscale regionale avrebbe escluso dagli aumenti del contributo IRPEF regionale i redditi imponibili dei primi due scaglioni, ma solo se dipendenti e pensionati. Quindi avrebbero pagato tutti i redditi imponibili superiori ai due scaglioni _e_ tutti gli autonomi con redditi imponibili entro i due primi scaglioni.