Per giustificare il titolo basterebbe notare che durante questi 12 anni dell’euro i due paesi dell’eurozona che hanno perso meno quote di export nel totale mondiale sono proprio la Spagna e l’Italia. Ma la situazione è sempre più drastica, e il pessimismo crescente per l’Italia sta fomentando tra l’opinione pubblica ricette di politica economica sempre meno lucide. In parte questo è dovuto ad un gioco di credibilità che tenta di fuorviare le colpe ad elementi esterni (i subprime, gli speculatori, le banche, le agenzie di rating) per celare con il mantello dell’ottimismo le debolezze interne che sono alla vera base della crisi. In parte però i facili rimedi oggi in auge sono dovuti ad una confusione sulle dinamiche della crisi e sulla differenza tra politiche fiscali e monetarie. Così, il capro espiatorio dell’attuale caccia alle streghe è diventato l’euro, che viene sempre più di frequente additato, se non addirittura come colpevole della crisi, perlomeno come elemento che deve per forza saltare perché l’economia si riprenda.
Ci sono almeno tre luoghi comuni sull’euro. Il primo riguarda la convinzione che la politica monetaria può funzionare solo se sotto il diretto controllo dei governi di ogni stato. Qui si potrebbe aprire un vaso di Pandora sia di convinzioni errate (tipo che la BCE sarebbe un istituto privato), sia di argomenti discutibili (tipo se è proprio necessaria la moneta unica). A prescindere si sta sbagliando bersaglio, perché la politica monetaria con l’attuale crisi c’entra poco. Intanto la BCE ha comunque tentato il possibile, dati i limiti della politica monetaria. Il fatto è che una banca centrale, anche se praticatasse il rimedio estremo di stampar moneta a manetta, non creerebbe ricchezza e non stimolerebbe la crescita. Avere più euro in circolazione, o lire e dracme, non affronta per niente il vero problema di questa crisi. Il problema odierno è di debito pubblico (l’accumulo di decenni di politica fiscale sbagliata), di poca crescita (dovuta ad una politica fiscale sbagliata), e di un mercato finanziario che considera sempre più rischioso fare credito a certi stati che perseverano in questa politica fiscale sbagliata.
Il secondo luogo comune considera il peccato originale nel cambio euro-lira sbagliato in partenza che ha causato un decennio intero di crescita anemica per l’Italia. Intanto quel cambio era stabilito dalle forze di mercato e ci si dimentica che il cambio di quasi 2000 lire per euro era dovuto anche al fatto che lo stato italiano aveva anche allora un enorme debito pubblico (dovuto a decenni di politica fiscale sbagliata). I 2,5 milioni di miliardi di lire di debito nel 1999 sono diventati “solo” 1300 miliardi di euro, anziché 2500 miliardi di euro se il cambio fosse stato, per fare un esempio, 1000 lire per euro. L’unica cosa che l’entrata in vigore dell’euro ha causato è stato il privare lo stato italiano della valvola di sfogo della svalutazione come rattoppo per una politica fiscale perdente. L’euro ha costretto lo stato italiano a guardare in faccia i propri problemi strutturali privandolo della scorciatoia della svalutazione, cosa che comunque non sarebbe stata concessa all’infinito in un mercato unico come quello europeo. Quindi anche qui il problema non è l’euro, ma la politica fiscale italiana che fa lentamente perdere competitività e crescita alla propria economia.
Il terzo luogo comune riguarda l’inevitabile uscita dall’euro “per evitare il default” della Grecia o dell’Italia. Un eventuale default e la permanenza della Grecia e dell’Italia nell’euro sono due cose separate. Dal punto di vista degli altri paesi europei, l’unica conseguenza avversa per loro sarebbe se la BCE decidesse di monetizzare il debito greco e italiano. Questo spalmerebbe il peso del debito pubblico greco e italiano a tutta l’Europa tramite un euro svalutato e più inflazione per tutti. In assenza di questa politica monetaria europea non c’è alcun motivo nel credere che l’uscita dall’euro avvenga per “espulsione”. Dal punto di vista del paese in difficoltà (Grecia o Italia), si può discutere se far parte dell’euro convenga o no, ma questo non è pertinente con la crisi attuale. Uscire dall’euro servirebbe a ripagare i propri creditori (i detentori dei titoli di stato) in dracme o in lire svalutate. Che differenza fa ripagare i propri debiti in lire svalutate piuttosto che rimanere nell’euro e dichiarare un default parziale? Nessuna, perché in ambedue i casi il creditore rimane fregato e si perde di credibilità avendo più difficoltà a trovare chi finanzia il proprio deficit pubblico in futuro.
In conclusione pensare che l’euro sia colpevole dell’attuale crisi, o addirittura credere che si possa venirne fuori tramite una politica monetaria disperata (tipo l’uscita dall’euro) è sbagliato. È come bombardare l’Iraq in risposta all’attacco alle torri gemelle: c’entra poco o nulla. Magari si vuole fare per altre ragioni, ma con la crisi attuale l’euro proprio non c’entra. Quello che c’entra non è appunto la politica monetaria, ma bensì la politica fiscale dei paesi in maggior difficoltà.
È vero che l’attuale crisi ha le sue radici in uno shock esterno. La crisi finanziaria del 2008 e 2009 non è nata in Italia o in Grecia, ma l’atrofizzarsi dell’economia globale ha ridotto le entrate fiscali per tutti i paesi, e gli stati fiscalmente più deboli, e cioè con un debito pubblico maggiore, si sono trovati in prima linea. Quando arriva un’epidemia sono i più deboli di salute a lasciarci le penne, anche se i più avveduti al proprio stato fisico. L’economia italiana oggi paga i decenni di indebitamento dello stato italiano. Una politica fiscale che ha speso addirittura di più di quanto tassava, drogando temporaneamente la crescita con una spesa pubblica eccessiva, e con investimenti pubblici che evidentemente non hanno lasciato traccia come maggiore crescita. Esistono purtroppo ancora troppi dinosauri che nel 2012 credono ancora che la ricetta della ripresa stia nelle opere pubbliche. In parte sbagliano nel credere che la perdita di competitività sia dovuta ad una mancanza di infrastrutture rispetto ad altri paesi europei, perché sono ben altre le ragioni che inducono le nostre imprese a chiudere. In parte ignorano totalmente il vincolo di bilancio, perché la spesa pubblica la devi finanziare o con ulteriore indebitamento (e siamo arrivati al capolinea per il debito pubblico) o sottraendo risorse tramite ulteriori tasse (e siamo arrivati al capolinea anche qui) agli stessi cittadini che vorresti stimolare con una spesa pubblica.
La zavorra del debito pubblico l’abbiamo comunque ereditata, ma anche la politica fiscale attuata nell’ultimo anno lascia a desiderare perché si basa sul mantra “prima il rigore fiscale e poi la crescita” che ignora il banale fatto che il rigore fiscale basato su ulteriori tasse (IMU, IVA, ecc...) fa a pugni con gli stimoli per la crescita. L’attuale governo sta attuando una politica da contabili miopi svolta a far cassa oggi e che, o sottovaluta il peggioramento che causerà per il Pil, oppure spera che il Pil si riprenda in maniera esogena grazie alla ripresa dell’economia globale. Qui non si tiene conto che con la globalizzazione una ripresa della locomotiva tedesca non ha lo stesso impatto sull’economia italiana come vent’anni fa, perché la competizione si è fatta globale e l’industria italiana ha perso di competitività a causa di un problema strutturale che sta alla base di tutto.
I timidi tentativi di riforma del mercato del lavoro, delle privatizzazioni, o la recente promessa di ripagare i debiti che lo stato ha verso le imprese aiutano solo in maniera marginale. Se non si tocca il vero problema di competitività che ha l’Italia e che ormai ha messo in ginocchio troppe imprese uno scenario greco sarà alle porte. Il problema che l’economia italiana subisce è di natura fiscale, ed è sempre quello. Parte dell’Italia è soffocata da una pressione fiscale insopportabile che non viene minimamente bilanciata da altrettanti servizi pubblici come potrebbe essere in un’economia scandinava. I residui fiscali delle regioni settentrionali parlano da soli, dove la differenza tra tasse pagate e servizi pubblici ricevuti è a livelli di colonialismo. Non è possibile competere in una economia globale con uno svantaggio simile. Queste risorse sono poi redistribuite in maniera disastrosa, finanziando il sottosviluppo delle regioni meridionali anziché la crescita.
La vera riforma deve essere fatta alla radice di questo problema, e subito. Il primo passo da fare immediatamente è simbolico ma aiuterebbe guadagnare credibilità verso i mercati finanziari. È ridicolo che lo stato più indebitato d’Europa abbia una classe dirigente (i parlamentari) che vengono pagati tre volte tanto la media dei loro colleghi europei. Solo riportando immediatamente gli stipendi in media europea si risparmierebbero 100 mila euro per parlamentare all’anno. 100 milioni di euro risparmiati ridimensionando il migliaio di parlamentari, 100 milioni di euro facendo altrettanto con il migliaio di consiglieri regionali strapagati, e si potrebbe arrivare tranquillamente ad 1 miliardo operando sulle migliaia di pensioni d’oro e privilegi. Una manovra di un miliardo può sembrar poco ed insignificante, ma è inacettabile risquotere 10 miliardi a milioni di cittadini con l’IMU quando la classe dirigente assomiglia all’aristocrazia francese di fine ‘700.
Il secondo passo è la vera riforma: un’immediata struttura federale, non quella centralista della Lega, ma una vera struttura federale dove ogni regione trattiene la totalità delle proprie risorse e ha la piena libertà di politica fiscale (per abbassare le tasse) come avviene nei veri sistemi federali. Questo permetterebbe di eliminare le inefficienze abissali nelle regioni abituate all’assistenzialismo, e consentirebbe alle altre regioni di praticare una politica fiscale adatta per poter competere con il resto d’Europa e del mondo. Il problema del debito pubblico? Dovrà essere ripartito per regioni, anche se questo con tutta probabilità si tramuterà, in alcuni casi, in potenziale default.
Se questa riforma non avviene dal parlamento di uno stato che si è dimostrato irriformabile, ricordiamoci che uno stato altro non è che un ente che offre un servizio (pubblico) in cambio di un prezzo (tasse). Se questo ente si rivela obsoleto e inefficiente, si ristruttura anche smantellandolo come si fa per le grosse imprese.
non sono un economista, ma un assiduo lettore di questo blog. come sono anche un assiduo lettore dei blog di krugman, cowen, delong, thoma, FT etc. lo faccio - o almeno ci provo - con pazienza e open-mindedness. e con uguale pazienza leggo affermazione più o meno perentorie che portano a diagnosi e terapie diverse o addirittura incompatibili.
per un lettore, come dire?, educated ma non tecnico di dispute macroeconomiche e di political economy, è frustrante. non mi è mai piaciuto il principio di autorità, quindi per me un premio nobel non vale più di un altro prof che argomenta con coerenza e precisione.
vorrei quindi chiedere alcune cose:
1) che effetto avrebbe una ristrutturazione fiscale severa sulla domanda già depressa? ce la possiamo permettere in tempo di recessione? quali sono le ragioni specifiche per cui si ritiene del tutto sbagliata oggi, nel breve periodo, una politica fiscale espansiva finanziata da Germania e stati più in salute a fronte di misure di ristrutturazione avviate oggi per produrre effetti nel medio periodo?
2) in altre parole: delong-summers sulla autofinanziabilità di una politica fiscale espansiva USA in tempo di recessione è replicabile in una Europa a tesoreria accentrata o quasi (eurobond etc?)? oppure c'è una contrarietà di fondo all'idea della policy espansiva per se? e questa contrarietà è più politica che economica?
3) siamo d'accordo che una severa correzione dei flussi fiscali verso il sud accentuerebbero nel breve-medio periodo i problemi del sud? che gli "sprechi" sono pur sempre sprechi verso qualcuno che poi fa la spesa in bottega, va dal dentista, paga il meccanico e manda i figli a lezioni private? più in generale: il federalismo perché dovrebbe fermarsi alla regione? perché non al comune o al quartiere? dopotutto milano è 10volte la val d'aosta e due volte il wyoming (per popolazione)? non so se ci siano studi sulla dimensione ottimale di un ente impositore (che poi trattiene tutte le entrate fiscali). il mio sospetto è che ci sia un enorme retaggio storico nonché un'enorme arbitrarietà nello stabilire questi confini.
grazie per l'eventuale risposta a questo o quel dubbio.
Come RobertoT, non sono un economista e, a differenza sua, ho iniziato a leggere questo blog solo recentemente, quindi probabilmente mi sono perso qualche discussione gia' fatta a riguardo. Ma, in ogni caso, quando leggo che:
la prima cosa che mi viene in mente e': e il Giappone? E' il paese con uno dei piu' alti debiti pubblici (rispetto al PIL) del mondo, ma quali sono i paesi che vengono invece puniti dai mercati finanziari? Mi sembra difficile non interpretare questa differenza come un problema di capacita' percepita di ripagare il debito (piuttosto che di livello di debito) e mi sembra difficile non attribuire tali diverse capacita' al diverso ruolo svolto dalla banca centrale.
Ma, ripeto, probabilmente mi sono perso qualcosa.
Ma questo è proprio il motivo per cui molti osservatori anche attenti (Krugman, Ryan Avent [R.A. del blog Free Exchange @ economist.com], De Long, talvolta anche Cowan) ritengono che l'€ sia un serio problema! Se la BCE avesse una politica monetaria sensata (che significa: molto più espansiva di quella attuale, perché le aspettative di mercato sono quelle che sono) non staremmo troppo a preoccuparci degli effetti di domanda di una politica di austerità. Alla questione fanno riferimento anche Alesina e Giavazzi in questo articolo su Vox, inserendo easy money policy al primo posto tra le necessarie "politiche di contorno" all'austerity.
(È vero che si pone una questione di distribuzione degli effetti tra i paesi dell'Eurozona, ma tale problema è semmai ancora più evidente nel caso di una politica di bilancio espansiva da parte dei paesi core, come pure viene proposto. Qui acquista importanza il livello di integrazione economica tra paesi.)
Attenzione, non è che con un intervento di questo tipo si risolvano tutti i problemi, anzi: i limiti di questa politica iniziano ad essere evidenti nel Regno Unito, che soffre di evidenti difficoltà strutturali dopo un decennio di statalismo laburista e una reazione mal ponderata alla crisi del 2008. E tuttavia, gli interventi di risanamento previsti dal governo Cameron sarebbero stati inattuabili senza il sostegno della Bank of England all'economia britannica. Lo stesso vale per altri tipi di "riforme strutturali": senza una stabile politica della domanda sono politicamente insostenibili.
1) Non ritengo la politica fiscale espansiva sbagliata. Tanto per essere sicuri di capirici, anche la riduzione delle tasse e' una politica fiscale espansiva. Non sono nemmeno contrario a finanziamenti esteri. Il punto e' che la Germania che ti tira un osso non e' una soluzione al problema di fondo, ma al massimo un rattoppo temporaneo (come la svalutazione periodica).
2) Allora, politica fiscale espansiva puo' essere piu' spesa o meno tasse. Politic fiscale restrittiva puo' essere meno spesa o piu' tasse (quella attuata da Monti). Se vuoi sapere quello che avrei fatto io e' meno spesa e meno tasse, in aggregato neutrale, con meno impatto immediato sui conti pubblici di oggi, ma perlomeno con un minimo di pieta' sulla crescita.
3) Hai ragione, questo punto andrebbe sviluppato. Io credo che l'evasione al sud e' rampante perche' culturalmente e' come pagare le tasse ad uno stato straniero. Credo (forse e' piu' una speranza) che con uno stato proprio (in un sistema federale o no, centra poco) aumenti la responsabilita' e le risorse per pagare i propri servizi arrivino dall'enorme economia sommersa.
Ho provato a cercare di rispondere a queste domande. Mi sono reso conto di non essere in grado di farlo, non le capivo. Le trovavo "autocontradittorie". Incuriosito mi sono quindi andato a vedere chi le faceva.
Nella presentazione di RobertoT trovo questa frase (che riassume a suo avviso una profonda riflessione di Paul Krugman).
Bene, vediamo. La famiglia Rossi guadagna 30mila all'anno, ed e' in affitto. Spende 3mila per l'affitto. Fa un mutuo per comprare una casa perche' deve finanziare 100mila del prezzo della casa. Glielo concedono e si compra la casa. Il mutuo e' N-ennale (N=10, 20, 30, fa lo stesso) e la rata annuale e' di 6mila, come nell'esempio di Krugman.
Il valore di 6mila (per definizione di rata ipotecaria) deve essere tale che la rata ipotecaria fissa contiene quota capitale e interessi tali da rendere uguale il valore scontato presente dei due flussi (pagamenti mensili della famiglia alla banca, prestito inziale ed interessi sul prestito residuo della banca alla famiglia) lungo la durata del mutuo, N anni. In parole povere, il valore di 6000 e' quello che, dato 100mila, N ed r (tasso dell'interesse fisso su N anni) soddisfa il vincolo "ricardiano" nel linguaggio della vulgata (la parola tecnica suona complicata, evitiamola).
Il reddito della famiglia non varia in seguito all'acquisto della casa, ne' all'accensione del mutuo. Vi sono quindi solo due scenari possibili:
1) La famiglia Rossi intende fare default sul debito prima o poi. In questo caso non riduce il proprio consumo dei 3000 all'anno che, sommati all'affitto che gia' pagava, son sufficienti a pagare la rata del mutuo uguale a 6000. Lo riduce, per dire, di solo 2000, pagando un totale di 5000. Dopo qualche mese la casa viene espropriata.
2) La famiglia Rosse non intende fare default. Riduce il proprio consumo di 3000, paga 6000 per il mutuo durante gli N anni a venire e tutti vivono felici e contenti.
Nel caso 1) l'equivalenza ricardiana e' violata.
Nel caso 2) l'equivalenza ricardiana e' soddisfatta.
Paul Krugman, evidentemente, ritiene che tutte le famiglie che accendono mutui (o, almeno, tutte quelle di cui lui parla e scrive) lo facciano con l'intenzione di fare default cosicche' lui possa andare in giro a dire che l'equivalenza ricardiana sul debito pubblico non vale ed i consuamtori sono irrazionali.
Per quanto mi riguarda io traggo le seguenti conclusioni da questa storiella
i) se l'equivalenza ricardiana su debito pubblico e tasse vale, storicamente, e' questione empirica ancora non risolta in modo definitivo, se mai lo sara';
ii) Paul Krugman dovrebbe cercare di inventarsi esempi almeno coerenti nel suo tentativo di convincere il popolo che le sue affermazioni di politica economica sono corrette;
iii) forse non serve lo faccia perche' chi ha voglia di credergli gli crede comunque, in base al principio di autorita', fregandosene del fatto che dica cose assolutamente incoerenti.