Michele: rieccomi a fare l'avvocato del diavolo. Dici alla fine della prima parte:
Tecnicamente ci si può rifugiare nella finzione che c’è una preferenza che comprende tutto, e dire che le preferenze non sono cambiate. A me pare un trucco.
A me non sembra un trucco, anzi mi sembra un approccio che pone una domanda interessante. Se dopo aver appreso la musica classica, averla ascoltata per parecchio tempo, averla comparata con altri stili" si decide che "piace" e si cambia la scelta di cosa ascoltare, questo fatto suggerisce che esiste da qualche parte della nostra famosa "mente" un qualche "organo" che può essere educato a ricevere piacere da cose diverse, se queste cose diverse soddisfano certi requisiti. La domanda chiave, da un punto di vista scientifico, è: quali sono questi "requisiti"? Puoi tentare quanto vuoi, ma non conosco nessuno che riceva piacere quando esposto ai rumori del traffico o al chiasso della folla disordinata, o allo stridere dei treni in frenata. Se scopro che, allenandoli, i muscoli delle mie dita permettono alle medesime di fare cose, in arrampicata per esempio, che prima non ritenevo possibile, sto scoprendo qualcosa di interessante sulle proprietà di quei muscoli, no? Lo stesso mi sembra vero per le preferenze verso Bartok o verso il sashimi o verso i quadri di Magritte. Insomma, non ti sembra che proprio questa modificabilità condizionale (nel senso: ci sono alcune cose che si impara ad apprezzare e moltissime altre che assolutamente non si impara mai ad apprezzare) delle preferenze rivelate suggerisca che esistono delle stabili preferenze profonde che definiscono, a mio avviso, ciò che chiamiamo "natura umana"? Se poi questa va lentamente cambiando su di un orizzonte temporale di 10mila anni invece che di 500mila, mi va benissimo lo stesso perché è una frequenza comunque molto lunga rispetto a quella della storia di cui ci occupiamo noi economisti. Ciò che è rilevante, per me, è che per svariati millenni esiste una "natura umana" relativamente stabile che si articola in diverse culture e le determina. E se questa natura umana cambia nel corso dei millenni, diventa un argomento di ricerca affascinante capire come questo avviene.
Siamo nati egualitari, o competitivi?
Aldo: Il trucco è quello formale di dire per esempio questo. Le preferenze oggi dipendono dalla serie dei consumi passati, quindi cambiano giorno per giorno. Però la funzione che per ogni serie passata di consumi dà l'utilità oggi è la stessa, quindi le preferenze sono stabili. Dico che è un trucco formale perché non mi dice nulla su queste preferenze stabili. Quello che vuoi tu è molto più preciso, cercare di capire se ci siano e che caratteristiche abbiano queste strutture profonde.
Questo è quello che sostengono gli psicologi evolutivi. Non so se hanno affrontato il tema di quale sequenza di suoni siamo disponibili ad accettare come piacevoli, ma hanno individuato nella loro ricerca tutta una serie di caratteristiche profonde. Molti degli esempi sono soprattutto osservazioni divertenti e innocue. Altre molto meno, e lo dico per introdurre un altro punto importante sulle preferenze.
Ecco prima alcuni esempi innocui. Gli uomini di tutte le culture preferiscono donne con rapporto fra misure di vita e bacino di 0,7. Siccome questo fatto si ritrova in culture diverse, è improbabile che abbia una radice culturale. La ragione sarebbe che quel rapporto è segno di una buona capacità di portare a buon termine la gravidanza. Un altro esempio: avremmo una preferenza innata per volti simmetrici. Ma di esempi di preferenze profonde per attrazione fisica ce ne sono tanti, e hanno tutti una qualche spiegazione evolutiva.
Questi sono esempi di preferenze profonde, divertenti e inoffensive; e infatti anche poco controverse, specie al di fuori dell'accademia. Vediamo invece un esempio in cui questa idea ha sostanza politica. Si trova bene espressa in un libro recente, che ha suscitato nell'ultimo anno una discussione accesa (The Spirit Level, Wilkinson and Pickett). Un'idea del dibattito la trovate nella voce di Wiki, ma c'è un sito specializzato nella difesa del libro e delle sue tesi e uno specializzato nella critica, e siccome io credo nella libera discussione delle idee li riporto tutti e due. È tutto in inglese, ma la traduzione italiana è in preparazione, quindi fra qualche mese ne parleranno anche i giornali italiani. Cosa dicono questi?
Ecco il ragionamento sviluppato nel libro, in quattro mosse. La prima mossa stabilisce con grande fermezza l'origine lontana della natura umana: "per almeno due milioni di anni, che coprono la più gran parte del tempo in cui siamo stati anatomicamente moderni gli essere umani sono vissuti in gruppi che praticavano caccia e raccolta, gruppi sorprendentemente egalitari. La disuguaglianza moderna è nata con lo sviluppo dell'agricoltura.'' (pagina 205) I gruppi erano egualitari perché, come sa chiunque sia stato cacciatore e raccoglitore, la società funzionava sul costante controllo che la spartizione del cibo fosse uguale.
La seconda mossa è una deduzione: quando, per qualche distorsione dovuta ai mercati, una società sviluppa disuguaglianza del reddito, questo fatto cozza contro queste preferenze profonde, e crea crisi, e una lunga lista di patologie sociali e mediche. Disuguaglianza guardate bene del reddito, non delle opportunità.
La terza mossa è una serie di fatti, e qui è il succo del libro: un esame di correlazioni in diversi paesi fra disuaglianza del reddito o della ricchezza, e una serie di indicatori. Per esempio: salute fisica, salute mentale, uso di droghe, educazione, violenza, gravidanza fra minori. Che queste correlazioni ci siano veramente, quanto sono robuste fa parte del dibattito che ho citato. Non è neppure chiaro che abbiano considerato tutte le variabili: per esempio gli autori non parlano del suicidio, dove la correlazione va nella direzione opposta (più disuguaglianza più suicidi).
Basti una osservazione: una letteratura in economica dimostra che questa relazione non c'è. Per esempio, nel suo survey (o vedi anche questo) Angus Deaton conclude: ''Non è vero che disuguaglianza del reddito di per sé è una causa importante del livello di salute pubblica. Non c'è una relazione robusta fra lunghezza della vita attesa e disuguaglianza del reddito nei paesi ricchi, e la correlazione che si trova quando si guarda a stati e città degli USA è quasi certamente dovuta a variabili che sono correlate con disuguaglianza del reddito, ma non la disuguaglianza di per se'''.
Infine la quarta mossa. È vero, quelle presentate in tutto il libro sono correlazioni, quindi non dicono nulla sulla direzione causale. Però siccome le preferenze profonde sono state fissate negli ultimi due milioni di anni, e sono ugualitarie, e i mercati sono recenti, e creano disuguaglianza, la causa di ogni male è la disuguaglianza. Per esempio, in America si ingrassa più che in Svezia perché la classe media, resa ansiosa dalla maggior ricchezza dei vicini, mangia troppo.
Conclusione di policy: se la disuguaglianza è la radice dei mali di una società, la cura è una politica di redistribuzione. Del reddito. E se la disuguaglianza ritorna, si continua a redistribuire. Anzi, siccome è la disuguaglianza di per sé la causa del problema, addirittura basterebbe ridurre il reddito dei più ricchi, e già questo allieverebbe il problema. Chiaro? Ci credi?
Ora, il dibattito fino ad ora è stato tutto sulle correlazioni. Io posso aggiungere a questo dibattito una osservazione. Che le preferenze "profonde" siano universalmente a favore della uguaglianza è, in questa letteratura, fondato su una deduzione (gli hunter and gatherers dovevano per forza essere egualitari) che procede da una assunzione (l'evoluzione è ferma da dieci mila anni e più) ed è basata su una finzione (noi siamo, per struttura psicologica, hunters and gatherers). Però che le preferenze siano universali è una ipotesi testabile. Per esempio basta guardare alla distribuzione del fattore di personalità (dei Five Factors) che si chiama Agreebleness, la cosa più vicina a preferenza per l'uguaglianza. La distribuzione ha una forma quasi normale, a campana, ben diversa da quella che si avrebbe se ci fosse sostanziale uniformità.
Michele: Capisco dove tu voglia andare a parare, ma non mi sembra che il gioco valga la candela. Ossia, non mi sembra che la strada migliore per contrastare propaganda del genere sia prendere la posizione che le preferenze sono cambiate negli ultimi diecimila anni e che, quindi, ci siamo abituati alla disuguaglianza economica .... Non mi sembra vi sia evidenza per un lato o per l'altro, per cui non vedo ragione di strapparsi i capelli su questo tema. Tanto per dire, anche se dimostri che le preferenze sono cambiate X<<< 10mila anni fa, poi dovrai fare i conti con gli storici economici antichi che ti spiegano che ai tempi di Atene o financo di Roma le relazioni economiche non erano ispirate alla massimizzazione del profitto, che gli agenti non erano "razionali" nel senso nostro, che non c'era lo scambio ma c'era il dono, e via menate. A quel punto che fai? Sostieni che le preferenze sono cambiate da Diocleziano o Costantino ai giorni nostri? Deboletta, no? Mi sembra meglio lavorare sui fatti che costoro portano e vedere se reggono.
Teorizzare che la diseguaglianza economica è la fonte di tutti i mali e che essa è un prodotto del "capitalismo" o dei "mercati" è di moda da alcuni decenni e lo sarà sempre di più. Amen. Questi argomenti mi sembrano deboli per mille altre ragioni, soprattutto storiche, ma non ci si guadagna molto a discuterli qui. Ripeto: forse i nostri gusti sono quelle di 500mila anni fa o forse sono stati alterati 10mila anni fa e si sono stabilizzati 3 o 4mila anni fa: fatto è che non lo sappiamo. E, per fare ragionamenti di policy, sono le preferenze che abbiamo ora che ci interessano quindi l'unico lavoro utile è cercare di capire quale parte delle nostre preferenze attuali siano "gusti" e quale altra parte siano "beliefs". Punto.
Aldo: A coloro che sostengono di voler cambiare le preferenze io chiedo: "È possibile definire una direzione giusta del cambiamento?" Nel suo intervento Andrea Ichino non diceva solo che le preferenze si possono cambiare (su cui concordiamo, come siamo andati spiegando) o che sarebbe bene farlo (su cui abbiamo serie perplessità). La sua proposta va molto più lontano ed è qui che veramente le differenze fra punti di vista sono significative.
Andrea chiede di poter valutare se un nuovo profilo di preferenze sia preferibile, dal punto di vista del welfare. La ragione è cristallina: solo se c’è questo criterio si possono fare proposte di policy per cui sia sensato porsi la domanda: E’ questa policy una buona idea? Cioé chiede e vuole poter dire che un certo cambiamento è per il meglio, e invece magari un certo altro cambiamento è un peggioramento.
E’ già stato fatto notare (da Mariotti) che se le preferenze cambiano allora il metro per valutare se il cambiamento è un miglioramento del benessere è già venuto a mancare. Torniamo però all’esempio della donna che deve decidere se lavorare o meno. Lavorare è una lotteria, con conseguenze casuali, inclusi gli effetti sui figli. Concentriamoci su queste conseguenze. Una probabilità soggettiva (di quelle che chiamiamo prima belief) - chiamiamola tradizionale, di proposito, dice che la probabilità di conseguenze negative è alta, un seconda (moderna) dice invece che è bassa. Le due probabilità, quindi le due preferenze, danno scelte diverse: dal punto di vista delle preferenze tradizionali il cambiamento a una probabilita'-preferenza moderna, quindi alla scelta di lavorare, è chiaramente un peggioramento. Qui la teoria standard ci lascia per strada: ma il punto è che nessuno (basta fare una inchiesta) nemmeno fra gli economisti, si ferma qui.
La donna, nella realtà, se ha la possibilità si informerà, e vedrà quale dei due beliefs lei sia disposta a credere. In sostanza la donna (non lo stato) decide fra preferenze. Non è nemmeno detto che scelga nel modo "ovvio" (informazione più precisa) e se non lo fa secondo me nessuno ha il diritto di constringerla, o di "incentivarla", a farlo.
Michele: Ferma tutto, domandina: nel tuo esempio la donna “sceglie” di informarsi sulle due probabilità (la tradizionale e la moderna), ossia sceglie di spendere tempo per capire quale delle due stime è più statisticamente precisa, alla fine. Poi, una volta acquisita questa informazione, sceglie se fare un update (cambiamento) dei suoi beliefs. Fatto questo ha una funzione di utilità attesa nuova (oppure ha quella di prima se non ha cambiato nulla) e fa la sua scelta normale. Perfetto, ma per arrivare a questo stadio che sappiamo modellare la signora ha dovuto fare ben altre due “scelte”, per fare le quali deve aver ovviamente utilizzato qualche sistema di preferenze e beliefs, un sistema di preferenze e beliefs ovviamente altro da quello che (attraverso quelle scelte) intende modificare, se del caso. Come la mettiamo? Dove siedono questi altri sistemi di preferenze e beliefs, quelli che utilizza per decidere se informarsi o meno e se, una volta raccolta l’informazione, cambiare o meno i suoi beliefs sulle due probabilità di partenza, la moderna e la tradizionale?
Ritorniamo, io credo, alla questione che avevo sollevato inizialmente e sulla quale continuiamo a non esprimerci. A mio avviso abbiamo bisogno almeno di una molteplicità (Parallela? Funzionale? Modulare?) di sistemi di preferenze (di nuovo nel senso di mix fra utilità/gusti e beliefs), se non addirittura di una gerarchia delle medesime, o no? Non mi pare una questione di lana caprina, o una finzione come la definivi prima, proprio per niente. Se voglio capire il comportamento di questa donna davanti alla scelta di lavorare, devo riuscire a modellare l’intero processo di scelta. Dire semplicemente “sono cambiati i beliefs”, quello sì che è abbastanza aria fritta. I beliefs non cambiano da soli, cambiano solo se li facciamo cambiare, il che implica decidere, ossia scegliere, di fare cose che possono portare ad un cambiamento dei beliefs. Questo richiede delle preferenze che governino le preferenze che stiamo permettendo di cambiare, o no? Altrimenti sembra lo shock esogeno dei macroeconomisti, che spiega sempre tutto ma non si sa da dove venga né che cosa, realmente, sia.
Ora questa osservazione non solo indica una linea di ricerca che, a mio avviso, viene trascurata e sarebbe invece proficua. Questa osservazione ha valenza per l'argomento che ti interessa e si collega al commento di Marco Mariotti che citavi prima. Poiché non abbiamo la più vaga alba di come gli individui decidano di apprendere per decidere, ossia sulla base di quali preferenze (di livello N) decidano di operare per modificare le loro preferenze (di livello N-1), il "would be planner" (ossia, lo stato nelle sue mille forme ed apparati, inclusi quelli intellettuali) non ha alcun titolo né alcuna ragione per mettersi nel business di modificare le preferenze della gente. Detto altrimenti, poiché non abbiamo la minima conoscenza di cosa gli individui considerino essere "desiderabile" nel modificarsi delle loro preferenze e poiché, chiaramente, notiamo una enorme eterogeneità in questi processi decisionali (e.g. alcuni decidono di modificare i propri beliefs su un tema, altri no; alcuni decidono di farlo in una direzione, altri in un altra) nessuna affermazione pseudo-scientifica che dica "noi sappiamo che la direzione corretta ed efficiente di modificazione delle preferenze è questa" può essere presa sul serio. Brutalmente: non esiste alcuna giustificazione scientifica per argomentare che lo stato ed i suoi apparati dovrebbero agire per cambiare le preferenze della gente in una direzione o l'altra.
Aldo: D’accordo. L’idea di preferenze stabili, date, che non si possono o non si devono modificare, è stata abbandonata da tutti. La domanda vera è se si possa dare un criterio di valutazione che dica che un certo profilo di preferenza sia preferibile, dal punto di vista del welfare, ad un altro. La risposta è che, come per ogni altra scelta, quella fra preferenze è fattibile, ma va lasciata ai singoli individui. Anche quando sembra che la scelta sia "ovvia". De metagustibus non disputandum est.C’è un’ultima questione, che introduco qui alla fine perché è la più importante.
Un modo in cui le preferenze cambiano è questo: si può imparare ad essere più dipendenti. Può succedere per apprendimento, cultura, o addirittura per vie genetiche. Un esperimento mi ha sempre affascinato, e lo riporto volentieri, perché come vedrete la interpretazione è controversa.
Cani e Lupi
Uno studioso ungherese (Adam Miklosi: il suo libro sul cane è una lettura affascinante) ha studiato come cani e lupi si comportano di fronte a un certo problema. Il problema è quello di estrarre un pezzo di carne da una gabbia. Il trucco per tirarla fuori c’è, ma non si vede subito. Bisogna usare una certa corda, ma il modo specifico qui non ha molta importanza. Una esposizione semplice è qui (in inglese, non in ungherese).
Gli animali sono scelti in condizioni controllate: cani e lupi della stessa età, per esempio. In particolare, i lupi sono scelti in un gruppo che era stato allevato nelle stesse condizioni dei cani, di familiarità con gli uomini. Sia lupi che cani vanno a questo esperimento con un padrone/guida, cioé l’essere umano che è stato scelto per stare vicino all’animale (lupo o cane) durante la crescita, visitandolo diverse volte al giorno, dando il cibo all’animale, e così via. Il risultato fondamentale è il diverso comportamento di cani e lupi.
I cani provano una volta, falliscono, e poi si mettono a guardare speranzosi il padrone/guida. Se il padrone/guida dà un certo suggerimento, loro sono capaci di seguirlo. Se il suggerimento non arriva, guaiscono e si mettono sdraiati ad aspettare. I lupi provano, riprovano, falliscono, ma non si arrendono e non cercano aiuto, e non guardano al padrone. Alla fine, la carne riescono a prenderla. Da soli. L’enfasi, quando questi risultati vengono presentati, è su come siano sociali e sviluppati i cani, che sanno leggere suggerimenti forniti dall’uomo, e che quindi hanno una teoria della mente, a differenza dei lupi. E giù riflessioni su come è bello che l’istinto sociale si sviluppi, e tutti, uomini e cani, imparino a vivere in società, a contare sull’aiuto degli altri, io levo le pulci a te che tu le levi a me, io lavoro e tu mi tassi, e così via. Io ci leggo una lezione diversa.
Michele: anche io. Ma davvero c'era bisogno di lupi e cani? Io ed il signor X teoricamente apparteniamo ancora alla stessa specie. Eppure, l'altro giorno, alla falesia del Sass della Stria c'era un passaggio che né io né lui riuscivamo a fare. Non era esattamente lo stesso passaggio, è vero, ma erano uno accanto all'altro e, secondo le relazioni, uno era di un epsilon più duro dell'altro. In ogni caso, ai primi due tentativi né io né lui siamo riusciti a passare, diciamo che era una cosa tecnica. Io ero con uno che è amico mio da 40 anni (ed è Istruttore Nazionale); lui con il suo, una guida del luogo che gli faceva da primo. Beh, uno di noi ha fatto il cane, l'altro il lupo ...
Ho capito la cosa delle lezioni, ma alla fine non ho capito se hanno la pancia piena più i cani o i lupi.
ed eventualmente chi se l'è riempita prima
non ho capito se hanno la pancia piena più i cani o i lupi.
I lupi. I cani in questo esperimento non hanno diritto di voto sul padrone.