Dell’infortunio contagioso

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Questa legislatura è inesauribile fonte di ispirazione per l’artista che vive, segretamente, dentro ognuno di noi. Immagino concordiate che i politico(os)i son sicuramente meno affascinanti dell’arte giapponese, delle ballerine per Degas e di Saint-Lazare per Monet. Provo quindi a scrivere dopo essermi fatto legare – di spalle – all’albero: con le orecchie ben aperte ma il naso turato.

Il comma 2[1] dell’art. 42 del decreto (in)CURA Italia, convertito in L. 24.04.2020 n. 27(GU Serie Generale n.110 del 29-04-2020 – Suppl. Ordinario n. 16), classifica come INFORTUNIO il contagio COVID19 del lavoratore. Questa soluzione interpretativa consente la rivalsa sul datore di lavoro da parte del collaboratore infortunato durante l’attività lavorativa. Tale scelta è frutto di precisa convergenza tra governo e sindacati, qui per i dettagli. che raccoglie l’indirizzo dato dall’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (I.N.A.I.L.).

La nota I.N.A.I.L. prot. n. 3675, è stata diffusa il 17 marzo 2020, alcune ore prima del D.L. 17.03.2020 n. 18. Il documento “chiarisce che i contagi da Covid-19 […] sono inquadrati nella categoria degli infortuni sul lavoro”. Tale nota era comprensibile perché riguardava lavoratori altamente esposti al rischio di contagio: medici, infermieri e “altri operatori di strutture sanitarie in genere, dipendenti del Servizio sanitario nazionale e, in generale, di qualsiasi altra Struttura sanitaria pubblica o privata assicurata con l’Istituto”.

L’Istituto equiparava all’infortunio i contagi “avvenuti nell’ambiente di lavoro oppure per causa determinata dallo svolgimento dell’attività lavorativa”. Precisando che “nel caso in cui, infine, gli eventi infettanti siano intervenuti durante il percorso casa-lavoro, si configura l’ipotesi di infortunio in itinere”. Poco dopo l’INAIL ribadisce il concetto: “per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus.” (pag. 7 Circolare n. 13 del 3 aprile).

In tale documento, come di prassi, viene anche esteso l’ambito della tutela.

A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari.” (pag. 7 Circolare n. 13 del 3 aprile)

L’INAIL precisa che ““le predette situazioni non esauriscono, però, come sopra precisato, l’ambito di intervento in quanto residuano quei casi, anch’essi meritevoli di tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione semplice””.

Questa ultime due macrocategorie estendono di molto l’ambito dell’infortunio/contagio e  avrebbero dovuto pretendere un cambio del passo statale: per la soluzione del problema soprattutto in termini di prevenzione. Il cambio di passo è diventato un galoppo per il cavallo/datore di lavoro privato, da frustare e pungolare a dovere, privandolo della carota…

In tale ottica continua la campagna di assunzioni “strategiche”, tra cui 10.000 nuovi ispettori del lavoro per spremere l’im(MONDO) IVA, ignorando le sue obiezioni. Le osservazioni dei datori di lavoro hanno prodotto la secca risposta dei sindacati: “Avevamo chiesto il rafforzamento degli ispettorati del lavoro, – prosegue la nota di Cgil, Cisl e Uil – tanto più in un sistema come quello cuneese fatto di piccole e medie imprese, contrastando la logica dell’appalto, del subappalto e della precarietà che sono le cause principali della crescente insicurezza per chi lavora”. 

Torniamo all’infortunio da COVID19, il cui rischio ovviamente si accresce nella Fase2. Sorgono alcune domande:

  • Come può il datore di lavoro dimostrare che il collaboratore non è stato contagiato in azienda, se lo STATO non fa test a tappeto e adotta un tracing volontario?
  • Come si può dimostrare incontrovertibilmente il momento del contagio, stante il tempo di incubazione e la scarsa conoscenza che si ha del virus?
  • Con quale frequenza deve essere sanificato l’ambiente di lavoro per poter AZZERARE il rischio, onde premunirsi dal contagio e conseguente azione da parte dei dipendenti e dell’INAIL?
  • Quali sono le conseguenze penali per un datore di lavoro che riavvii l’attività senza poter disporre dei presidi di protezione individuale: introvabili dopo la sparata dei 50 cent di #arcuririposati?
  • Sarà mica una probatio negativa/diabolica?

Come accennato prima, il contagio in occasione di lavoro comprende il tragitto A/R nel luogo di lavoro. Se il contagio avviene in itinere allora trattasi di infortunio sul lavoro (circ. INAIL 13/2020). Immaginate cosa potrebbe succedere a tutti coloro che utilizzeranno i mezzi pubblici, anziché un mezzo proprio come suggerito dalla Circ. 13/2020.

I reggenti hanno detto di utilizzare il più possibile lo smart working, inapplicabile a molte attività. Situazione aggravata dalle condizioni in cui si trovano le infrastrutture italiane, tra cui quelle telematiche.

Ma in questa triste occasione i politico(os)i hanno veramente esagerato nel tentativo di compiacere il loro elettorato. Senza efficaci azioni preventive, l’ampliamento ad libitum dell’equazione COVID19 = INFORTUNIO è l’ennesima prova che governo ed apparato burocratico scelgono sistematicamente di scaricare i propri limiti sui datori di lavoro e, in generale, su chi fa impresa, grande o piccola che sia.

dati diffusi dall’INAIL evidenziano una maggiore esposizione al rischio del personale sanitario e socio-assistenziale: “Dall’analisi per professione dell’infortunato emerge che la categoria dei “tecnici della salute”, che comprende infermieri e fisioterapisti, con il 43,7% dei casi segnalati all’Istituto (e il 18,6% dei decessi) è quella più colpita dai contagi, seguita dagli operatori socio-sanitari (20,8%), dai medici (12,3%), dagli operatori socio-assistenziali (7,1%) e dal personale non qualificato nei servizi sanitari e di istruzione (4,6%)”. 

Ma per risolvere i problemi, finora irrisolti dallo Stato incinto di decreti attuativi, i datori di lavoro potranno contare su “cospicui stanziamenti”:

1)      “50 milioni di  euro  da  erogare alle imprese per l’acquisto di  dispositivi  ed  altri  strumenti  di protezione individuale” (art. 43[2] del  D.L. 17 marzo 2020, n. 18). I 50 milioni sono “a valere sulle risorse già programmate  nel bilancio  di  previsione  dello   stesso   istituto   per   il finanziamento dei progetti di cui all’art.11, comma  5,  del  decreto legislativo 9 aprile 2008 , n. 81.”  L’INAIL deve distrarre i fondi da tali progetti e trasferirli a INVITALIA, la stessa di #arcuririposati.

2)      50 milioni per “un  credito  d’imposta, nella misura del 50 per cento  delle  spese  di  sanificazione  degli ambienti e degli strumenti di lavoro sostenute e documentate fino ad un massimo di  20.000  euro  per  ciascun  beneficiario” (art. 64 del  D.L. 17 marzo 2020, n. 18). INVITALIA è stata incaricata di distribuire il credito d’imposta tramite click day, in perfetto stile guerra tra poveri. La dotazione finanziaria si  esaurita in pochi secondima ad InvItalia l’hanno celebrato come un successo!

Per l’Italia intera sono stati stanziati appena Mln 100: un AUTENTICO INSULTO. Quasi una provocazione è  l’esclusione di artisti e professionisti dai rimborsi di cui al punto 1), come precisato da INVITALIA nelle FAQ: “3. Sono ammessi i liberi professionisti? No, i liberi professionisti non rientrano nell’ambito dei soggetti ammessi a richiedere il rimborso.La norma di riferimento, rappresentata dall’articolo 43, comma 1, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (cosiddetto decreto cura Italia), stabilisce che il contributo per l’acquisto dei dispositivi di protezione individuale è erogato “allo scopo di sostenere la continuità, in sicurezza, dei processi produttivi delle imprese, a seguito dell’emergenza sanitaria coronavirus”. 

Tale esclusione non può essere stata una dimenticanza, infatti essa è ormai definitiva a causa della conversione in legge del decreto (in)CURA Italia.                

Altre domandine sorgono spontanee:

  1. Dov’è lo Stato etico se scarica tali costi sul datore di lavoro privato, chiamato a colmare lacune e inefficienze di uno Stato ASSOLUTAMENTE inadeguato a gestire il covid19?
  2. Lo scaricabarile sui datori di lavoro, quanto incrinerà la loro situazione finanziaria ed economica?
  3. Ma veramente è possibile intraPRENDERE in uno Stato che, in pandemia, continua a  PRENDERE e PREteNDERE?

Speranzosi attendiamo risposte dal deCRETONE (in)CURA Italia di maggio.

[1] Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro,  il  medico  certificatore  redige  il  consueto certificato di infortunio e lo invia  telematicamente  all’INAIL  che assicura, ai sensi delle vigenti  disposizioni, la relativa  tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro  sono  erogate  anche per il periodo di quarantena o di permanenza  domiciliare  fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non  sono computati ai fini della determinazione  dell’oscillazione  del  tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del  Decreto  Interministeriale  27  febbraio   2019. La   presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati.

[2]  Allo scopo  di  sostenere  la  continuità,  in  sicurezza,  dei processi produttivi delle imprese, a seguito dell’emergenza sanitaria coronavirus, l’Inail  provvede  entro  il  30  aprile  2020  a trasferire ad Invitalia l’importo di 50 milioni di  euro  da  erogare alle imprese per l’acquisto di  dispositivi  ed  altri  strumenti  di protezione individuale, a valere sulle risorse già  programmate  nel bilancio  di  previsione  2020 dello stesso istituto per il finanziamento dei progetti di cui all’art.11, comma 5, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.

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