Un'utopia chiamata Università

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Ancora un contributo sull'Universita' 

Quando leggo i vari interventi sull’Università italiana mi assale una vivida sensazione di scollamento dalla realtà. . Non sono un docente di prestigiose università americane (anche se mi capita abbastanza spesso di frequentarle) e non sono un docente di università italiane formato boutique (pochi studenti scelti, solo corsi avanzati e ancora molti fondi di ricerca):sono solo un docente di una buona università italiana (Firenze) che combatte ogni giorno con una cronica mancanza di fondi, con una burocrazia ottusa e con una situazione completamente stravolta rispetto a 30 anni fa quando ho scelto questa professione.

Per una questione di semplicità scompongo il tema in quattro punti:

1) US versus Italia. Alla fine degli anni 80 ho insegnato alla Northwestern University.  Fra gli studenti americani e quelli italiani saltavano all’occhio alcune differenze.  In USA si inizia a frequentare l'Università a 17 anni (contro i 19 degli Italiani), in compenso i programmi dei corsi  erano decisamente più semplici. Riassumendo, i due anni in più degli Italiani si misuravano in una maggiore preparazione e maturità che permetteva ai docenti di fornire corsi molto più formativi  di quelli proposti agli studenti Americani. Dopo la riforma di Bologna e l'introduzione del 3 +2, quando vado negli USA adesso  non vedo una sostanziale differenza fra il 17-enne  Americano e il 19-enne Italiano e non vedo molta differenza fra i corsi della triennale e i corsi per conseguire il bachelor. Visto che è impossibile ripristinare la situazione precedente perché non permettere anche da noi l'ingresso all'Università a 17 anni? Magari permettendo (in modo volontario) ai bambini di 5 anni di iscriversi alle Elementari e riducendo di un anno il corso degli studi (magari portando a 4 anni le Elementari o a 4 anni il Liceo). Con le risorse risparmiate si potrebbe re-introdurre il tempo pieno alle Elementari e alle Medie, con grande sollievo per le famiglie dove entrambi i coniugi lavorano. In questo modo le ore di docenza sarebbero meglio remunerate. Quando ero studente, il Professore di scuola faceva sicuramente parte della classe media, godeva di prestigio sociale e il suo salario era sufficiente per  una vita dignitosa. La serietà di un Paese e il suo interesse verso i giovani il futuro si misura anche nell'interesse verso la Scuola. La dichiarazione di  Berlusconi, che Monti è sostanzialmente fuori dalla realtà perché è un “Professore” abituato allo stipendio fisso, è la dimostrazione che è assolutamente necessario restituire dignità (anche salariale) e considerazione alla classe docente al fine  di rendere il nostro  Paese migliore e più “normale”

2) L'introduzione della parola “meritocrazia” nell'Università e Ricerca. Sicuramente ha rappresentato un decisivo passo avanti, ma sarebbe opportuna una implementazione migliore. Le mediane meramente quantitative introdotte dall' ANVUR non solo, come tutte le cesoie meramente quantitative, saranno foriere di plateali ingiustizie ma anche sono state “disegnate” in modo così barocco da rendere laboriosa ed incerta la loro applicazione. Inoltre una valutazione della professione del docente basata solo su dati bibliometrici  non valuta e non premia molteplici aspetti quali quelli didattici, organizzativi, di trasferimento tecnologico che pure sono essenziali per il buon funzionamento dell'Università. Probabilmente creare una agenzia realmente  indipendente che utilizzi anche criteri bibliometrici (ma non solo)  sarebbe un passo avanti. Magari la scelta migliore sarebbe quella di usare in prima istanza criteri bibliometrici semplici, ragionevoli e condivisi dalle comunità scientifiche al fine di fare una prima selezione sia per la scelta dei commissari che per  la scrematura dei concorrenti e lasciare a una commissione di commissari di riconosciuto prestigio  il compito  di selezionare gli idonei. Rammento che adesso si rischia che le Commissioni, sommerse da candidati da valutare in appena sei mesi di lavoro, sostanzialmente si limitino a certificare le idoneità stabilite dalle mediane quantitative e non diano un reale contributo qualitativo  nella selezione dei concorrenti.

 

3) Incentivi e disincentivi. Per essere  efficace la politica  verso i pubblici dipendenti (come per qualsiasi categoria di individui) deve dosare bastone e carota (come dice pure il Ministro Profumo), non bastone e mazza da baseball (come invece sembra essere la politica attuale verso Scuola, Università e Ricerca). A tutti (meritevoli e non meritevoli) è stato congelato lo stipendio, a tutti è stato aumentato il carico didattico (ed in uguale misura), a tutte le Università sono stati tagliati i fondi. Una volta introdotta una logica meritocratica sarebbe opportuno anche introdurre un sistema che premi il merito,  altrimenti non è logico aspettarsi risultati eclatanti se non si stimola la  competitività. Nonostante quello che si affermi sulla base di tabelle ufficiali che dipingono  noi Universitari come dei nababbi, il fatto che moltissimi giovani bravi (siano essi semplici borsisti, o abbiano già un posto fisso come ricercatori e  professori) si siano trasferiti e si stanno trasferendo in altri paesi Europei (flusso di uscita a senso unico) e lì intendano fare o proseguire la carriera universitaria, dimostra varie cose:

–                    in primis che l'Università Italiana è ancora in grado di produrre eccellenze e quindi le classifiche che ci pongono in posizione di assoluta retroguardia, colgono alcuni aspetti e ne trascurano altri, per cui vanno prese, come tutte le classifiche, come  fari che illuminano solo parte della scena.

–                    in secundis che gli stipendi (soprattutto quelli iniziali), la prospettiva di carriera, e i benefits ci rendono scarsamente attraenti non solo per  le eccellenze ma anche per giovani semplicemente bravi.

La soluzione sarebbe quella di salari differenziati, basati su valutazioni meritocratiche che ci permettano di attrarre giovani bravi attualmente diretti a rafforzare accademie di paesi Europei ed extra Europei.

4)                 L'autonomia delle Università. E' stata introdotta una autonomia che ricorda da vicino quella delle Regioni. Centri  di spesa senza capacità impositiva. Questo comporta che le Università non si sentano responsabili di dissesti finanziari (che saranno ripianati dal Governo centrale) e di assunzioni di incapaci. Non sono un fanatico dell'autonomia e preferivo il vecchio sistema pre-riforma basato su concorsi nazionali ed organici stabiliti per legge. Sistema alcune volte troppo rigido ma che impediva scempi come quelli a cui abbiamo assistito negli ultimi anni.  Ma visto che non si può tornare indietro, balliamo fino in fondo. Diamo capacità impositiva alle Università (permettendo loro di alzare con gradualità le tasse- magari obbligandole a erogare un numero sufficiente di borse di studio basate solo sul merito, altrimenti si finisce per  ripetere l'esperienza del presalario), permettiamo loro di selezionare a piacimento gli studenti, aboliamo il valore legale della laurea e lasciamo che sia il mercato (e non l'ANVUR) a dire se una Università valga o meno. In USA le assunzioni all'Università si basano sul sistema del  “beauty contest” e non su mediane, h-number e impact factors perché è il mercato che di fatto determina il ranking delle singole Università (confidando sempre nella  esistenza di una  mano invisibile alla Adam Smith).

Vincenzo Vespri

Professore di Analisi Matematica

Università di Firenze

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Commenti

Ci sono 37 commenti

concordo in toto con il suo contributo, tranne per un aspetto: non sono convinto che uno studente laureato in Italia abbia in media la stessa preparazione di un "collega" dei paesi anglosassoni...mi è capitato varie volte di confrontarmi sull'argomento con studenti erasmus e d'oltre oceano, e tutti concordano su una cosa: l'università nostrana pretende più delle università estere. forse poco più, ma più. tutti concordano nella maggiore difficoltà di preparare esami orali e/o scritti a domande aperte e esercizi rispetto ai test che sono più in voga all'estero, e tutti concordano sulla maggiore difficoltà di arrivare alla sufficienza (il discorso non vale, invece, per i voti alti). ho riscontrato poi varie volte un apprezzamento per lo sforzo di completezza dei piani di studio italiani, rispetto a piani di studi esteri che a volte pongono esami sul percorso prima dei corsi che gettano le basi necessarie ad affrontarli. i corsi nostrani sembrerebbero quindi più "strutturati" e formerebbero un percorso più armonioso, organico e graduale. se pure la preparazione in ingresso potrà essere la stessa, credo che in media uno studente italiano abbia trovato più difficoltà a conseguire il titolo, e sarà in media più preparato. per la laurea magistrale è un altro paio di maniche: credo sia sovrapponibile ai corsi stranieri, e forse siamo in deficit nel post laurea di dottorato (ma in compenso abbiamo "inventato" i master post laurea). ovviamente è un'impressione dettata dalla mia esperienza personale

Il tuo articolo e anche la lettura del tuo CV

riprendendo di striscio la polemica con Giovanni Federico, tu saresti il perfetto esempio di un insegnante che cerca di proporre cambiamenti dall'interno

mentre sulla cascata di commenti a proposito del concorsone si e' giunti all'assioma che sia impossibile proporre cambiamenti da chi lavora in un determinato settore. ma sto andando OT. Comunque avendo lavorato in cosi' tanti e diversi ambienti universitari secondo me tu puoi parlare concretamente dei cambiamenti da apportare nell'universita'; come sempre secondo me ci vuole un ascolto anche agli insegnanti e maestri della scuola dell'obbligo per apportare cambiamenti nella suddetta fascia di insegnamento.

Complimenti Vincenzo per la chiarezza espositiva. Mi piace il tuo stile, la chiarezza e anche il contenuto. Grazie

forse non  ci siamo capiti. So benissimo che gli insiders (professori universitari, professori di scuola media etc.) potrebbero proporre cambiamenti incisivi ed efficaci se volessero. Il problema è che non lo vogliono  o più precisamente che una minoranza attiva e sindacalizzata li combatte, la maggioranza silenziosa è indifferente e comunque li teme per paura di perderci e  la minoranza  di professori migliori che ne avrebbe vantaggio personale e generale non si batte per il cambiamento per un misto di paura della reazione dei colleghi, scoraggiamento dai fallimenti precedenti ed influenza della cultura di  sinistra. E i pochi che si battono per la riforma sono considerati dei pazzi rompiscatole.

Mi permetto di aggiungere, dalla mia assai limitata esperienza, un appunto. A mio parere una quota importante della diversa preparazione degli studenti italiani risiede (o, forse, risiedeva) nella preparazione "culturale" dei Licei.

In effetti, non sono poi convinto che, in media, le Università italiane offrano grande livello di preparazione - serve almeno incontrare professori bravi, e non sono molti, purtroppo - ma si innesti su un sostrato culturale bel superiore a quello di altri Paesi.

E' evidente che, di anno in anno, questa differenza vada assottigliandosi, e non per meriti di altri sistemi scolastici...

E' per me inoltre evidente che se uno studente universitario ambisce ad una preparazione spendibile nel mondo del lavoro, in genere deve "arrangiarsi". Nel mio caso personale all'interno dell'Università delle opportunità in questo senso c'erano, ma completamente avulse dal precorso standard, talvolta perfino contrapposte.

Insomma, penso che l'Università italiana sia una sorta di "brodo di coltura", che da sola può fare ben poco, ma in presenza di condizioni particolari può permettere ad alcuni soggetti di "catalizzare" la loro conoscenza. Ma non credo che basti per farne una buona Università...

  Trovo interessante l'analisi del Professor Vespri, e largamente condivisibile. Qualche osservazione sui punti 2 e 3 .  Perfettamente d'accordo sull'idea di limitare in qualche modo i dati bibliometrici, che hanno completamente invaso un campo che dovrebbe essere di esclusiva pertinenza del professore universitario: quella di scegliere chi dovrà succedergli nel lavoro. Non credo si tratti di retorica, ma fa parte del sentire comune l'idea   che esistano "maestri" ed "allievi". Se poi ciò è degenerato in nepotismo e familismo, non è un buon motivo per distruggere il principio, delegando all'informatica la scelta dei docenti più giovani. Se poi vogliamo anche supporre che il miglior metodo sia quello dato dagli automatismi delle mediane, resta insoluta una questione: è proprio vero che il professore universitario va giudicato SOLAMENTE per la ricerca che svolge, e quindi per numero e qualità di articoli che compaiono sulle riviste specializzate? Non bisogna tenere conto delle capacità didattiche, del contributo che può dare all'organizzazione, ed a tutte quelle altre attività culturali che caratterizzano l'essere un professore universitario?   Sul terzo punto, concordo in pieno sull'idea che l'autonomia di cui godono gli atenei è "irresponsabile". Ed è giusto dire che si dovrebbe completare l'autonomia dando la la possibilità (ed il dovere) di reperire i fondi necessari. A mio avviso, questa analisi manca però della conclusione: va cambiato anche il tipo di governance. Rettore e CdA non possono essere espressione del corpo docente. Sarebbe come dire che una azienda debba autogovernarsi, con AD e CdA democraticamente votati dai dipendenti. Non mi risulta che questa situazione sia diffusa tra le imprese.    

 

 

un campo che dovrebbe essere di esclusiva pertinenza del professore universitario: quella di scegliere chi dovrà succedergli nel lavoro. Non credo si tratti di retorica, ma fa parte del sentire comune l'idea   che esistano "maestri" ed "allievi".

 

 

Mi può spiegare perchè dovrebbe essere diritto di un professore scegliere chi lo sostituirà? Non dovrebbero essere i professori in servizio e futuri colleghi a farlo, sulla base di un progetto di sviluppo del dipartimento e della qualità dei candidati? Il vero problema del reclutamento dei professori è che si parte dalla necessità di trovare un posto per X (più o meno bravo) invece che dalla necessità dell'ateneo di trovare il miglior candidato per riempire un posto.

 

 

 

Caro prof. Vespri, sono uno studente magistrale di economia a Tor Vergata (Roma) e concordo pienamente con quanto da lei scritto. Mi permetto di aggiungere altri due punti che secondo me sono cruciali per un cambiamento positivo delle nostre università. Nella mia seppur breve carriera universitaria ho avuto la fortuna di visitare e studiare in alcune università straniere, tra cui l'Universidad Carlos III di Madrid.

Una delle più grandi differenze che ho notato è stata che noi studenti italiani spesso sappiamo troppo ma sappiamo fare molto poco. Non voglio sminuire l'importanza della conoscenza teorica di leggi e principi, che permettono allo studente di effettuare giudizi e analisi a 360° (e soprattutto costituiscono cultura), ma converrà con me che in un mercato del lavoro così funesto com'è oggi viene data la precedenza al neo-laureato che sa fare, sa produrre, sa applicare i suoi studi, rispetto a quello che sì è preparato eccellentemente, ma alla fine non è in grado neanche di usare un foglio excel. Inoltre oggi sono poche, pochissime, le imprese che investono sulla formazione dei propri dipendenti.

Questo problema è dovuto sostanzialmente a due fattori: (1) piani accademici/di studio vecchi come il cucco, che non si sono evoluti con le nuove esigenze del mercato, per cui si studiano cose che non si applicheranno mai e si tralasciano quei punti chiave che invece costituirebbero un potente surplus per lo studente; (2) strutture (laboratori) spesso e volentieri inesistenti o obsoleti, per cui, seppur volendo, gli studenti non possono applicare proficuamente quanto da loro appreso. Perché non strutturare i corsi di studi in due parti, una squisitamente teorica e l'altra in cui il professore entrando in aula dice "bene ragazzi, nella realtà lavorativa si fa così"?

 

Il secondo punto, molto più delicato e indigesto a molti, è il seguente: l'università non è per tutti. Ho conosciuto centinaia e centinaia di ragazzi che frequentavano corsi di laurea triennale, ma anche magistrale, solo perché "va di moda" o perché il diploma di laurea garantisce un non so quale status sociale. Questo non solo danneggia l'università che deve impegnare più risorse in maniera assolutamente improduttiva, ma rallenta pesantemente anche quegli studenti bravi o eccellenti che credono nel valore aggiunto che l'università è capace di generare.

Anche qui, le cause principali cui imputare il problema sono a mio avviso due: (1) il fallimento degli istituti tecnico-professionali, e si potrebbe aprire un capitolo solo su questo; (2) l'assenza della tanto desiderata meritocrazia in entrata, per cui all'università entrano tutti (questi stupidi test d'ingresso così come sono oggi sono inadeguati e del tutto inutili).

 

LC

Dalla mia esperienza (Ingegneria VO, laureatomi circa 8 anni fa), confermo. Essenzialmente l'Universita' italiana e' solo e soltanto puramente teorica, demanda molto al singolo per approfondire e crearsi un'esperienza pratica.

Forse questo approccio era utile fino a 20 anni fa in cui c'era carenza di laureati, ma adesso come risultato comporta che molti laureati, anche in facolta' "forti" hanno difficolta' di inserimento iniziale.

I miei professori giustificavano questo approccio con la storia della forma mentis e del fornire una piu' ampia cultura generale, ma secondo me alla fin fine il problema e' che non c'erano risorse e bisognava garantire piu' cattedre possibili ai vari dipartimenti.

personalmente ho nessun dubbio che vi siano in Italia e altrove persone perfettamente in grado di proporre misure sensate di miglioramento dell'universta'.

Al momento (ho mai insegnato in un'universta' italiana) la mia impressione e' che lo scadimento umano morale, per non dire scientifico o storico dell'istruzione (media e superiore) dei bambini italiani li renda affatto simili ai loro con-generazionali di USA, meno di Singapour e rDC (posti che conosco bene) in generale le giovani "matricole" hanno nessuna idea di come usare un crivello alla Eratostene (meno ancora di quel che sia)

La questione tesa e diretta e' che qualsiasi venga ad esser controparte tratta con organizzazioni sindacali, che basano le proprie azioni nella lotta di classe (non la terza b contra la quinta ginnasio) ma contro in neoliberismo, etc. corbelleria varia  inventata da gente con la triennale in scienza delle comunicazioni e del genere. 

la situazion e' inlocchettata (nuovo vocabolo: afflitta da lucchetto)  fino a quando gli studenti non comprendono cosa stanno facendo.

 

Dall’intervento non traspare la vera situazione dell’Università. Questi non sono tempi normali. Sta per concludersi la sedicesima legislatura, forse la peggiore per l'università italiana. Se possibile, Profumo ha fatto perfino peggio di Gelmini.  Tagli finanziari pesantissimi (ulteriormente aggravati dall'ultima legge di stabilità), riduzione drastica del personale docente, blocco delle assunzioni del personale tecnico, forte calo del numero delle matricole, limitazioni crescenti agli interventi per il diritto allo studio. Ma la cosa più grave è la chiusura reale, dal 2008, di ogni spazio di reclutamento di giovani nel sistema dell’università e della ricerca.  Dal 2008 è in atto lo smantellamento dell’Università italiana.

Al momento, la complessità dell’attività di programmazione sta bloccando i processi di reclutamento, e la confusione è massima, tra compresenza dei Ricercatori a Tempo Determinato di tipo a) e b), norme transitorie che consentono ai vecchi precari di accedere direttamente ai contratti di tipo b), reclutamento straordinario di professori associati, possibili chiamate dirette destinate agli attuali ricercatori a tempo indeterminato, concorsi che consentono l'accesso diretto alle posizioni di professori. Tutto questo, in un quadro di forte definanziamento, che in pratica rende impossibile i concorsi, ha portato al collasso il sistema.

Come è stato possibile questo disastro demenziale?  E’ semplice: ogni ministro sogna di fare la riforma epocale dell’università, dimenticandosi che intanto la struttura deve funzionare. E tutte le riforme sono in logica negativa. L’università non funziona, si dice, i professori non fanno il loro dovere, gli studenti bivaccano, ci sono sprechi ovunque, e allora controlli, tagli di spesa micidiali, concorsoni nazionali (ma solo di abilitazione formale, per carità, non di assunzione) che vedono ricorsi ancora prima di cominciare. Non vi diamo più una lira, se volete i soldi andate a prenderveli dai progetti europei, premiali, PRIN, FIRB, come se questo fosse il metabolismo del sistema e non  la punta virtuosa e fisiologica di un sistema che dovrebbe invece essere ben oliato e funzionante di suo.

Il delirio della riforma epocale ha  provocato una stratificazione legislativa che di fatto ha dato luogo ad un insieme di norme e regolamenti, soggetti a continue variazioni e interpretazioni, che sta strangolando il sistema. Occorre sfrondare subito, senza remore, questa giungla: semplificare, semplificare, semplificare, sarebbe la prima riforma  positiva a costo zero.

L'università italiana, quella vera, quella buona che funzionava e che sta facendo di tutto per continuare a funzionare, con i corsi tenuti gratuitamente dai professori andati in pensione per compensare il blocco del turn-over,  con i ricercatori che vanno in trasferta per fare esperimenti, partecipare a congressi e seminari  rimettendoci di tasca loro, non ha bisogno di riforme  epocali, ma di fiducia e di provvedimenti pensati in logica positiva.

Occorre introdurre veramente, come anche suggerito da Vespri, l’autonomia delle università, dei loro dipartimenti e centri di ricerca, basandola sui principi di responsabilità, valutazione dei risultati e concorrenza basata sul merito e sui successi ottenuti.

Occorre da subito stanziare un fondo fuori bilancio per il reclutamento dei giovani ricercatori, con concorsi selettivi basati sul merito, per salvare le eccellenze in atto e tamponare il disastro.

Occorre mettere in concorrenza le università per accedere a fondi straordinari per bandi su linee di ricerca specifiche per il reclutamento di ricercatori italiani o stranieri attualmente all’estero, per compensare la paurosa tendenza alla emigrazione dei nostri scienziati.

Dopo aver tamponato il disastro, occorrerà procedere alla trasformazione del sistema introducendo sistematicamente il merito sia per le istituzioni sia per le persone. Già oggi si distingue tra tempo pieno e parziale, ma questo non basta, chi dà di più al sistema dovrà ricevere di più. Occorre ricreare il senso di appartenenza e l’orgoglio di fare parte del sistema nel personale docente e ricercatore e negli studenti.

E’ necessario abbandonare l’attuale politica suicida, fatta solo per penalizzare il sistema considerato inefficiente e per premiare in modo improprio le mitiche punte di eccellenza: si devono invece  fare provvedimenti per il corpo sano dell’università, che è molto grande, e tagliare sistematicamente le inefficienze. Solo così si può cominciare a ridare qualche sicurezza alle prospettive delle università, degli enti di ricerca e di chi vi lavora. Solo passando dai tagli agli investimenti si può ricostruire la fiducia. Senza fiducia e senza sicurezza deperiscono le attività di didattica e ricerca avanzate. L’investimento da fare è modesto, considerati i benefici che si possono ottenere.

Vorrei vedere definitivamente abbandonati i toni disfattisti e vedere proposte positive, perché un paese che non ama la sua università ha rinunciato al suo futuro.

 

Ma noi un programma l'abbiamo anche scritto

 

noisefromamerika.org/articolo/programma-riforma-universita

 

Dopo la riforma di Bologna e l'introduzione del 3 +2, quando vado negli USA adesso  non vedo una sostanziale differenza fra il 17-enne  Americano e il 19-enne Italiano e non vedo molta differenza fra i corsi della triennale e i corsi per conseguire il bachelor.

 

Secondo me  il maggior fattore di cambiamento nel periodo che indichi corrisponde al fatto che la frazione di giovani che vanno al liceo e la frazione di giovani che vanno all'universita' in Italia e' aumentata significativamente e in particolare molto piu' che negli USA. La riforma del 3x2 secondo me non c'entra, e in ogni caso non puo' aver influenzato il liceo, al massimo ha aumentato la percentuale di liceali che fanno l'universita', ed e' questo che porta a quanto osservi.

Le differenze storiche tra Italia e USA sono che l'Italia ha un'alfabetizzazione e una scolarizzazione molto piu' tardiva, quindi specie 20-30 anni fa solo una modesta minoranza di italiani andava al liceo e poi all'universita'.  20 anni fa (vado a memoria) i laureati USA erano 6 volte i laureati italiani, in rapporto alla popolazione, nella coorte 30-40 anni anni diciamo. Ora il rapporto immagino sia dell'ordine di 2, almeno tendenzialmente nelle coorti degli appena laureati.

Quindi la media (includendo tutti, anche gli analfabeti) italiana e' sempre stata e rimane ancor oggi significativamente meno istruita, scolarizzata e anche con istruzione di minore qualita' (anche se non di molto, secondo i test PISA) rispetto agli USA. Ma specie 20-30 anni fa si confrontava l'elite di buona famiglia italiana con diploma o laurea, con una platea molto piu' ampia della societa' USA, e ci poteva anche stare una qualita' migliore degli italiani, a parita' di titolo di studio. Oggi si e' ampliata la frazione della societa' italiana che accede ai titoli di studio avanzati (fatto positivo secondo me) e questo non puo' non aver influito negativamente sulla qualita' media (spiacevole ma inevitabile).

 

Visto che è impossibile ripristinare la situazione precedente perché non permettere anche da noi l'ingresso all'Università a 17 anni?

 

Personalmente sono favorevole ma senza entusiasmo.  Questo elemento non puo' cambiare la sostanza. Pero' puo' aiutare a correggere un'altra stortura italiana, cioe' la durata degli studi abnorme che corrisponde a conseguire anche la laurea in eta' piu' avanzata rispetto alla media OCSE. Ma sarebbe meglio agire in altro modo per correggere questa abnormita' italiana, sostanzialmente lo Stato dovrebbe finanziare l'universita' di massa solo per gli anni di studio richiesti, e poco piu', tenendo conto ovviamente di malattie infortuni studenti lavoratori, ma poi chi vuole fare lo studente per 10 anni senza valide ragioni dovrebbe pagarne i costi in misura omnicomprensiva.

 

Magari permettendo (in modo volontario) ai bambini di 5 anni di iscriversi alle Elementari e riducendo di un anno il corso degli studi (magari portando a 4 anni le Elementari o a 4 anni il Liceo). Con le risorse risparmiate si potrebbe re-introdurre il tempo pieno alle Elementari e alle Medie, con grande sollievo per le famiglie dove entrambi i coniugi lavorano. In questo modo le ore di docenza sarebbero meglio remunerate.

 

Sono favorevole al tempo pieno per favorire l'occupazione di entrambi i coniugi ma il problema della Scuola italiana non e' per nulla il numero di ore di lezione (se ne fanno piu' della media OCSE e piu' dei Paesi che hanno i migliori risultati) i problemi sono di tutt'altro genere. Ma sarebbe utile che ci sia qualcosa di organizzato perche' due coniugi possano lavorare senza rischiare la denuncia per abbandono di minore, e quello che si dovrebe fare e' consentire di fare i compiti a casa a scuola, biblioteche, attivita' sportive, attivita' pratiche, anche ludiche, tutto seguito da personale che pero' non e' necessario abbia ne' le qualifiche ne' il livello di salario che (almeno nei Paesi avanzati, se non in Italia) va agli insegnanti. Quindi non vedo l'aumento del tempo pieno come un mezzo per migliorare gli stipendi degli insegnanti, che peraltro secondo uno Studio della fondazione Treelle sono simili (per ora insegnata) a quelli degli altri Paesi avanzati, ma abbassati in Italia da due fattori: meno ore di lezione e maggiori tasse.

 

Quando ero studente, il Professore di scuola faceva sicuramente parte della classe media, godeva di prestigio sociale e il suo salario era sufficiente per  una vita dignitosa.

 

Quanto osservi non dipende dal fatto che ci fosse allora una maggiore attenzione alla Scuola in Italia, l'attenzione alla Scuola e' stata sempre storicamene tardiva e scarsa in Italia, cio' che era diverso quando tu hai fatto il liceo e' che la scuola italiana, specie il liceo, era meno frequentato e piu' di elite, la frequenza era tipicamente la meta' (30% contro 60% dei Paesi avanzati)., gli insegnanti erano in numero inferiore, avevano quindi maggiore prestigio e anche maggiore salario immagino. Con la scuola di massa (cui oggi l'Italia e' arrivata, fino al liceo) non e' possibile recuperare ne' il prestigio ne' il salario dei vecchi professori di liceo, non e' un problema italiano, il costo italiano della scuola anzi per studente e' simile a quello di Francia, Germania e UK, anzi prima delle riforme Gelmini era addirittura significativamente superiore alle elementari, grazie alle trovate di pessimi sindacalisti e pessimi politici  per continuare a dispensare posti statali di insegnante elementare negli anni in cui la natalita' italiana e' calata da 800mila a 500mila nuovi nati all'anno, diminuendo le ore di lavoro con ridicoli espedienti.
Sono piu' d'accordo con quanto scritto nel seguito, avrei dei commenti ma meglio non appesantire eccessivamente questa replica...  Solo un ultimo commento:

 

In USA le assunzioni all'Università si basano sul sistema del  “beauty contest” e non su mediane, h-number e impact factors perché è il mercato che di fatto determina il ranking delle singole Università (confidando sempre nella  esistenza di una  mano invisibile alla Adam Smith).

 

Questo si puo' fare negli USA perche' c'e' una pressione "sociale" nel settore accademico per premiare il merito sia una pressione generale della societa' USA per premiare le universita' migliori complessivamente (che quindi a loro volta devono assumere i migliori). In Italia non c'e' sufficiente pressione "sociale" nel settore accademico, ne' alcuna significativa pressione dello Stato e dei privati per premiare gli Atenei complessivamente migliori, fino ad anni recenti almeno, e con tentativi statali ad oggi non certo risolutivi.

Alcune precisazioni:

il desiderio di avere una Universita' dove sia il mercato a fare il ranking e non l'Anvur è un desiderio, un indirizzo programmatico. Spingiamo la società Italiana ad essere tale per cui vi sia una pressione sociale, come tu dici, a premiare le universita' migliori. preferisco quesat situazione a valutazioni solo basate su agenzie tipo Anvur.

Per il tempo pieno nella scuola sono favorevole essenzialmente solo per aiutare le famiglie dove entrambi i coniugi lavorano. Con questo aumento di queste ore scolastiche e utilizzando i fondi avanzati dall'aver ridotto il corso di studi, ritengo sarebbe uan buona politica quella di rimpinguare il salario dei docenti di scuola in modo da rendere questa professione piu' appetibile

Ho letto con interesse questo articolo e condivido per la massima parte le idee di Vincenzo. Ma mi spingerei oltre:

 

- Promuovere una formazione inter-universitaria dei giovani ricercatori. Parafrasando: ostacolare la creazione di "allievi". In altre parole ancora: chi ottiene la laurea specialistica n un posto non puo' intraprendere il corso di dottorato nella stessa facolta' (quindi in pratica, nella stessa universita'); chi ha conseguito il titolo di dottore di ricerca non puo' avanzare - per un numero di anni prestabilito - la propria candidatura per una posizione di ricercatore o professore a tempo indeterminato. Escludo quelli a tempo determinato per carita' di patria, ma forse anche questi dovrebbero venire considerati nella restrizione.

 

- Concordo con l'idea di Vincenzo secondo la quale le universita' dovrebbero avere una vera autonomia ed una responsabilita' economica. Spingendomi oltre, ogni dipartimento dovrebbe essere libero di assumere chi meglio crede a patto che il curriculum del candidato rispetti dei criteri minimi di qualita' stabiliti per le universita' italiane (questi criteri dovrebbero essere decisi per aree disciplinarie e dovrebbero essere ridiscusse una volta ogni tot anni).

 

- I salari dei docenti e dei ricercatori dovrebbero essere slegati dall'anzianita', ma contrattabili. In questo modo le universita' italiane potrebbero attrarre professori dall'estero o anche professori da altre universita' italiane. Non so bene come un meccanismo del genere potrebbe essere implementato nella pratica, ma credo che aggiungerebbe stimolo a chi lavora nell'universita'.

 

- Visto che in Italia non c'e' una chiara separazione fra chi fa ricerca e chi insegna, proporrei che ogni dipartimento possa discutere e stipulare un contratto con chi fa ricerca e/o insegna. Oltre al salario, si potrebbe discutere la percentuale di tempo dedicato all'insegnamento rispetto a quello dedicato alla ricerca. E' ben noto a tutti che alcuni sono bravissimi ricercatori e terribili insegnanti. E viceversa. Un dipartimento che pensi in maniera strategica dovrebbe essere in grado non solo di attirare talenti, ma anche di massimizzare la qualita' dell'insegnamento e l'efficacia della propria ricerca.

Quasi tutti o forse tutti i punti elencati si trovano sulla proposta di riforma in Mission: impossible. Riformare l'universita' italiana. (8 marzo 2009).

ma val la pena leggere sia il pensiero di uno studente che di un giornalista

Università: per colpire i baroni, abolire i concorsi

Caro Beppe, sono uno studente all’ultimo anno di una famosa università del nord Italia. Molti di noi hanno avuto esperienza di docenti le cui capacità, impegno o meriti difficilmente ne giustificano la posizione. Mi faccio due domande: perché non obblighiamo le università ad assumere una quota di docenti stranieri, per evitare manipolazioni nei concorsi? Perché non legare parte dello stipendio dei docenti alla soddisfazione degli studenti a fine corso? Ormai non è più possibile tollerare certi comportamenti da parte di alcuni professori, e la maggioranza degli studenti universitari è responsabile e responsabilizzata.

Gabriele Mauro

Ci sono docenti ottimi, bravi, mediocri o scadenti: l’insegnamento universitario non è diverso dalle altre professioni. I ragazzi ci mettono poco a distinguere: un paio di lezioni bastano. Diciamo che, nella valutazione, sono spesso più bravi delle commissioni nei concorsi. Concorsi che abolirei completamente: impossibile garantirne la trasparenza, purtroppo. Se cooptazione deve essere, cooptazione sia. Ogni università si prenda la responsabilità di scegliersi il corpo docente, senza nascondersi dietro il paravento del concorso pubblico, che consente – ancora oggi – scambi poco salutari. La reputazione di un ateneo, e il suo mercato accademico, dipenderanno da quelle scelte.

 

La maggioranza degli studenti è responsabile e responsabilizzata? Vero. Ma spesso è talmente docile da apparire rassegnata. Anche tu, Gabriele, scrivi  da “una famosa università del nord” e ti guardi bene dal fare nomI. Ricorda: i bravi docenti sono minatori di talento e meritano un monumento, non solo un aumento di stipendio. Ma gli altri – i docenti arroganti, distratti, pigri, strafottenti – vanno messi in riga. Se un professore universitario antepone tutto ai suoi studenti – viaggi, congressi, consigli di amministrazione, giornali, televisione – bisogna dirglielo: così non si fa. Prima di persona (educatamente); poi su twitter, facebook o su un giornale. Si spaventa e la smette: scommettiamo?

 

oramai in italia l'universita e' diventata l'educazione primaria per i giovani,non e' piu quel qualcosa in piu',una specializzazione mirata . Si e' passati nel giro di 40 anni dall'educazione minima che era la 5 elementare all'universita'...la laurea e’ oramai paragonabile ad un diploma di 10/15 anni fa, nel senso che non fa piu la differenza nell’averla, ma si rientra nella norma.
L'educazione in italia segue un percorso divergente da quello del mondo di lavoro.
Ogni anno allo IUAV di Venezia entrano 600 aspiranti architetti (possiamo pensarli come circa l'80% residenti in tri-veneto) di questi 600, l'80% (dato del NUCLEO DI VALUTAZIONE DI ATENEO 2011/12)si laurea in tempo , in questi 5 anni l'universita' sfornera' 600 x 80% x 5 anni = 2400 architetti solo l'universita' di Venezia;senza considerare l'universita di padova che sforna ingegneri civili ed ingegneri architetti/edili, chi puo dare lavoro a tutti questi?
Abbiamo universita che sfornano, a migliaia,  laureati  in lettere e storia dello spettacolo;  andranno a fare cosa?
Gente che ogni anno si laurea in lingue che come maggior sbocco hanno l’insegnamento... sappiamo tutti cosa li aspetta...

La meritocrazia deve esistere fin dal primo anno di universita’ dove la stessa facolta’ ti deve dire:”caro mio, al primo anno hai sostentuto 1 esame su 6 non e’ il caso che vai avanti...cambia strada e cercati subito un lavoro...sara piu facile trovarlo a 20 anni che a 27/28 credimi...” non e’ piu il caso di laureare mediocrita’ dato che in italia e’ ancora radicato il pensiero che il posto di prestigio sia automaticamente subordinato alla laurea.

Basti pensare alla figura dell’insegnante ad oggi, non e’ piu rispettato da nessuno ma perche’? forse perche’ si e’ dato la possibilita’ a tante persone poco capaci di entrare nel mondo dell’insegnamento??

Come puo crescere bene una pianta se l’acqua e’ inquinata?

Baronie universitarie: noi non ci rassegniamo

Caro Severgnini, l’università inglese (non solo Oxford) è anni luce avanti rispetto a quella italiana in termini di moralità nella selezione dei docenti, ma lei è ingeneroso nei confronti dei professori italiani (“Alice nel paese delle meraviglie accademiche” – bit.ly/1hwKtjQ). Una minoranza si oppone alle pratiche spartitorie tradizionali. Finora ha collezionato per lo più sconfitte, ma negli ultimi tempi la sua forza contrattuale è stata notevolmente accresciuta dalla legge Gelmini, non a caso concepita da un ex-professore a Londra. Per la prima volta la ricerca italiana è stata valutata (VQR), e per la prima volta una parte non trascurabile dei finanziamenti sarà distribuita sulla base dei suoi risultati. Si spera che questo inneschi un processo virtuoso, analogo a quello innescato venticinque anni fa in Gran Bretagna dalla loro valutazione dell’efficienza universitaria (allora RAE, ora REF). Le resistenze sono però molto forti – in parte per motivi politici (la Gelmini è di destra), ma soprattutto perchè molti hanno da perderci. Cordiali saluti,

Giovanni Federico

I cattivi brigano. I buoni – e sono molti – tacciono. I giovani scappano. Io la vedo così. Tacitiano ma chiaro, spero.

"analogo a quello innescato venticinque anni fa in Gran Bretagna"

io mi sto dottorando. 25 anni fa entravo all'asilo.

una generazione scolastica di ritardo...

sono io

Tra cinque anni l'Università pubblica italiana cesserà di esistere. Questo è stato l'effetto dei provvedimenti caotici e pensati male (legge 240 inclusa).

Vediamo ora quali fatti siano veramente seguiti alle tante parole  dalle analisi del Consiglio Universitario Nazionale (CUN), organo di indirizzo e controllo del Ministero della ricerca e dell'università (MIUR), formato da 50 saggi, prevalentemente professori universitari universalmente stimati eletti dal mondo accademico. Il  documento si trova qui, mentre la sua presentazione alla commissione cultura della camera è qui. Paolo Rossi, che parla, è uno dei più noti fisici teorici italiani. Vale la pena di seguirlo con attenzione, per capire come stanno veramente le cose.

 il piano del CUN richiede soldi per promuovere associati ad ordinari con la scusa  che la legge prevede che solo alcune funzioni sono riservate agli ordinari. Scusa falsa: l'unica funzione veramente riservata è quella di rettore (uno per università). E' possibile eleggere direttore di dipartimento un professore associato - basta che gli ordinari si dichiarino non disponibili.

Le promozioni ad ordinario non aumentano il numero di docenti e l'offerta didattica e non migliorano la qualità della ricerca, che è fatta sempre dalla stessa persona. Il Cun è organo eletto e quindi rappresenta bene l'opinione comune dei professori  e non è formato da 'professori universalmente stimati' - alcuni dei componenti sono dei signor nessuno intrallazzatori.

L'università ha urgentemente bisogno di fondi per

i) ricerca vera (e quindi distribuiti con criteri 'internazionali'

ii) assunzione di ricercatori a tempo determinato per svecchiare i ranghi