Sui diritti acquisiti, o della discrezionalità politica

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Un dialogo, nato per caso su FB circa due mesi fa e poi lasciato in sospeso, prosegue qui grazie alla pausa che l'estate offre e perché il tema c'è parso, almeno intellettualmente, rilevante. Lo dedichiamo a tutti quelli che credono possa esistere - minimo o massimo che sia - lo stato ideale che implementa le politiche "giuste". 

Lo spunto al dialogo fu un mio articolo sull'eterna questione "pensioni" e sulla sempre drammatica necessità di ridurne la spesa totale in modo rapido e sostanziale. Questo spiega l'incipit iniziale di Luigi, ma il tema è poi diventato subito molto più generale. L'oggetto del nostro dialogare, quindi, non sono le pensioni per se ma, come dice il titolo, la nozione di "diritti acquisiti" e l'esistenza (e giustificazione) della "discrezionalità politica". Ossia del fatto che la politica possa/debba cambiare le carte in tavola a discrezione della maggioranza che governa.

Luigi: Sull'opportunità economica di adeguare certe pensioni posso essere daccordo, ma siamo proprio sicuri sicuri che sia cosa buona decidere che, per principio, lo stato può tranquillamente tornare sulle proprie promesse (implicite o esplicite) a mezzo di nuova legislazione? Ossia, che vi sia praticamente nulla che lo stato (meglio: la politica, ossia la combinazione di esecutivo e legislativo) non possa modificare, alterare o rinnegare una volta ottenuta la maggioranza costituzionalmente richiesta? No perché le implicazioni non sono proprio desiderabili, almeno in linea di principio.

Michele: A me sembra che la "politica" sia proprio questo, ossia l'esercizio continuo - sotto alcune regole, ragione per cui il problema forse sono le regole sotto cui la politica esercita il prorio ruolo - del potere di discrezionalità. Non trovo nulla di nuovo o di eccezionale, in via di principio, nel modificare legislativamente le pensioni in essere. Infatti, ogni volta che viene modificato il codice fiscale, cos'altro si fa se non tornare su promesse (implicite o esplicite) fatte in passato? Ogni volta che si stampa più (o meno) moneta, cosa si fa? Ogni volta che si modificano delle partite di bilancio, trasferendo risorse da una spesa ad un'altra, cosa si fa? Ogni volta che si sposta personale pubblico (all'estero, in Italia è impossibile) da un ministero ad un altro, da una regione ad un'altra, da una mansione ad un'altra e gli si cambia il profilo di carriera, cosa si fa? Ogni volta che, in passato, si modificarono, rendendole maggiormente generose, le regole del sistema pensionistico, che cosa si fece? Non violarono forse allora i "diritti acquisiti" di chi, con i propri contributi, quelle pensioni avrebbe dovuto finanziare, ossia delle generazioni future, fossero esse nate o non alla data della modificazione?

Luigi: Alcune delle cose che hai menzionato sono simili alle pensioni, altre meno, ma non vale la pena entrare nel dettaglio. Assumiamo che siano tutte come le pensioni, ovvero possano essere rappresentate con il seguente modello: 1. Al tempo T vi sono individui che devono prendere decisioni irrevocabili che hanno conseguenze al tempo T+1. 2. Il loro benessere al tempo T+1 è determinato da una decisione individuale e da una decisione politica. 3. C'è una qualche ragione per affermare che al tempo T gli individui siano coordinati su una specifica aspettativa, la promessa, riguardo la decisione politica futura (ad esempio, c'è una legge in essere). Nei tuoi esempi, la politica può fare quelle cose, fino a quando come comunità si riconosce allo stato il monopolio sulla "violenza", nel senso che può cambiare leggi (in generale, può cambiare idea) e imporre il rispetto con la forza. Ora, il fatto che lo stato possa rimangiarsi le promesse dopo che gli individui hanno affondato (sunk) le proprie decisioni è una cosa buona o da evitare? Beh, dipende, ma non ti devo insegnare io che forse non è sempre una cosa buona, no? Un esempio banale. Se invece delle pensioni stessimo discutendo di politica monetaria, sostituendo la corte costituzionale con la banca centrale, probabilmente diremmo che si, è buono avere un'autorità indipendente che limiti il potere discrezionale della politica. Quello che trovo sbagliato è far passare l'opportunità economica (OGGI, per tanti motivi, è meglio che lo stato si rimangi la promessa fatta) per un principio generale secondo il quale è SEMPRE meglio che lo stato abbia la possibilità di rimangiarsi le promesse, senza vincoli, con l'argomento che *tanto lo fa sempre*.

Michele: L'argomento mio non è che "lo stato" (usiamo questa abbreviazione al posto di "potere esecutivo&legislativo con il supporto della maggioranza costituzionalmente richiesta", che è un po' troppo lungo) sia giustificato nell'uso della discrezione al tempo T+1 sulla base del fatto che ha già usato la discrezione al tempo T, T-1, eccetera. Il mio argomento è che la politica altro non è che decisione discrezionale sotto i vincoli che la costituzione prevede. Mentre possiamo discutere (normativamente) di quali siano gli ambiti del mondo che dovrebbero essere, costituzionalmente, esclusi dall'intervento della politica (dello stato), una volta che concediamo allo stato il diritto di legislare nel campo X allora la discrezionalità, prima o poi, apparirà, qualsiasi sia X. Questo non perché sia "bene" o "male" essere discrezionali, ma perché è inevitabile. In altre parole, ed usando un'analogia che gli economisti capiscono al volo, "essere discrezionali" è imposto dalla tecnologia della politica, non è una scelta dovuta alle preferenze. L'unica maniera per escludere la discrezionalità è fare senza stato, allora la "politica" diventa solo esercizio di discrezionalità individuale, privata.

Luigi: Stai assumendo vincoli costituzionali dati, mentre io li vorrei scegliere. Continuando ad usare termini che gli economisti capiscono al volo, io la metterei così. La tecnologia determina il timing del gioco, l'insieme delle scelte a disposizione della politica (il feasible set) lo possiamo scegliere quando scriviamo la costituzione (noi costituente illuminato). D'altronde, per come lo percepisco io, che giurista non sono, un “diritto acquisito” non è altro che una decisione che viene tolta dal feasible set del legislatore. La logica, se vuoi economica, con cui si può giustificare un diritto acquisito è di risolvere il gigantesco problema di hold-up implicito nei punti 1-3 del mio messaggio sopra. Nota che in questo contesto il problema è aggravato dal fatto che la “politica” al tempo T+1 ha una funzione obiettivo diversa dalla “politica” al tempo T. Come in ogni buon problema economico c'è un trade-off, tra possibilità di impegnarsi e perdita di flessibilità che da questo ne deriva. Sai tanto quanto me che questo è il tema antico del "rules vs discretion" e che la risposta della teoria economica, su questo tema, è abbastanza chiara ed univoca.

Michele: Va benissimo, scegliamo i vincoli costituzionali. Anzitutto, però, riconosciamo che non v'è nulla di speciale nelle promesse pensionistiche: se io investo nella casa e trent'anni dopo mi cambi tassazione, l'effetto è drammatico lo stesso. Se accumulo e mi cambi le tasse di successione idem. Se investo nel comparto X perché il commercio internazionale è proibito e poi mi fai NAFTA o mi entri nella UE dieci o venti anni dopo, son amari comunque. Questi sono alcuni dei casi che, infatti, Kydland e Prescott (e tanti altri) avevano in mente nel discutere di rules vs discretion. Riconosciamo, in secondo luogo, che, nella stessa misura in cui il futuro è imprevedibile per l'agente economico privato, lo è anche per quella cosa che chiamiamo stato: le circostanze cambiano, le condizioni demografiche, ambientali, d'approvigionamento energetico, tecnologiche cambiano. Soprattutto, cambiano i rapporti di forza fra gruppi sociali. E la politica è, al 51% almeno, attività redistributiva. Quindi, nella misura in cui all'agente privato riconosciamo il diritto di rimangiarsi le sue promesse e di cambiare piani quando c'è lo "shock" (anzi, teoriziamo sia "efficiente" che lo faccia) la stessa logica implica che anche l'agente chiamato "stato" deve poter cambiare piani e rimangiarsi le prommesse fatte quando c'è lo "shock". Mi sembra importante riconoscere anzitutto questo fatto. Che l'esistenza di "shocks" e l'imprevedibilità del futuro introducano ambiguità - nel senso di permettere all'agente che chiede di modificare le regole esistenti di spacciare come "shock esogeno" quella che invece è una opportunistica scelta personale - vale sia nel caso dello stato che nel caso dei privati. La letteratura "contrattualistica" sul tema è gigantesca ed io ho sempre trovato sorprendente che, nelle applicazioni, essa tenda a concentrarsi sui contratti fra due agenti privati e quasi mai su quelli fra "stato" e "cittadino". Riconosciamo infine, in terzo luogo, che mai e da nessuna parte lo stato è benevolente ed agisce nell'interesse della "collettività". Qui, a mio avviso, sta il limite fatale della ricerca economica sul tema "rules vs discretion": interessante ma irrilevante, perché prigioniero di un'illusione, ossia che la politica non sia anzitutto conflitto redistributivo: lo è. Lo stato agisce, anzitutto, nell'interesse dei gruppi sociali che lo controllano e non è certo sua priorità cercare politiche che siano lungo la frontiera di Pareto. Non nego sarebbe desiderabile che così fosse, ma questa desiderabilità appartiene alla stessa categoria ontologica della "vita eterna" o dell'uomo "buono e generoso": fantasie desiderabili. Se vogliamo disegnare una costituzione che serva nel mondo reale, meglio farlo sotto questi tre vincoli che chiamerei: (1) discrezionalità immanente, (2) incertezza del futuro, (3) conflitto fra interessi.

Luigi: I tuoi (1)-(3) me li compro subito, con una precisazione. La “misura in cui” riconosciamo al privato il diritto di cambiare idea non è necessariamente ampia, almeno se sono coinvolti interessi di terzi. Il motivo dell'esistenza dipromesse scritte in contratti formali, in cui si specifica ex-ante rispetto all'incertezza chi deve fare cosa in quale stato del mondo,delegando l'eventuale esecuzione forzata ad una parte terza - il giudice - invece che lasciar liberi gli agenti di prendere decisioni ex-post, è esattamente quello di consentire agli agenti di “legarsi le mani”. Il contratto è vincolante (e quindi rilevante) proprio quando ex-post gli agenti non farebbero quello che hanno promesso ex-ante. Nota anche che, in un'interpretazione diciamo estensiva, questo discorso vale pure quando il contratto è incompleto ma specifica i diritti residuali di decisione (e.g. la proprietà privata). Qui abbiamo un problema che io trovo interessante: dove sta l'analogo della "residualità" nel caso dello stato, chi è l'azionista di maggioranza che si prende i rischi residui oltre a, ovviamente, gli eventuali benefici superiori agli attesi? Nelle relazioni economiche governate dal diritto privato "capitalista" questa figura è chiara, è l'imprenditore o, appunto, il capitalista. Tale residualità, che è l'altra faccia dell'attività imprenditoriale, definisce quella che è probabilmente la sua maggiore utilità sociale. Negli schemi costituzionali degli stati contemporanei tale residualità è assente e questo, a mio avviso, causa seri problemi quando affrontiamo il tema dei diritti acquisiti. Non c'è alcuna entità che sia "responsabile ultimo" delle promesse fatte in passato che ora, cambiate le circostanze, si decide di violare. È anche vero che, per vari e ovvi motivi, impedire del tutto la rinegoziazione delle promesse non sarebbe ragionevole (non uso “efficiente” perché qui è un concetto scivoloso e complicato). Infatti, gli ordinamenti prevedono vari modi di organizzare il default (e.g. le procedure di bancarotta), che in via teorica potremmo ordinare con il relativo costo che l'ordinamento impone a chi vuole rimangiarsi una promessa. Credo sia ragionevole assumere che un mondo con contratti formali, con annesse procedure costose di default, è meglio di un mondo senza. Trasponendo, il costo idealeda far sopportare allo stato per rimangiarsi le promesse non è infinito, ma probabilmente non è neanche zero.

Fin qui l'analogia funziona più o meno bene, e continuerebbe a funzionare se lo stato fosse un agente (quali che siano le sue preferenze costanti nel tempo). Credo che la fondamentale differenza sia nel tuo punto (3). A differenza delle promesse tra privati, una promessa dello stato è un impegno che il gruppo sociale che lo controlla al tempo T prende per il gruppo sociale che lo controlla al tempo T+1. Mentre al tempo T+1 è ovvio che, sia per un individuo che per un gruppo sociale, vi è un incentivo a rinnegare le promesse costose, gli incentivi individuali e sociali sono drammaticamente differenti al tempo T, semplicemente perché un individuo si impegna contro se stesso, un gruppo sociale impegna le risorse di un altro gruppo sociale. Questo banalmente genera un incentivo ad impegnarsi troppo, e questo argomento è forse il più convincente a favore di maggiore discrezione e meno ridigità.

Michele: La tua analisi è chiarissima e completamente condivisibile. A me sembra che tu individui il punto chiave che rende il problema dei "diritti acquisiti" (pacta sunt servanda) irrisolvibile, almeno teoricamente, nell'ambito pubblico (ossia, quando una delle controparti è lo stato) mentre lo è (almeno teoricamente) in quello privato (quando entrambe le parti sono private ed esiste un arbitro esterno, lo stato appunto). Il punto chiave viene dal combinato disposto di due osservazioni tue: (i) non esiste, nell'ambito costituzionale, un analogo dell'imprenditore-capitalista che, nel fare promesse, se ne assume i rischi futuri oltre che il diritto agli eventuali benefici. In teoria questa figura potrebbe essere "la cittadinanza" che al tempo T approva certe leggi. Ma questo soggetto non esiste più (neanche nel caso in cui al tempo T la decisione sia stata unanime) al tempo T+1, che è quando la residualità andrebbe esercitata. Perdippiù è nella natura stessa della democrazia che le decisioni (sia a T che a T+1) vengano prese dalla maggioranza: non solo le due maggioranze son quasi sempre diverse ma esse sono, comunque, non identificabili di fatto a meno che non trasformiamo i parlamentari in "azionisti" responsabili in solido delle conseguenze economiche delle loro decisioni. Un'idea teoricamente attraente ma del tutto non implementabile. Peggio ancora: se la maggioranza a T+1 è completamente disgiunta da quella a T allora la prima ha un incentivo a "fregare" la seconda scaricando su di essa gli oneri delle promesse che fece al tempo T e che ora, al tempo T+1, la nuova maggioranza disattende. Ritorniamo, insomma, al problema eterno (che la teoria economica, fatte salve pochissime eccezioni continua ad ignorare) per cui la politica economica è anzitutto gestione del conflitto fra interessi. Insomma, torniamo al problema del potere e dell'arbitrio che i sistemi democratici hanno solo parzialmente attenuato: l'arbitrio discrezionale non è più appannaggio del solo "dux" ma della maggioranza. Ma sempre discrezione ed esercizio "arbitrario" del potere rimane. Hic sunt leones.

Per parte mia vi è una sola soluzione, che riconosco essere più teorica che pratica, ma almeno teoricamente mi sembra regga. Ossia quella dello "stato minimo" definito costituzionalmente: restringere al massimo, in ambito costituzionale, i terreni su cui la politica (lo stato) può legiferare (redistribuendo, di fatto, dalla maggioranza a T a quella a T+1) permette di ridurre al minimo quei rischi che abbiamo individuato nel nostro dialogo e che la discrezionalità del potere politico induce. Il caso del debito greco è un esempio da manuale: chi, in Grecia, è responsabile per le conseguenze odierne degli impegni di debito e spesa presi negli ultimi vent'anni dalle maggioranze politiche che hanno governato quel paese? Lo stato minimo dà una risposta di second best, sia chiaro: restringendo le aree in cui lo stato interviene come parte contraente (invece che come pura parte terza regolante, ossia come giudice almeno teoricamente imparziale di contratti fra privati) minimizza i danni della discrezionalità ma non li elimina mai del tutto. Questa mi sembra la morale teorica del nostro dialogo: in politica il first best non esiste ed il second best, pur teoricamente possibile, è praticamente molto ma molto difficile da implementare. Il potere forse logora chi non ce l'ha (prima) ma, prima o poi, logora un po' tutti.

P.S. Luigi&Michele: Ve ne sono svariate  altre di morali teoriche di questo nostro dialogo ma le lasciamo ai lettori o a futuri articoli. Una vale la pena di notarla brevemente perché sollevata anche nel recente articolo di Gianfranco Savino qui su nFA. Ed è quella del ruolo delle istituzioni sovranazionali o internazionali nella gestione dei conflitti in cui almeno una delle due parti sia uno stato sovrano. Lasciamo ai lettori stabilire le relazioni che infatti sono palesi anche con gli altri temi che Savino ha sollevato nel suo post.

 

 

 


 



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Commenti

Ci sono 46 commenti

esistono, in effetti.

Finora gli interventi sulle pensioni sono stati letti come imposizioni di natura tributaria a carico di una particolare categoria di contribuenti, in violazione del principio di uguaglianza: credo sia inutile discutere dell'esattezza di questa lettura, se ne deve tenere conto.

Il discorso svolto nell'articolo parrebbe prospettare un intervento di tipo diverso, consistente nella ridefinizione dei trattamenti pensionistici. Se così fosse, andrebbe incontro ad un problema politico/giuridico enorme: si tratterebbe, invero, di una parziale espropriazione dei pensionati, forse giustificabile con ragioni di pubblica utilità quali quelle addotte in particolare da Michele.

Ma l'espropriazione richiede un indennizzo che dovrebbe pur sempre essere parametrato al valore del bene: nella specie, alla differenza tra i trattamenti in essere e quelli futuri, verosimilmente attualizzata nel momento in cui essa avviene. I pensionati percepirebbero una tantum quanto avrebbero percepito nella loro vita residua o, forse, una parte di tale importo: ma mi pare proprio che le casse dell'erario ne sarebbero compromesse. 

Se le pensioni fossero pari alle contribuzioni versate capitalizzate e rateizzate mensilmente in base a criteri attuariali allora una loro decurtazione sarebbe un esproprio. Poiché invece il loro importo è stabilito dalla Legge e il legame con i contributi versati è piuttosto labile e irregolare né consegue che la Legge medesima può modificarne l' importo senza che qualcuno possa dirsi espropriato. Se la Legge dà, la Legge toglie. Oppure può solo dare ? Peccato che ciò sia impossibile...

Quando ho cominciato a lavorare nel 1977 le regole per il lavoratori del settore privato erano che si sarebbe potuto andare in pensione dopo 35 anni di contribuzione, effettiva o convenzionale, a prescindere dall'età anagrafica con il 70% dell'ultimo stipendio. Le regole per i dipendenti del settore pubblico erano diverse e più favorevoli, ma per il momento tralasciamole.  All'epoca avevo 19 anni e quindi mi aspettavo che avrei potuto godere di una pensione piena nel 2012, all'età di 54 anni. Da allora ci sono state diverse riforme, ed ora è molto difficile poter godere di una pensione piena prima dei 65 anni. Il mio disappunto è evidente ma non è di questo che voglio discutere; vorrei evidenziare che le norme pensionistiche, allora come ora, erano emanate unilatermente dallo Stato con pochissima o nessuna discrezionalità da parte del lavoratore (dipendente). Questa circostanza non attenua assolutamente la mia delusione, ma paradossalmente rende la posizione dello Stato più solida, tanto legalmente che logicamente. Non ci fu nessuna negoziazione da stravolgere, nessun patto da tradire, nessuna promessa da denunciare. A differenza di altri casi menzionati nel post non ci fu alcuna decisione da parte mia come invece sarebbe potuta essere quella di investire in un immobile piuttosto che in titoli del debito pubblico. La posizione dello Stato era allora: "le regole sono queste, che ti piacciano o no" e adesso invece è "le regole sono cambiate e le nuove sono queste, che ti piacciano o no" e la circostanza che le nuove mi piacciano meno delle vecchie non ha assolutamente alcuna rilevanza: lo Stato non ha mai chiesto il mio parere, nè allora nè ora. Allo stesso modo non ha assolutamente alcuna rilevanza la fiducia o la mancanza di fiducia che io potessi riporre in quelle regole: non avrei potuto fare un opting out dal sistema pensionistico italiano e sostituirlo con un'assicurazione privata, con investimenti personali, e neppure con il sistema pubblico di un altro stato europeo che potessi considerare più affidabile. In conclusione trattandosi originariamente di un atto d'imperio dello Stato e non di una negoziazione, nulla ne vieta una sostituzione con un altro atto della stessa natura.  

Concordo con lei la sottile ma sostanziale differenza che ha rilevato. Tutte le considerazioni dei relatori in merito ai diritti acquisiti sono pienamente condivisibili, ma mi piacerebbe vedere approfondito un particolare: se decido di affidare i miei risparmi ad un consulente finanziario che mi promette 1000 e mi ritorna 100, sono fatti miei: non mi ha obbligato nessuno a farlo. Sono sempre fatti miei se compro casa e cambia poi la tassazione: non mi ha obbligato nessuno a farlo. Idem per i casi (et similia) giustamente argomentati sopra. Ma quello che non mi quadra è quando parliamo di contributi per la pensione: accetto in toto che in funzione dei mutamenti sociali, economici, demografici, lo stato debba e possa derogare al pacta sunt servanda. Ma non mi puoi anche obbligare per legge a versarti per oltre 40 anni i miei quattrini! Lasciami la facoltà di decidere che farne: è questo divieto il vero esproprio.

a margine delle complesse questioni teoriche evocate da questa brillante discussione (molto a margine...) e relativamente al solo tema delle pensioni, vorrei osservare che qualunque riforma o rimaneggiamento in materia non configura probabilmente alcun tipo di discrezionalità problematica. il tema del limite (di oggetto e di misura) dell'azione normativa dello stato c'è tutto, ma secondo me non coinvolge la questione delle pensioni. essendo il nostro sistema infatti un sistema a ripartizione è implicita nel suo stesso impianto normativo l'idea che il pagamento delle pensioni sia costantemente vincolato dalle contingenze della finanza pubblica. il pagamento delle pensioni è un onere di spesa corrente che non è sostenuto da nessun meccanismo di capitalizzazione (neppure dopo la riforma), pertanto qualunque sua ridefinizione non pone in linea di principio nessun problema di irretroattività della norma.

 

inoltre, il principio del pacta sunt servanda ha validità nel solo ambito del diritto privato e di quello internazionale, cioè in quei rapporti giuridici che si costituiscono tra soggetti di pari condizione. in nessun caso esso entra in gioco nella definizione dei rapporti tra stato e cittadino, perché nel nostro ordinamento stato e cittadino, per la costituzione, mai, in nessun caso, sono pari e intrattengono rapporti simmetrici. lo stato italiano ha sempre il diritto di rivedere la propria posizione non solo nell’attività legislativa ma perfino in quella meramente amministrativa. la stessa locuzione “diritti acquisiti”, nel senso in cui viene correntemente adoperata, non corrisponde veramente all’idea sancita dall’art.25 comma 2 della Costituzione. e infatti le sentenze della corte costituzionale che di recente hanno cassato alcuni interventi di riduzione della spesa pensionistica e di quella per il pubblico impiego (sent.7/2015 e 178/2015) non vi fanno alcun riferimento ma tirano in ballo altri principi (ragionevolezza, solidarietà, proporzionalità dei sacrifici) e confermano sempre, in linea generale, la più ampia libertà del legislatore nell’amministrare le risorse pubbliche.

ed integro ribadendo che non solo la libertà del legislatore è illimitata (pensiamo solo allo scudo fiscale Monti che ri-puniva retroattivamente i rientri di capitali già sanzionati dallo scudo fiscale 3Monti) ma lo è anche quella della corte costituzionale.
Quando poi le sentenze di quest'ultima si basano sull'indefinibile "principio di ragionevolezza" si giunge puntualmente alle comiche. L'unico vero principio a cui il legislatore avebbe fatto bene ad attenersi nel caso citato era quello di non ledere gli interessi privati di quegli stessi giudici "supremi".

E' quindi inutile citare il fatto che le violazioni costituzionali non prevedono sanzioni, né per il pubblico né per il privato (diversamente da quelle Inglesi, sin dalla versione 600tesca dell'Habeas Corpus). La sua debolezza è tale che sarebbero comunque inutili.

della spiegazione, molto chiara. in attesa di una spiegazione migliore che mi convinca dell'opposto, trovo che questo sia il punto non proprio ovvio a tutti

 

...non coinvolge la questione delle pensioni. essendo il nostro sistema infatti un sistema a ripartizione è implicita nel suo stesso impianto normativo l'idea che il pagamento delle pensioni sia costantemente vincolato dalle contingenze della finanza pubblica. il pagamento delle pensioni è un onere di spesa corrente che non è sostenuto da nessun meccanismo di capitalizzazione (neppure dopo la riforma), pertanto qualunque sua ridefinizione non pone in linea di principio nessun problema di irretroattività della norma.

 

Purtroppo la % di persone che sembrano aver compreso questo fatto (a mio avviso ovvio, in particolare per la parte relativa agli ambiti in cui pacta sunt servanda risulti applicabile) e' veramente infinitesima. A volte trovi anche cosidetti "esperti" che ragionano come se il sistema a ripartizione, sulla base dei contributi, creasse "capitale e rendimenti". Per non parlare, ovviamente, della popolazione at large dove l'invocazione "la mia pensione me la sono pagata con i miei contributi" e' onnipresente. 

Egregi,

purtroppo state utilizzando termini che in questo paese non hanno alcuna definizione giuridica.
Perciò, la discussione risulterà infinita. Come costruire un castello su sabbie mobili.
Se al contrario esistessero, in Costituzione, le semplici definizioni di tali termini, il problema si risolverebbe da solo. Anche dal punto di vista economico.

So già che qualcuno, volendo parlare di "ciò che è", non di ciò che "dovrebbe essere" (magari  citando Kelsen), riterrà il mio intervento inutile.

E' infatti questo il principio ispiratore di tutto il sistema giuridico italiano: una torre di norme sempre più alta, che sprofonda sempre di più nella melma perché le sue fondamenta (la Costituzione) sono troppo deboli.

Eppure, lo scopo di ogni speculazione teorica dovrebbe essere il miglioramento dello stato di fatto. Criticarlo, ed allo stesso tempo accettarlo, è semplicemente contraddittorio.

Però il nostro punto va un pelino al di là di quanto dici, che condivido. Ossia, osa affermare che non esista costituzione, per bella che sia, capace di fare ciò che vorremmo facesse in questo contesto (ed in altri, ma in questo soprattutto). 

Questo ovviamente non implica che non sia il caso di sforzarsi di migliorarle, le costituzioni. Consapevoli, però, che quella "che funziona sempre" non c'è né mai ci sarà. 

Non comprendo perché lo stato minimo sarebbe una soluzione piu' teorica che pratica. Per esempio in CH (dove lo stato incide per un 31% su PIL come sommatoria di federazione, cantoni e comuni, ben lontano dall'Italia con il suo 51%) nel campo pensionistico vi sono due pilastri: un pubblico ed uno privato (pur regolato da legge federale). Ogni anno il tasso di rendimento minimo dei fondi pensione privati viene adeguato alla realtà dell'economia corrente e nessuno si lamenta se esso è diverso rispetto alle aspettative di 10 o 20 anni prima.  Ora non voglio sostenere che la Svizzera incarni perfettamente lo stato minimo ma ritengo che sia la nazione industriale che piu' si avvicina in Europa a questo concetto (vedere qui). Per me quindi, vedendo diversi aspetti concreti locali mi pare la soluzione possa essere anche pratica. Che poi in Italia o in Francia arrivare ad uno stato minimo o almeno a livello di regno unito, sia fantascienza sono d'accordo. Ma questo riguarda la percorribilità del percorso, irto di ostacoli e resistenze, che porta dallo stato elefantiaco ad uno almeno "snello" e l'assenza di leader in grado di guidare simili progetti. Il regno unito e la svezia per esempio hanno fatto molto (anche l'Irlanda), quindi "si puo' fare" ma il problema é l'Italia, o meglio gli italiani.

Discussione interessante, fondata sul rapporto tra Stato e cittadini, con un grande assente però : lo Stato in quanto tale, cioè la sua natura in rapporto ai cittadini.
Gli stati moderni sono eredi diretti degli stati autoritari, quelli in cui il RE imperava sui sudditi e riceveva il suo potere direttamente da Dio (secondo lui).
L'evoluzione li ha portati ad essere ciò che sono oggi, almeno nel cosiddetto mondo occidentale : stati "democratici".
Sarò in errore ma io non ho mai riconosciuto allo Stato Italiano (ma anche agli altri, per quanto a me noto) la patente di "democratici".
Lo Stato "impera" e la sua discrezionalità è limitata soltanto dalle leggi che esso stesso si è dato, ma che può cambiare in ogni momento, adattandole ai suoi interessi contingenti, spingendosi sino alle "leggi ad personam" di recente berlusconiana memoria. Ora, se lo Stato rappresenta autenticamente e democraticamente la società dei suoi cittadini, la sua discrezionalità altro non è che la traslazione della discrezionalità dei cittadini medesimi, ma se lo Stato rappresenta "altro" ?
Inoltre, sino a che punto può spingersi, e su quali temi, la discrezionalità di uno Stato anche se fosse, e non lo è, autenticamente democratico ?
Sino a che punto la collettività, rappresentata dallo Stato, degnamente o indegnamente, può imperare sulle libertà individuali limitandole o condizionandole, e sino a che punto lo Stato può obbligare il singolo a comportamenti sociali, o imporre oneri economici, senza contropartita contrattuale alcuna, essendo libero di rigettare il contenuto esplicito o implicito dei suoi contratti in qualsiasi momento, senza sanzione alcuna e senza indennizzo alcuno nei confronti del cittadino ?
Gli aspetti quantitativi , in tutte le cose della vita, alterano la natura qualitativa delle cose stesse. Un bicchiere di vino non altera lo stato di coscienza : una bottiglia intera, si. Lo "Stato minimo" che suggerische Michele è una istintiva percezione del bisogno di uno "Stato diverso" che ci porta a dover riflettere sul COSA debba essere lo Stato, e su quali debbano essere i limiti qualitativi e quantitativi, invalicabili, del suo perimetro di azione, immaginati in modo da impedire che possano sorgere numerosi e rilevanti conflitti tra gli interessi dei singoli cittadini e quelli dei cittadini nel loro insieme, attraverso lo Stato.  In uno Stato democratico e non paternalista, costituito da uomini liberi per mediare gli interessi di uomini liberi anche il problema delle pensioni forse non si sarebbe mai presentato nei termini in cui oggi si presenta.
Quando lo Stato non "impera" ed il cittadino sceglie, responsabilmente, in piena libertà, essendo vincolato essenzialmente al solo rispetto delle libertà e dei diritti altrui, cadono in buona misura gli "impegni" vincolanti e poi disattesi dello Stato nei confronti dei cittadini ed il problema della discrezionalità dello Stato, anche se non scompare, si ridimensiona drasticamente.

Se ponessi il punto fi vista della teoria come primario, ho nessun dubbio sullo stato minimo (minimo qui significa: potere militare in caso di invasione, preservazione dell'incolumita' fisica dei sudditi, intervento se e solo economia di scala rendano la scenza imprescindibile [nessuno sa bene come costruire una sonda per plutone sulla base di crowdfunding, resta aperto il questionario se sia utile o auspicabile fotografare le montagne di plutone].)

cio' detto e per contro, la nozione di minimalita' qui adottata venne refutata da lel dure repliche della storia, ad ogni seconda pisciata di cane e pure alla prima di odono stridenti domande per salvare l'opera di parma, per salvare venezia, san gimignano e i legni rossi in california, quando non venga invocato il potere dei carri armati per fare entrare al primo anno di universita' chi e' nato nero o marron scuro (gli esempi son tutti reali, non fittizi.)

La discrezionalita' a cui venne fatto riferimento, da M Boldrin, e' a modesto avviso del sottoscritto l'aspetto tragico della politica. se, per impossibile, fare il declino o qualche ammenicolo similpelle del genere fosse al governo l'unica cosa che lo terrebbe a galla sarebbe lo stanziamento di xeuros per.... salvar pompei, l'alluvionata firenze, und so weiter.

 

 

resterebbe sempre bene rimemorare che il cretnio al governo spende quattrini per pagare i suo individui sospensorii alla RAI e affini (sospensorio qui e' termine tecnico della biancheria per maschi, ha poco a che fae con la sospensione delle partite di calcio)

inevitabile, temo, in assenza di stato minimo. E lo stato minimo e', fattualmente, non possibile. Quindi la tragedia e' inevitabile.

Lo stato minimo funziona (in teoria, meglio: in una certa teoria, chiaramente imperfetta perché continuamente negata dalla storia, come ricordi) sotto assunzioni che (vedi parentesi precedente) chiaramente omettono a man bassa troppi aspetti del reale, di come funzionano gli umani e di come interagiscono.

Hence, la politica è sempre tragica, nel senso che in conflitto fra necessità (esterna all'individuo) e libertà (dell'individuo) e' irrisolvibile attraverso accordi stabiliti  a priori o regole predeterminate. La politica e', alla fine, violazione delle regole esistenti.

su tutto, sulle pensioni mi auguro di morir giovane..... l'eterna illusione...

Segnalo che "lo stato minimo" è identificabile probabilmente con quello di commissariamento delle amministrazioni pubbliche fallite, secondo il cap. 9 della Bankrupcy law.

In pratica, il fallimento viene gestito tagliando un po' tutto tranne i servizi essenziali: polizia, pronto soccorso, vigili del fuoco e giustizia.

Dall'emanazione (1933) della legge, i fallimenti pubblici sono stati 645, tra cui quello dell'intera città di Detroit (2013).

Peccato che il bel paese non lo ammetta ...

 

Credo che la prospettiva dei diritti acquisti non sia la strada giusta per inquadrare il problema pensionistico in Italia e ogni discorso fondato sugli stessi è destinato inevitabilmente ad essere inconcludente, favorendo chi invece vuole evitare che si affronti la questione seriamente.

 

Alla base del concetto di diritti acquisiti c’è un assunto, ricorrente anche in questo dialogo fra Luigi e Michele quando si parla di promessa pensionistica e spesa pensionistica, che implica che c’è una parte che dà e un’altra che riceve senza avere dato nulla in cambio.

 

Di qui la conclusione che lo stato può prendere così come ha dato.

 

Anzi, devo confessare di essere molto sorpreso da come gli economisti usano “spesa” quando in effetti dovrebbero utilizzare il termine “esborso”, dato che una spesa implica un pagamento senza contropartita mentre nel caso delle pensioni la contropartita c’è stata sotto forma di contribuzione.

 

Si parlerebbe di spesa quando si rimborsano le obbligazioni emesse dal Tesoro? Certo che no.

 

Si parla di spesa quando le banche restituiscono i soldi ai depositanti? Certo che no.

 

In questi casi al massimo si parla di spesa per interessi sulle obbligazioni e sui depositi e comunque credo che nessuno dubiti della legittimità di chi presta i suoi risparmi a vedersi riconosciuto un congruo rendimento.

Brevi (ma noiose) considerazioni giuridiche:

1) nei casi in cui l'obbligato è tenuto ad eseguire la prestazione promessa a distanza di tempo rispetto al momento dell'assunzione dell'obbligo, il principio "pacta sunt servanda" è mitigato dal principio "rebus sic stantibus": L'art. 1467 cod.civ. prevede, nelle ipotesi di contratto di durata o ad esecuzione differita, che "se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili" è possibile, per tale parte, richiedere la risoluzione del contratto. 

L'evento che rende l'obbligo assunto eccessivamente oneroso deve essere straordinario e imprevedibile. Ma anche la svalutazione monetaria, sebbene sia un fenomeno prevedibile, può essere ritenuta evento idoneo a giustificare la risoluzione, quando l'entità di essa sia eccezionale rispetto al periodo in cui venne concluso l'atto (Cass. n. 369/1995). 

La stessa cosa dovrebbe dirsi di una crisi economica di particolare durata e profondità.

Inoltre, nessuno pretende di "risolvere il contratto" interrompendo l'erogazione delle pensioni, ma solo di ridurne l'importo.

Al riguardo si può osservare che, in tema di appalto, l'articolo 1664 ammette la revisione del prezzo in caso di aumento del costo di materiali o mano d'opera superiori al 10% anche a brevissima distanza di tempo.


2) come già fatto osservare, il nostro è un sistema pensionistico a ripartizione: i soldi che arrivano oggi nelle tasche dei pensionati non sono quelli da loro versati a titolo di contributi durante gli anni di lavoro, ma quelli versati oggi dagli attuali contribuenti. I soldi da loro versati all'epoca sono stati utilizzati, anno per anno, per pagare le pensioni ai pensionati dell'epoca.

In sostanza il legislatore attribuisce ai pensionati il diritto di essere mantenuti dai contribuenti. La situazione, dunque, più che essere assimilabile ai vincoli contrattuali, ai quali si applica comunque l'articolo 1467, pare analoga al diritto al mantenimento che la legge riconosce ai figli o al coniuge separato (o anche ai genitori in stato di bisogno).

In questi casi, la clausola "rebus sic stantibus" trova piena applicazione: quando, successivamente alla quantificazione dell'assegno di mantenimento, si verificano variazioni nella situazione economica degli obbligati (per esempio perdita del lavoro, riduzione del reddito, sopravvenienza di figli) questi sono legittimati a richiedere una revisione dell'importo, al fine di ottenere un adeguamento alla mutata condizione.

Mutatis mutandis, lo stesso principio potrebbe trovare applicazione in caso di diminuzione dei redditi dei contribuenti o di diminuzione del loro numero e aumento del numero dei pensionati.

Anzi: dovrebbe. In caso contrario, se il pil crollasse del 50%, lo stato, non potendo legittimamente ridurre le pensioni, dovrebbe rinunciare a svolgere persino le attività fondamentali (difesa, ordine pubblico etc) o espropriare il 100% del reddito dei contribuenti.


3) In realtà, la sentenza 446 del 12/11/2002 della Corte Costituzionale, confermando un orientamento consolidato, afferma: "In materia previdenziale deve tenersi conto del principio secondo cui il legislatore può, al fine di salvaguardare equilibri di bilancio e contenere la spesa, ridurre trattamenti pensionistici già in atto.

Perciò, il diritto ad una pensione legittimamente attribuita – se non può essere eliminato del tutto da una regolamentazione retroattiva che renda indebita l'erogazione della prestazione - ben può subire gli effetti di discipline più restrittive introdotte non irragionevolmente da leggi sopravvenute"

Quindi, non mancano argomenti tecnico-giuridici per ammettere il potere del legislatore di ridurre le pensioni.


4)  Il problema è: chi decide? Nei casi di diritto civile sopra riportati, è il giudice a stabilire se la sopravvenuta onerosità è eccessiva o se vi siano motivi sufficienti per ridurre l'assegno che l'alimentante deve versare all'alimentato.

Nel caso del legislatore, il giudice che controlla la legittimità delle sue decisioni è la Corte Costituzionale. La quale però, entrando nella valutazione della ragionevolezza delle leggi, si arroga in sostanza il potere di decidere nel merito il quantum, riconoscendo ad esempio legittima la sospensione dell'adeguamento Istat delle pensioni superiori al quintuplo della minima per un anno e illegittima la sospensione per tre anni relativa a pensioni superiori al triplo della minima.

A me pare aberrante, perché se un provvedimento è conforme alla costituzione, il quantum non può che essere di competenza del parlamento, che rappresenta il popolo sovrano.

La mia è solo un'opinione personale, che la Corte Costituzionale ritiene pacificamente infondata (ovviamente).

Per un approfondimento: 

Premesso che sono incompetente di materie giuridiche, approfitto della sua competenza in materia per porLe due domande.
Sfogliando qua e la mi pare che il principio rebus sic stantibus da Lei citato sia accolto con molta reticenza, soprattutto nei paesi del codice napoleonico come il nostro, pur essendo esso in apparenza assai ragionevole. Mi pare di intuire la ragione: non è tanto il fatto che esso sia in palese contrasto con  il pacta sunt servanda, ma il senso stesso di un accordo vincolante.
Come già evidenziato dal dibattito originale, quasiasi accordo/contratto diviene significativo soltanto in quei casi in cui senza di esso, al momento della sua applicazione, il contraente (stato o privato è indifferente) non si comporterebbe come previsto dal contratto se questo non ci fosse.
In tutti quei casi in cui la condotta prevista dal contratto è anche conveniente, il contratto è superfluo.
Ammettendo che i contratti/accordi siano condizionati nella loro efficacia al perdurare delle condizioni di convenienza reciproca che - evidentemente, almeno se sono stati liberamente sottoscritti - avevano quando furono firmati, si intacca il loro significato.

Per questo forse, anche quando il principio viene accolto, esso è inserito preliminarmente nel contratto stesso, enumerando esplicitamente quelle condizioni che, se verificatesi, risolverebbero il contratto o giustificherebbero la sua rinegoziazione.
E' il caso della revisione del prezzo che il codice degli appalti prevede qualora il costo dei matariali sia aumentato di più del 10% che cita Lei.
L'eccezione è prevista già nel contratto generale, e soprattutto quantificata (10%).
E' arduo stabilire quali condizioni siano "imprevedibili" ed "eccezionali" in modo non arbitrario, soprattutto se il potere di stabilirlo è in capo a uno dei contraenti (lo Stato).

Anche se il sistema pensionistico attuale è a ripartizione, il contribuente e futuro pensionato misura le sue possibilità ed opera le sue scelte di vita (anche) in base alle aspettative che questo contratto gli offre. E non solo da quando inizia a percepire la pensione: in teoria (anche in pratica, per i più previdenti) da quando inizia a versare contributi.
Quindi qualunque "riforma" delle pensioni si voglia operare, questa deve garantire, certo, sostenibilità per i bilanci dello Stato, ma anche per i bilanci delle famiglie.
E' necessario tenere conto di questa esigenza: l'ammontare della futura pensione deve essere noto con ragionevole precisione al contribuente con largo anticipo; e non imprevedibile poiché modificabile senza difficoltà da ogni futura maggioranza parlamentare.

Non avevo alcun dubbio sul fatto che lo Stato avesse tutte le armi che vuole per imporre la sua volontà.

Lei dà per scontato che il sistema a ripartizione sia qualcosa che esiste in natura e in quanto tale vada preservato nel suo stato attuale. Purtroppo è proprio quello il problema, specialmente in un'ottica di invecchiamento della popolazione. Se poi si aggiunge che l'occupazione non aumenta, e quindi i contributi rimangono stazionari at best, avrà un'idea della situazione.

 Lasci perdere i contratti. Il problema è politico.

 

 

Come già scrissi nel mio messaggio del 4 agosto il rapporto che lega il lavoratore/pensionato all'ente di previdenza non ha natura contrattuale: termini e condizioni sono stabiliti unilateralmente dallo Stato e il lavoratore non vi si può legalmente sottrarre. Questa circostanza secondo me determina un più ampio margine di discrezionalità per lo Stato sesso.

 

Se invece si vuole cercare una soluzione pratica alla sopravvenuta iniquità generazionale, un approccio potrebbe essere di mantenere alte le aliquote di tassazione nominali e allo stesso tempo introdurre facilitazioni che possano beneficiare maggiormente le generazioni meno anziane. Qualche esempio: deduzione dal valore imponibile IMU dell'importo dell'eventuale mutuo acceso sull'immobile; maggiori deduzioni per i redditi da lavoro dipendente e condizioni più generose per i lavoratori indipendenti, maggiori deduzioni per i figli minorenni a carico; asili nido e scuole materne interamente a carico dell'erario, almeno per le famiglie dove entrambi i genitori lavorano e pagano le tasse etc.

 

Infine, come ultima ratio, le costituzioni si possono cambiare: se si può fare per una buffa riforma del senato si potrà fare anche per problemi più seri.

Confermo: il principio rebus sic stantibus è accolto con estrema cautela dal legislatore, proprio per non ledere l'opposto, prevalente principio della vincolatività degli impegni assunti.

La citazione degli articoli del codice (ma anche e soprattutto della sentenza della Corte Costituzionale citata al punto 3) servivano a evidenziare che il principio "pacta sunt servanda" non è un tabù intoccabile.

Deve (dovrebbe) cedere a sopravvenute esigenze "di salvaguardare equilibri di bilancio e contenere la spesa", come attesta la Corte. Riservandosi tuttavia il potere di decidere entro quali limiti, in base alla sua soggettiva "ragionevolezza".

Ha poi ragione Massimo quando afferma che la situazione dei pensionati non è assimilabile a quella dei contraenti di un contratto, non avendo essi avuto facoltà di non aderire o di contrattare i termini della loro adesione. Ma da ciò non credo possa discendere una loro minor tutela: i pensionati potrebbero eccepire che a maggior ragione, essendo stati constretti a versare, sarebbe un arbitrio togliere loro quanto promesso dalla "parte forte" dell'accordo.


Credo invece che questa considerazione, abbinata al funzionamento del sistema previdenziale a ripartizione, debba portare a una conclusione analoga per una diversa via logico-giuridica.

In sostanza, il legislatore ha obbligato i lavoratori dei decenni passati a versare delle somme che ha utilizzato, contestualmente al loro versamento, per pagare le pensioni dei pensionati degli anni corrispondenti.

In sostanza, anche se hanno un nomen iuris diverso, i contributi pensionistici sono assimilabili sostanzialmente a delle imposte di scopo: lo  stato preleva coattivamente delle somme dalle tasche dei contribuenti, che vengono destinate, anzichè genericamente alla soddisfazione dei bisogni collettivi, ad un uso determinato: il pagamento delle pensioni in erogazione.

Adottando questa linea di pensiero, il taglio delle prestazioni non differisce dal taglio delle attività che con il gettito delle imposte vengono finanziate.

Non presenterebbe cioè alcuna differenza con il taglio delle prestazioni sanitarie (o delle spese per la difesa o l'ordine pubblico) che in parte sono state effettuate e in parte (assai più vaga) previste.

Si potrebbe obiettare che la prestazione delle pensioni nella misura promessa, anche per le pensioni alte o altissime, costituisca un obbligo inderogabile per lo stato, mentre la difesa, la sanità, l'ordine pubblico possano essere fornite dallo stato solo se e nella misura in cui lo stato (o meglio i contribuenti) possono permetterselo?

Mi sembrerebbe paradossale.

 

 

Mi scusi ma non credo proprio che si possano assimilare le imposte ai contributi.

Le prime sono universali mentre i secondi sono imposti solo agli iscritti all'INPS. Anche in questo caso si potrebbe sollevare la questione che per gli sciali passati saranno penalizzati soli gli iscritti all'INPS con contributi elevati e pensioni basse. Gliel'ho detto, la questione è politica.

Tuttavia anche se i pensionati non hanno in teoria "la possibilità di contrattare i termini della loro adesione" [all'INPS] in pratica essi possono ritagliarsi con una certa discrezionalità una alternativa, ad esempio scegliendo di non versare contributi all'INPS e di versarli invece ad uno dei vari enti previdenziali alternativi, come le "casse" degli ordini professionali.
Nel mio caso ad esempio (sono ingegnere) avrei potuto scegliere una forma contrattuale diversa, tale da permettermi di continuare ad essere libero professionista, e come tale continuare a versare contributi ad Inarcassa, come ho fatto per il periodo in cui sono stato libero professionista; senza dare nulla all'INPS.
La mia contribuzione quindi è "obbligatoria" solo fino a un certo punto. Le mie scelte di vita di adesso sono fatte anche in base al livello di fiducia che ripongo nella affidabilità dell'Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, e soprattutto alla non-possibilità dei governi futuri (di cui non posso sapere nulla) di modificare arbitrariamente i trattamenti.
Non c'è dubbio che salvaguardare le esigenze di bilancio sia importante, e naturalmente non c'è dubbio neppure che "lo stato può fare quello che vuole"; ma una esigenza da salvaguardare di cui pure si deve tener conto è quella di rendere il sistema previdenziale robusto agli attacchi delle future maggioranze parlamentari, almeno nella misura che serve a rendere ragionevolmente prevedibile il trattamento.
In mancanza di ciò non se ne fiderà più nessuno, e a questo punto anche l'aver reso "obbligatorie" le contribuzioni sarà poco utile, perché si troverà sempre un sistema per non versare contributi a un ente inaffidabile e dirottarli verso qualcos'altro.

Approfitto qui per fare una seconda considerazione. Ogni volta che si parla di pensioni si punta il dito contro il sistema a ripartizione, come se fosse in esso l'origine di tutti i mali.
Può darsi che il contributivo sia migliore, ma mi pare sciocco affermare che un sistema a ripartizione sia necessariamente, sempre, insostenibile.
Anche con l'attuale invecchiamento della popolazione.
In particolare mi chiedo (e chiedo ai molti esperti di questo forum) come sia possibile che l'invecchiamento della popolazione ci abbia colto di sorpresa.
Ma come si può? Di tutti i dati del futuro, la piramide demografica è il più prevedibile di tutti. A meno di guerre o invasioni aliene perlomeno, assumendo costanti i tassi di mortalità (e sbagli di poco) e stimando i parametri di ingresso e uscita, io posso stimare il numero di trentacinquenni del 2050 osservando il numero di nuovi nati del 2015 (che è un dato disponibile ORA) con una precisione del 90%. E ci sto largo.

Osservo:

- non tutte le imposte sono universali. Esistono imposte che vengono pagate solo da una parte dei cittadini (per esempio i proprietari di immobili) e sono destinate a voci particolari di spesa (per esempio l'illuminazione e  manutenzione delle strade cittadine etc).

Da questo punto di vista, non vedo una differenza sostanziale tra (certe) imposte e i contributi: la legge prevede che i lavoratori siano obbligati a versare certe somme che sono utilizzate per pagare le pensioni ai pensionati. Così come i proprietari immobiliari sono obbligati a versare somme destinate alla manutenzione delle strade. Questo al netto delle casse autonome, in cui il funzionamento è analogo ma autogestito dalla categoria.

Il futuro trattamento pensionistico dovrebbe essere ragionevolmente prevedibile, ma dovrebbe esserlo anche il futuro carico fiscale, perchè anche in base ad esso si operano scelte di vita. Il che non è.

Per la grande maggioranza degli italiani, la grande maggioranza dei risparmi accumulati in generazioni sono conservate sotto forma di investimento immobiliare. Le imposte sugli immobili sono triplicate nel corso degli ultimi dieci anni, stravolgendo le condizioni economiche dei molti che avevano pensato di assicurarsi un reddito investendo in appartamenti da affittare.

Lo stesso discorso può essere fatto per chi ha impiantato imprese investendo capitali ingenti o 

ha intrapreso una carriera di studi lunga e costosa per ottenere una qualifica professionale che, all'epoca della scelta, assicurava un certo ritorno o reddito, che oggi è assai ridotto non solo per la crisi economica ma anche per l'aumento della pressione fiscale.

Quello che voglio dire è che nessun contribuente ha un diritto certo e acquisito per sempre a una determinata pressione fiscale, cioè a tenersi in tasca una quota minima garantita del reddito che guadagna dal suo lavoro. E perchè mai i pensionati avrebbero il diritto di incassare le somme previste a spese dei contribuenti, senza se e senza ma, anche se i contribuenti schiantano sotto la pressione fiscale e contributiva? A me pare insostenibile. 

 

 

 Le imposte sono comunque universali, una volta soddisfatte certe condizioni, p.e. la proprietà di una casa (IMU) o un reddito minimo di 12.000 euro (IRPEF). 

 La contribuzione INPS non soddisfa questo principio di universalità. Se prendiamo, per esempio, gli sgravi degli oneri contributivi concessi dal Jobs Act appare evidente che le pensioni future pagate ai nuovi assunti saranno pagate solo con i contributi degli iscritti all’INPS, non certo da chi è iscritto agli ordini.

Le baby pensioni le stanno pagando con i contributi degli iscritti all’INPS, non con i contributi di chi è iscritto agli ordini. 

Inoltre, a parità di reddito, non tutti pagano la stessa contribuzione, contrariamente alle imposte. I dipendenti pagano il 33%, i commercianti il 24%, gli iscritti alla gestione separata il 27,72% e gli iscritti agli ordini hanno una loro contribuzione. 

 

Anche da un punto di vista economico-finanziario, le tasse sono un ricavo a titolo definitivo per lo Stato, i contributi sono registrato come debito nella contabilità dell’INPS, specialmente ora che vige il contributivo. Ed è proprio questa natura di debito che presuppone un rapporto a prestazioni reciproche. 

 

Per quanto riguarda, gli investimenti immobiliari o le imprese, lì si parla di rischio di investimento e rischio di impresa. Chiunque faccia una cosa del genere sa che le condizioni possono cambiare.

 

Per la previdenza, invece, è una cosa diversa.

 

In un piano pensione a benefici definiti – il c.d. retributivo – il proponente – i.e. lo Stato – si assume coscientemente il rischio di pagare una certa cifra indipendentemente dai contributi versati.  

 

Personalmente penso che dare tutti quei soldi all’INPS costituisce uno spreco del risparmio nazionale, visto che se fossero impiegati in maniera più produttiva – e non solo per pagare le pensioni in cambio di rendimenti legati al PIL dello 0 virgola tanto percento – potrebbero consentire ai lavoratori di avere pensioni più alte e di continuare comunque a pagare le pensioni pregresse.

 

Se si pensa che la soluzione è il taglio delle pensioni, si proceda pure.

 

Poi dopo siamo sicuri che il Paese è pronto a rimettersi in piedi dopo aver prostrato il nonno, che a sua volta ha trasmesso nervosismo ai figli che a loro volta hanno messo in agitazione i nipoti?