Salari, maledetti salari

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Proviamo a discutere seriamente di salari bassi e che non crescono. Per oggi illustriamo i fatti ed i non fatti (che sono importanti anche se arrivano alla fine, abbiate pazienza). Lasciamo analisi e proposte a un post futuro che pubblicheremo a giorni.

Tutti vogliono aumentare i salari degli italiani. Lodevole intento, dal momento che i salari dei lavoratori dipendenti italiani sono, effettivamente, molto bassi in relazione alla media degli altri grandi paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito ed anche Spagna). I dati Eurostat, riportati nella relazione "Consumo e Crescita in Italia" pronunciata dal Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi nell'ottobre 2007, lo confermano (vedi qui per un commento e qui per alcune correzioni).

Ad esempio, nel 2001-2002 nelle imprese dell'industria e dei servizi privati, in Italia la retribuzione media oraria era di soli 11 euro. A parità di potere d’acquisto questo valore è circa il 30-40% al di sotto dei corrispondenti valori in Francia, Germania e Regno Unito. Tali differenze salariali sono più contenute per i giovani, ma poi si ampliano per le classi centrali di età (quelle generalmente più produttive) e tendono ad annullarsi per i lavoratori più anziani. Il differenziale è più basso nelle occupazioni manuali e meno qualificate. I dati citati rappresentano valori medi e risentono delle diverse caratteristiche individuali dei lavoratori; ma anche a parità di caratteristiche individuali, le retribuzioni mensili nette italiane risultano inferiori di circa il 10% rispetto a quelle tedesche, del 20% a quelle britanniche e del 25% a quelle francesi.

Questo fenomeno risulta vero per i lavoratori dipendenti del settore privato, ma vale in parte anche per i dipendenti pubblici "comuni", ossia per insegnanti, postini, infermieri, dipendenti delle ferrovie, impiegati delle prefetture o degli enti locali. Sembra valga molto meno, invece, per quella ristretta elite di dipendenti "ministeriali" e "alti funzionari" - concentrati quasi tutti nei ministeri romani o nelle loro propagazioni-satellite in Italia e nel mondo - che a colpi d'indennità e aumenti di qualifica guadagnano non solo più di quanto dovrebbero percepire visto ciò che non fanno, ma anche di più dei loro analoghi europei. Di questi non ci occuperemo in questo articolo, anche se l'argomento meriterebbe davvero molta attenzione. Per non generare confusione, tralasceremo quindi tutti i dipendenti pubblici. Se le energie ci ritornano, la prossima volta proveremo ad analizzare i salari del settore pubblico. Per oggi, ai lettori interessati speriamo bastino ed avanzino i dati relativi ai salari del settore privato.

 

I FATTI AGGREGATI

Per stuzzicare l'appetito (e per i lettori che vanno di fretta e non vogliono sciropparsi le tabelle che seguono) ecco tre sunti, fra i molti possibili, della situazione. Corriere sul rapporto Banca d'Italia sui redditi delle famiglie, editoriale di Francesco Giavazzi sui salari che piangono, inchiesta "ad hoc" de La Repubblica sul potere d'acquisto dei salari italiani.

Che i salari reali italiani, a parità di età e qualifica, siano inferiori a quelli europei di percentuali che vanno dal 10% al 40%, lo diamo per acquisito, anche se si ritornerà brevemente su questo punto più avanti nell'articolo per descrivere meglio la situazione del nostro Paese. Diamo anche per acquisito che una parte di questa differenza sia dovuta alla maggior pressione fiscale sul reddito da lavoro italiano, pressione particolarmente forte per i dipendenti che non possono usufruire di quella "esenzione implicita" che da 50 anni regge il sistema socio-politico italiano e della quale si avvantaggiano i lavoratori autonomi, ossia l'elusione e l'evasione fiscale. Occorre però stare attenti a non farsi troppe illusioni: il maggior carico fiscale spiega solo una parte relativamente piccola della differenza fra i salari italiani e quelli degli altri paesi europei. I dati Eurostat (che non riportiamo per non appesantire troppo l'articolo) mostrano che, anche qualora si considerassero i salari lordi di tutte le imposte ed i contributi, esisterebbe comunque una differenza dell'ordine del 30% con quelli della Francia, ed addirittura superiore al 40% con Germania ed Inghilterra. Solo nel confronto con la Spagna i salari italiani lordi risultano leggermente superiori, ma i salari spagnoli partivano da valori molto inferiori agli italiani negli anni 80. Inoltre, quando si confrontano i salari netti gli spagnoli e gli italiani sono praticamente equivalenti, con gli spagnoli leggermente superiori negli anni recenti.

Vediamo ora cosa è successo al loro tasso di crescita negli ultimi 25 anni (1981-2006). Anch'esso è sostanzialmente inferiore a quello degli altri paesi europei, ma la mancanza di crescita è concentrata soprattutto negli ultimi dieci anni circa. Prima, ossia sino al 1995-96, i salari italiani si comportavano più o meno come la media di quelli dei grandi paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito e Spagna). Un confronto sommario di quanto successo negli ultimi cinque anni si trova nelle due tabelle che seguono.

 

 

Salario lordo

 

Salario reale

Il fatto è che, negli ultimi dieci-undici anni, non sono solo i salari dei lavoratori dipendenti che hanno smesso di crescere: la loro produttività ha fatto lo stesso. Più in generale, tutte le misure di produttività del lavoro italiano, dipendente o non, pubblico o privato (che già crescevano poco rispetto ai paesi più avanzati sin dalla metà degli anni 80) hanno frenato bruscamente e si sono appiattite attorno al 1996. Il grande rallentamento, anche se forse veniva da lontano, si manifesta nei dati solo dopo la recessione della prima metà degli anni '90, o con la fine del regime Craxi-Forlani, se volete, e l'entrata in scena di Berlusconi e Prodi! Il grafico seguente - che descrive l'evoluzione della produttivita` del lavoro in Italia (qui misurata dal rapporto tra prodotto interno lordo reale e numero complessivo di ore di lavoro) - crediamo renda chiaramente questo fatto.

 

Produttivita' del lavoro

Ulteriori prove del lento declino si trovano nella tabella qui sotto (fonte EUROSTAT), che presentano l'evoluzione della produttività del lavoro italiana in relazione alle medie europee a partire dal 1995:

 

I FATTI, UN PO' DISAGGREGATI (SOLO PER SECCHIONI)

Cominciamo dal valore aggiunto per ora lavorata che, piaccia o non piaccia, è la torta di cui il salario orario è una fetta. Il VA per ora lavorata è cresciuto del 44% tra il 1981 ed il 2000 ed è diminuito dello 0.9% tra il 2000 ed il 2006. La crescita del valore aggiunto per ora lavorata si è fermata attorno al 1996, a ben guardare. Da allora, in 11 anni, esso è cresciuto solo del 2%! Questo nella media, mentre i valori settoriali dicono cose ancor più interessanti. In agricoltura, dove il VA per adetto era triplicato nel 1981-2000, la crescita è stata, da allora, pari all'1%. Nell'industria, dov'era quasi raddoppiato, è rimasto costante. Nelle costruzioni è cresciuto dell'1.5% ma in questo caso anche il periodo 1981-2000 era stato misero (+5%). Il commercio è il settore "record" con una crescita del 4%, contro il 33% del periodo precedente. Infine il settore finanziario ed immobiliare e quello dei servizi pubblici hanno avuto entrambi una sostanziale crescita negativa: -11.6% e -6.5%, rispettivamente. Questi due valori, vanno qualificati. Mentre nel secondo, che corrisponde quasi interamente con il settore pubblico, il VA per ora lavorata diminuisce da sempre (-8% tra 1981 e 2006), nel primo abbiamo assistito a due movimenti contrastanti. Il VA per ora lavorata nel comparto dell'intermediazione finanziaria è cresciuto del 27% nel 1981-2000 mentre da allora ristagna. Nel comparto delle attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca e servizi alle imprese, invece, il VA per ora lavorata cala da sempre, ed è oggi uguale a circa un terzo di quanto fosse nel 1981. Quest'ultimo dato è però comprensibile in base al fatto che le ore lavorate sono quintuplicate e che,25 anni fa, si trattava di un comparto minuscolo e ad alto VA.

Un quadro aggregato desolante, dunque, a fronte del quale pare opportuno chiedersi se esiste almeno qualche settore o comparto dell'economia italiana che faccia eccezione. Ossia, se esistono industrie nelle quali la produttività continui a crescere in modo sostanziale. I valori disaggregati per comparti più piccoli di quelli citati si fermano - purtroppo: grazie ISTAT - al 2004. In quell'anno solo il comparto della produzione e distribuzione dell'energia elettrica, acqua e gas sembra avere performances decenti: +22% rispetto al 2000. L'unico altro che segnala un minimo di crescita del VA per ora lavorata (+5.2%) è quello della produzione articoli di plastica e gomma. Per il resto, declino o costanza. Insomma: la produttività del lavoro italiano non cresce, da dieci anni e più, in alcun settore economico.

Veniamo ora alla produttività totale dei fattori (o TFP), un concetto forse un po' tecnico per l'uso del quale ci scusiamo con i lettori non esperti. Esso è però molto utile per capire cosa causa che cosa. Intuitivamente, pensate alla TFP come un indice della crescita di produttività attribuibile al fatto che si producono delle cose migliori e nuove, si organizza il lavoro meglio, si fanno prodotti che il consumatore valuta di più, e così via. Insomma, tutti quei guadagni di produzione che NON dipendono dall'usare maggiori quantità di capitale e un numero maggiore di ore lavorate. L'indice aggregato di TFP era cresciuto del 25% tra il 1981 ed il 2000, e da allora è sceso di quasi il 3%! Anche in questo caso, la grande frenata avviene attorno al 1996 visto che la TFP italiana del 2006 è identica a quella di 11 anni prima. Le variazioni settoriali sono simili a quelle evidenziate per il VA, con l'unica variante che la TFP sembra essere diminuita in tutti i settori fuorché quello del commercio (+1.6%) dal 2000 ad oggi. Particolarmente drammatiche, dal 2000 ad oggi, le diminuzioni della TFP nel settore finanziario ed immobiliare (-12%) ed in quello dei servizi pubblici (-9%). Come al solito, una "foto" vale più di cento parole, quindi eccola (il grafico si basa su stime nostre su dati nazionali aggregati di fonte EUROSTAT):

TFP

Negli ultimi cinque anni sono andate crescendo le ore lavorate totali. Esse sono ora il 6% più alte di quanto erano nel 2000, anno in cui erano uguali a quelle del 1992 e solo il 3% maggiori che nel 1981. La distribuzione settoriale di tale crescita, è altamente ineguale. Nell'agricoltura ed industria le ore lavorate sono il -8% ed il -4% che nel 2000, mentre sono cresciute in tutti gli altri settori. Rispettivamente: costruzioni (+15%), commercio ecc. (+3%), intermediazione (+21%), servizi pubblici (+13%). Vale la pena notare che TUTTA la crescita nelle ore lavorate si concentra, dal 1981 ad oggi, negli ultimi tre settori che danno, rispettivamente, +20%, +246% e +122% su quell'arco di tempo. Vi preghiamo di guardare attentamente gli ultimi due numeri che corrispondono, rispettivamente, all'intermediazione finanziaria/immobiliare ed al settore pubblico. Durante gli stessi 25 anni le ore lavorate totali hanno registrato un +8%. Detto altrimenti: praticamente la totalità della crescita di ore lavorate durante gli ultimi 25 anni è dovuta all'intermediazione finanziaria/immobiliare ed al settore pubblico.


I FATTI, ANCOR PIU' DISAGGREGATI (SOLO PER SECCHIONI INVETERATI, MA UTILI PER L'ANALISI A VENIRE)

Utilizzando dati ISTAT è possibile disaggregare l'evoluzione e, soprattutto, il livello della produttività del lavoro italiana negli ultimi anni. Guardando alle medie nazionali, ad esempio, si nota come la produttività nell'Italia del Centro e del Nord si mantenga consistentemente ben più alta della media nazionale, con differenze evidenti a seconda che si consideri l'aggregato Italia Nord-occidentale o Italia Nord-orientale. Un po' a sorpresa, rispetto all'opinione comune, la produttività del Nord-Est non si discosta di molto dalla media. La situazione, non sorprendentemente, cambia se si guarda agli indici di produttività del lavoro nel Mezzogiorno, assai lontani dalla media nazionale e ben più distanti da quelli settentrionali. Gli istogrammi qui sotto ben rappresentano la situazione appena descritta e la sua evoluzione, quasi impercettibile a dire il vero, dall'inizio del nuovo millennio. Detto altrimenti, in questi istogrammi ci sono due messaggi: la differenza fra la produttività del Sud e quella del resto del paese è gigantesca, e non cambia nel tempo.

L'impressione è confermata se si osservano, poi, i tassi di crescita complessivi di questa variabile nelle stesse macro-aree geografiche di sopra. Si scopre allora che nel periodo 2000-2006 l'Italia Nord-orientale ha registrato una crescita dello 0.92%, l'Italia Nord-occidentale una caduta dell'1.27% ed il resto variazioni relativamente piccole ma negative! Messa in soldoni: la produttività del lavoro sta diminuendo ovunque, ed il Nord Est riesce a fatica a crescere un pelino, ma proprio un pelino.

produttivita_lavoro__crescita_0

Disaggregando ulteriormente (per settori e per le tre aree) i dati per il 2005 - l'ultimo anno, nel database ISTAT, per cui si abbiano dati completi e comparabili per ogni regione ed industria - scopriamo anche che i livelli di produttività sono abbastanza eterogenei settorialmente e territorialmente. In primis, si registra la sistematica arretratezza delle regioni del Sud. Inoltre, esistono nel nostro Paese settori la cui produttività del lavoro si discosta in maniera significativa dalla media nazionale e dalla media delle altre industrie. Infine, l'andamento degli istogrammi su base nazionale è assai simile a quello degli istogrammi per ciascuna macro-area a suggerire che l'eterogeneità della produttività settoriale potrebbe essere relativamente più pronunciata dell'eterogeneità regionale, fatto salvo ovviamente il caso del Mezzogiorno. Quest'ultimo continua ad apparire, anche in questi dati, come un territorio a parte dal resto del paese.

 

produttivita_lavoro__settori__macroaree_0

L'analisi veloce di appropriati indici di dispersione può, infine, rendere meglio l'idea di quanto variabile ed eterogenea sia la produttività del lavoro in Italia. Le tabelle che si riportano a seguire indicano l'evoluzione temporale dei coefficienti di variazione (non pesati per livello di attività economica) della produttività del lavoro in Italia lungo le industrie e le aree geografiche. Ad indice più elevato corrisponde una dispersione maggiore della variabile rispetto alla sua media. Nella prima tabella l'indice indica la dispersione della produttività del lavoro in ciascuna macro-area calcolata sulle diverse industrie.

 

cv1_0

 

 

La prossima tabella riporta l'indice di dispersione della produttività del lavoro in ciascun settore, calcolato lungo l'asse delle regioni.

 

cv2_0

I differenziali di produttività del lavoro tra industrie, già elevati, sono generalmente e ulteriormente cresciuti in Italia dal 2000 al 2005. Il trend nazionale è riscontrabile (prima tabella) in ciascuna zona geografica, con l'unica eccezione dell'Italia Nord-occidentale, che, tra l'altro, è anche la macro-area che ha conosciuto, nello stesso periodo di tempo, la crescita negativa più accentuata. Questo fatto, di per sé, giustificherebbe l'eventuale esistenza di differenziali salariali via via più consistenti tra industrie sull'intero territorio - poiché anche noi abbiamo una vita fuori da nFA ed Epistemes, e non sapevamo dove trovarli rapidamente, non abbiamo cercato questi dati salariali. Con poche eccezioni, gli andamenti della dispersione appaiono invece piatti e generalmente stabili su livelli relativamente bassi all'interno di ciascuna industria. Se sono quindi giustificabili, negli ultimi anni, evoluzioni salariali diverse a seconda dei settori (che, come visto, esibiscono già produttività a volte notevolmente differenti), all'interno dello stesso settore le differenze di produttività locali non sembrano essere mutate significativamente nel tempo e, comunque, non in maniera tale da supportare dinamiche salariali recenti profondamente dissimili tra regioni.

 

I NON FATTI, CHE ANCHE QUESTI CONTANO

Molti commentatori trattano come un dato di fatto che la quota di reddito da capitale sul reddito nazionale continui a crescere. Si dà il caso che questo fatto non esista. La quota di reddito da capitale sul valore aggiunto era pari al 28.2% nel 1981, ed era il 29.5% nel 2006. Negli anni intermedi ha oscillato, raggiungendo il massimo nel 2001 con un valore del 33.5% ed il minimo nel 1993, 27.7%. Più interessante risulta invece osservare i suoi movimenti settoriali. Nel settore agricolo la quota di capitale è cresciuta monotonicamente, dal 6% del 1981 al 34.8% del 2006. Nell'industria è andata oscillando tra il 31.9% del 1981 ed il 31.1% del 2006; è scesa nelle costruzioni dal 36.6% al 28.8%; è salita nel settore commerciale passando dal 20.4% al 28.3%. Quest'ultimo è un settore molto variegato ed il cambio è dovuto soprattutto ad alberghi e ristorazione, e trasporto e comunicazioni. È diminuita, infine, in modo drammatico nel settore finanziario ed immobiliare passando dal 46.8% al 27.4% dove il cambio è concentrato però quasi unicamente nel secondo comparto.

La disoccupazione, fondamentalmente per motivi demografici ma non solo, non è praticamente più un problema. Non lo è da due decenni e passa nel Nord del paese (4.4%), ed ora non lo è nemmeno al Centro (6.3%). Rimane un problema "statistico" al Sud, dove il tasso di occupazione è del 47% (67% al Nord) ed il tasso di disoccupazione misurato raggiunge tuttora livelli a due cifre (14%). A nostro avviso la disoccupazione del Sud consiste di occupazione mascherata nel settore sommerso o in attività illegali, altrimenti i dati dei consumi delle famiglie non risulterebbero spiegabili (e la rivolta sociale sarebbe continua e drammatica). Non è comunque questa la sede per fare tale confronto, anche se qualcuno forse dovrebbe cominciare a demolire anche il mito della "disoccupazione meridionale" oltre a quello della "povertà relativa".

Per ora basta così. La prossima puntata fra qualche giorno, dopo che, ne siamo certi, il dibattito avrà forse aggiunto ulteriori dati e corretto quelli qui presentati.

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Commenti

Ci sono 59 commenti

Curiosità: quando si analizzano i salari italiani, non si dovrebbe considerare, almeno in parte, il TFR? Questo viene fatto nelle statistiche ufficiali?

 

 

Suppongo che l'accantonamento a TFR, che fa parte del salario contrattuale lordo, sia conteggiato. Suppongo, perché con l'ISTAT non si sa mai ed il loro sito è una cosa semi-inutilizzabile.

 

Da questi dati non sembra che ci sia molto da essere ottimisti. Vorrei pero' chiedere una cosa: in Italia il sommerso (il "nero") e' una fetta non trascurabile dell'economia. COme viene preso in considerazione nei dati e nelle statistiche che hai utilizzato? E' possibile che una diminuzione del sommerso abbia influenzato pesantemente i dati ufficiali o non c'e' stata questa diminuzione? Grazie.

 

 

 

Altra domanda da Euro 1M. L'ISTAT non lo rivela, quindi i dettagli non si sanno. Affermano di stimare il sommerso utilizzando vari criteri, e molti ricercatori italiani hanno anche contribuito all'argomento. Ma io non so come lo facciano e quando ho chiesto agli esperti ho sempre ricevuto risposte vaghe.


Ad ogni modo, il sommerso NON dovrebbe avere alcun effetto su questi dati. L'attributo "sommerso" si riferisce ad attività economiche che non si rivelano, totalmente o parzialmente, all'autorità fiscale. I dati campionari su cui queste statistiche si basano non hanno relazione con quanto riportato dai contribuenti al Ministero delle Finanze; essi dovrebbero misurare sia l'attività economica ufficiale che quella sommersa utilizzando campioni adeguati. Ripeto, dovrebbero.

 

Quello di Gilberto Bonaga mi sembra un buon punto per determinare la produttività.

In pratica sono circa dieci anni che tra regolarizzazioni e "decreti flussi" (che nell'80/90% altro non sono che regolarizzazioni mascherate) assistiamo ad immissione nel mercato del lavoro ufficiale di soggetti che di fatto erano e sono già inseriti nel processo produttivo, gente che lavora tra fabbriche, cantieri alberghi e campi.

Negli ultimi anni si tratta di immissioni medie di extracomunitari di circa 200.000 lavoratori, un fenomeno, tra l'altro, ignoto all'Italia pre anni '90.

Sarebbe interessante sapere se le statistiche tenevano e tengono conto di queste presenze nascoste, ma produttive, o se invece considerano solo gli occupati uffciali, sovrastimandone così l'efficienza o, il che è lo stesso, deprimendo i dati post-regolarizzazione.

 

 

Come menzionato sopra, il sommerso dovrebbe essere "stimato" dall'ISTAT. Quindi, in teoria, l'emersione fiscale/legale di lavoratori irregolari non dovrebbe fare differenza. Ben altra cosa è l'arrivo effettivo di immigranti, e la loro occupazione in vari comparti dell'economia italiana. Nella misura in cui i lavoratori che arrivano sono meno qualificati e vengono, quindi, occupati in lavori a bassa qualificazione e produttività, l'effetto dovrebbe esserci.

Detto questo, fa impressione vedere che l'effetto (se solo di questo si tratta) sia così forte. L'economia USA accoglie immigrati a bassa qualificazione da decenni, ma il loro effetto sulla produttività media non è così forte. 

Ultima considerazione, la più importante di tutte: la qualità del lavoro che emigra verso l'Italia non è esogena, ma dipende dal tipo di domanda di lavoro che le imprese e l'economia italiana generano. Come tutti sanno, migliaia di brillanti MBAs e cose simili europei emigrano verso Londra, perché a Londra vi sono aziende che li cercano. Lo stesso vale per gli ingegneri elettronici ed informatici che emigrano verso il nord della California o l'Irlanda. O per le ragazze ed i ragazzi di belle speranze ed aitanti fisici, che emigrano verso l'area di Los Angeles. Se verso l'Italia arrivano solo "vù comprà", fanciulle peripatetiche e raccoglitori di pomodori, forse qualche ragione c'è. Sospetto sia la stessa per cui i due autori di questo posto sono, invece, e-migrati dall'Italia a vent'anni di distanza uno dall'altro ... Gli effetti si vedono ora, ma le cause son vecchie, non son di ieri.

 

I salari sono bassi ma tutti fanno la fila per il posto fisso. Un mistero del mercato del lavoro in Italia.

In realta` per ore lavorate, in particolare nella pubblica amministrazione, la paga non e` affatto male.

30 giorni di ferie, 30 di malattia, 11 giorni di feste comandate, 6-24 mesi di maternita`, disability facile facile, pensione molto presto.

Il calcolo dello stipendio dovrebbe comprendere tutto questo. Quando lavoravo a giornata in una clinica privata a Roma, da medico, calcolai che dovevo lavorare per 17 mesi per essere equiparato agli infermieri con il contratto a tempo indeterminato (36 giorni di vacanza, 1 mese di malattia - sempre malati per esattamente un mese - la tredicesima, il TFR, contributi del 14.5% all'Ordine dei Medici)

Comunque, continuo a dire che se gli stipendi fossero cosi` tragici la gente farebbe altre cose. Ma e` meglio avere 1300 euro al mese a vita senza lavorare molto, magari arrotondando in nero o con regalini, che lavorare davvero.

Secondo me l'abbassamento dei salari e` solo parte di un adjustment verso un costo del lavoro piu` bilanciato rispetto al lavoro autonomo. Ovvero, i dipendenti prendevano troppo in passato.

 

 

Guarda che produttività bassa, su base mensile o per occupato, dipende anche dai fattori che menzioni. I quali riducono la produttività, per occupato ed il costo del lavoro per unità di prodotto. Questo è certamente corretto. 

Ma i dati che noi riportiamo sono, in teoria, per ora lavorata. Il che vuol dire che anche durante le ore lavorate i lavoratori italiani sembrano essere poco produttivi o, per lo meno, la loro produttività oraria non sembra crescere. Nota che qui stiamo includendo sia dipendenti che autonomi, perché a questo livello l'ISTAT non ci dà la disaggregazione necessaria. Quindi, per quanto vedo dai dati, sono egualmente poco produttivi e poco dinamici sia gli autonomi che i dipendenti. Molti dei settori dove la produttività ristagna hanno una forte presenza di piccole imprese e lavoratori autonomia, pensa all'agricoltura, o ad alberghi e ristoranti (VA per ora lavorata: 100 nel 2000, 80 nel 2004). È l'intero sistema che usa metodi produttivi ed un'organizzazione del lavoro di bassa qualità. 

Se considero ciò che vedo quando vengo in Italia, questa implicazione dei dati mi pare ragionevole: i piccoli negozi chiudono quando vogliono, sono gestiti inefficientemente, tendono a vendere cosaccie ed i prodotti nuovi si fa fatica a trovarli. Idem per molti studi professionistici (già vedo l'insurrezione delle categorie che sto implicitamente "offendendo" ...) che sembrano funzionare con metodi e criteri del 1950 ...

Insomma, mentre condivido che, specialmente nel settore pubblico, la produttività per dipendente sia ben bassa a causa del far nulla, il problema non è solo quello. Però è anche quello, non v'è dubbio.  

 

Di certo la produttività oraria di Michele e Pierangelo con questo corposo Ex Kathedra negli ultimi due giorni è cresciuta. Bella la trovata dei due livelli di analisi: per pigri e per secchioni.

Riguardo a quanto scritto da Gilberto e Sabino ricordo che quando venne pubblicata l'indagine delle forze di lavoro dell'Istat riferita al secondo trimestre del 2005 emerse un fenomeno in apparenza paradossale. Rispetto al secondo semestre del 2004 il mercato del lavoro creò 213 mila occupati pari ad un tasso annuo dell'1%. Nello stesso periodo il Pil crebbe del solo 0.1%. Il paradosso sta nel fatto che si è avuta più occupazione e meno Pil. Per l'ISTAT questo fenomeno è dipeso dall'incremento dei cittadini stranieri registrati in anagrafe. In buona sostanza per l'Istituto di Statistica la crescita dell'occupazione senza la crescita del Pil è collegata ad un effetto statistico legato ai lavoratori immigrati presenti in Italia.

Il paradosso deriva dal fatto che il prodotto dei lavoratori immigrati era già nelle statistiche del Pil, mentre la loro presenza non era catturata dalle inchieste della forza lavoro che tengono conto solo della popolazione anagrafica. E' solo nel momento in cui i nuovi immigrati entrano a far parte dell'anagrafe che il loro peso viene rilevato.

 

 

Carissimi, pensate sarebbe possibile istituire un glossario alla buona contenente i termini piu' usati? Magari una roba a basso mantemimento, work in progress, cosi' che ogni volta che salta un termine nuovo ci aggiungete due righe. So che e' una palla in principio ma secondo me vi ripaga nel lungo termine. Ora vado a googolare cos'e' il valore aggiunto per ora lavorata poi torno.

 

I fatti descritti dagli autori sono molto interessanti. a supporto delle argomentazioni fornite vi segnalo un approfondimento di Marino e Torrini (Ristagno dei salari in Italia: fisco,

distribuzioneo produttività?) che

giunge sostanzialmente a conclusioni simili (lo troverete qui , dico lo troverete perche' e' apparso sulla rivista AREL di gennaio, ma i numeri vengono messi on line con un lag di alcuni mesi) .

Per riassumere brevemente cosa trovano: mentre negli anni Ottanta la dinamica delle

retribuzioni è stata sostenuta da una rapida crescita della produttività, negli anni Novanta le retribuzioni sono aumentate in maniera molto

modesta sia per la minor crescita della produttività del lavoro, sia per

effetto di una redistribuzione in favore di redditi da capitale e impresa.

Negli anni 2000, invece, la lenta crescita delle retribuzioni è totalmente da

attribuire all'arresto della dinamica della produttività.

 

 

Anche se il problema dei salari non deriva unicamente dall'eccesso di pressione fiscale, tale eccesso è sicuramente parte del problema. Volevo segnalare un intervento di Tito Boeri e Luigi Guiso sul sito de iMille.  Tito e Luigi cercano di introdurre un minimo di razionalità nel dibattito pre-elettorale, ed è facile prevedere che nessuno li starà a sentire.  In sostanza chiedono che invece delle solite promesse si offra un programma di stabilizzazione in termini reali (NON come percentuale del PIL) della spesa pubblica, accompagnata da restituzione in termini di minore imposte dei risparmi di spesa.

Sul sito de iMille ho aggiunto il seguente commento.

L'articolo è interamente condivisibile, ma a mio avviso è opportuno aggiungere una chiarificazione e un'aggiunta.

La chiarificazione riguarda le implicazioni politiche di una politica di stabilizzazione della spesa pubblica in termini reali. Come ricordano giustamente Tito e Luigi, una grossa parte della spesa pubblica è data dai salari dei dipendenti pubblici. Stabilizzarla significa quindi o bloccare la crescita dei salari reali dei dipendenti pubblici o ridurre il personale pubblico a fronte di aumenti dei salari reali. L'implicazione politica è quindi che ci sarà una feroce opposizione da parte dei sindacati, in particolare quelli del settore pubblico.


L'aggiunta che a mio avviso andrebbe fatta è che il settore pubblico italiano è ancora troppo grande, con tante imprese che non svolgono alcuna funzione se non fornire alla casta politica l'occasione per ottenere rendite indebite (si pensi alla Rai). Una seria politica di privatizzazione, oltre a eliminare tali rendite indebite e quindi soddisfare elementari criteri di giustizia, può aiutare a ridurre il debito e quindi la spesa per interessi, che è tuttora enorme. Se tali risparmi per interessi vengono restituiti ai contribuenti, si rafforza l'interesse dell'elettorato a sostenere il programma di stabilizzazione proposto da Luigi e Tito.

 

Mi son letto l'articolo, ed il tuo commento mi sembra altamente condivisibile. La tua speranza che predicare bene a quelli del PD serva a qualcosa la condivido meno, ma l'eterogeneità delle speranze e dei desideri è il sale della vita, quindi ben venga. Per garantire sanità mentale è sufficiente omogeneità nel funzionamento della corteccia frontale, dove mi sembra che andiamo bene.

Osservazioni sparse sull'articolo di Luigi e Tito (tralasciando il non irrilevante, per un cultore di "film de cauboi", fatto che quel criminale di Custer era tenente colonnello quando fu giustamente fatto fuori). Vi ho trovato varie affermazioni che, in principio, condivido. Per esempio

 

Proprio per questo non si possono risolvere i problemi del nostro paese

solo con una redistribuzione delle risorse oggi esistenti.

 

Oppure, sulla stessa linea:

 

L’unica via d’uscita ai problemi del paese e al malessere degli

italiani è che l’Italia riprenda a crescere a tassi sostenuti, facendo

cosi aumentare sia occupazione che salari.

 

Suonano, pur nella loro gentilezza, come "nFA statements d'annata" ed ovviamente vanno condivisi. Però, io credo, occorre essere conseguenti, e fare due conti in maniera esplicita, senza far finta che la soluzione possa essere indolore. Perché non lo è, piaccia o non piaccia al PD, al PdL o anche ai tifosi dell'Inter. Anzitutto, se si vuole evitare di essere elettoralisti, occorre evitarlo per davvero. Affermazioni del tipo

 

... azione di risanamento dei conti pubblici avviata dal governo Prodi e in

buona parte ignorando le compatibilità di bilancio e l’evidente

rallentamento della nostra economia. C’è un modo di evitare di buttare

via i risultati ottenuti negli ultimi due anni nel migliorare i conti

pubblici e anzi consolidare definitivamente la politica di risanamento ...

 

da parte di chi ha meritatamente documentato che Prodi spendeva con una mano più di quello che con l'altra estraeva, a suon di tasse, dalle tasche degli italiani, io le eviterei. Foss'anche sul sito dei giovani pidiani. Prodi, TPS e VV non hanno risanato nulla, e quando arriviamo a dicembre di quest'anno sarà palese anche a chi ora non vuol vederlo.

Ma non è solo questo. Come ho dimostrato altrove affermazioni del tipo

 

In un’economia oberata dal debito pubblico, il peso della tassazione (e

delle contribuzioni) lascia poche risorse disponibili ai consumatori

limitandone la capacita di spesa.

 

sono rischiose, se non inappropriate. Ovviamente non per la seconda parte (tassazione e contribuzioni) ma per l'implicazione logica della prima affermazione, ossia che tutto venga dal terribile debito il cui alto servizio giustifica la tassazione. Il servizio del debito costa, al più, il 5% del PIL. Tanti soldi? Certamente, ma visto che lo stato italiano estrae dalle tasse degli italiani circa il 43% del PIL, occorre saper porre le cose in proporzione. E le cose in proporzione implicano che il problema vero non è il 5% del PIL che va in debito pubblico, ma, per dirne una, il 15% che va in pensioni. Smettiamola dunque di parlare del debito, parliamo di pensioni da tagliare invece! E smettiamola anche di suggerire, altra interpretazione della frase citata sopra, che SE non ci fosse il debito, allora potremmo tassare di meno e spendere lo stesso perché potremmo fare debito aggiuntivo ... ragionamento molto pernicioso. Sì, lo so che non è questo che è scritto nell'articolo, ma diciamo così che io, con la malizia che mi caratterizza, lo inferisco. Mi sbaglio? Magari; ma se mi sbaglio perché tirar fuori il debito invece che dire semplicemente che le tasse son troppo alte e vanno tagliate? Meglio tardi che mai, no?

Ma veniamo alla parte centrale dell'argomento (che non riassumo, se il dibattito vi interessa, leggetevi l'articolo di Luigi e Tito). Domanda da mille miliardi di cicciole:

Che riduzione del carico fiscale possiamo aspettarci se riduciamo le tasse di tanto quanto aumenta il PIL reale?

Risposta: pochissimo, quasi nulla. Quest'anno, per esempio, di qualcosa tipo lo 0.7%, e l'anno prossimo, accetto scommesse, ancora meno. Nei loro calcoli L&T alludono ad un 2% (5% crescita nominale del PIL, 3% crescita dei prezzi ...) ma sono fantasie. Con QUESTA struttura della spesa, con QUESTO sistema dei servizi pubblici, con QUESTA struttura della tassazione, la crescita reale al 2% annuo, scordarsi il 3% o 4%, arriva per caso o per miracolo - come nel 2006, e tutti i politici a dire che era merito loro e non della virgen del pilar! Questo è il problema che L&T allegramente bypassano.

Cio' che solleva il cuote e' il loro riferimento all'Irlanda: stupendo. Facciamo come in Irlanda? Ditemi dove firmare. Perché l'Irlanda, nel 1986-87, ha dato una svolta brutale, veramente brutale. Tanto per evitare le mie volgari e popolane espressioni, cito da Wikipedia

 

The problems were eventually dealt with starting in 1987 under a

minority Fianna Fáil government but with help from the opposition led

by Alan Dukes of Fine Gael under what was known as the "Tallaght Strategy",

with economic reform, tax cuts, welfare reform, more competition and a

reduction in borrowing to fund current spending. This policy was

largely continued by succeeding governments. Considerable support from

the European Union was the only positive aspect. [...] In the 1990s, the Republic's economy began the 'Celtic Tiger' phase. High FDI rate, a low corporate tax rate, better economic management and a new 'social partnership' approach to industrial relations together transformed the Irish economy

 

Allora, qual'è il problema? Il problema, per me, è la reticenza di L&T, e di molti altri colleghi a dire il vero, nel chiamare con il proprio nome la questione di fondo, reticenza che il tuo commento e gli esempi che fai mettono in luce.

La questione di fondo è semplice: l'Italia non può permettersi di mantenere la spesa pubblica costante in termini reali, deve TAGLIARLA! Esattamente come fecero gli irlandesi. L'Italia non può permettersi di mantenere la tassazione sul reddito ai livelli attuali, deve TAGLIARLA! Esattamente come fecero gli irlandesi. L'Italia non può permettersi piani di redistribuzione da questo a quello, potere sindacale, trasferimenti continui al Sud, una macchina pubblica infernale ed una casta che vive in maniera indecente, deve TAGLIARLI! Esattamente come fecero gli irlandesi ... che da morti di fame son diventati ricchi da far invidia persino agli amerikani. Ah, le virtù del liberismo selvaggio!

Mi rendo conto che lodare tali virtù sul sito dei politicivuldbi del PD-che-sarà sia rischiosetto. Molto rischiosetto, perché i vari sindacalizzati d'ogni risma che votano PD, i maestri ed i dipendenti pubblici che votano PD, i pensionati sussidiati che votano PD, i cari abitanti del Sud che sono pure sussidiati e votano PD, tutti questi ed altri ancora, a sentire che sono loro e non necessariamente il signor BS la causa del declino italiano, potrebberro prendersela e smettere di votare PD ... il che ovviamente farebbe danno alla dirigenza del PD.

Nondimeno, se vogliamo parlare seriamente di cosa serve all'Italia per uscire dal buco in cui s'è infilata a testa in giù, quanto ironicamente tratteggiato nel paragrafo anteriore andrebbe fatto seriamente. Se invece vogliamo continuare a "fare politica", che qualcun'altro la faccia pure. 

 

 

Segnalo un'articolo collegato ( o forse una diversa versione dello stesso articolo?) è stata pubblicata su La Voce

 

Ci sono dati sulla produttivita' del lavoro per categoria di skill (piu' facile: per education level)? sarebbe interessante vedere le differenze tra Italia e altri paesi da questo punto di vista. In particolare mi chiedo se i nostri lavoratori con high education sono piu' o meno produttivi di quelli tedeschi o inglesi o americani. 

In realta' non vedo come misurarli, ma forse qualcuno ci ha pensato e lo ha fatto...

 

 

Che io sappia, non nel database Istat, Antonio. Ma spero che qualcuno mi smentisca. Pensa che e` stato difficile anche reperire su Istat la documentazione relativa ai loro dati utilizzati in questo articolo.

 

 

Sono quasi certo di no. Da anni faccio la stessa domanda a chi si occupa di micro dati in Italia e mi guardano come fossi un marziano. Altro sintomo dell'arretratezza, o della bassa produttivita' se vuoi.

L'ISTAT produce, invece, bollettini di salari contrattuali e di fatto. Quasi tutto quanto io conosco si trova qua. Desolante, ma istruttivo allo stesso tempo.

In Italia vi e' inoltre un ulteriore ostacolo, ossia il fatto che l'esistenza di un valore legale del titolo di studio viene utilizzato in sede contrattuale per definire qualifiche e livelli retributivi. Per cui i laureati devono prendere questo e quest'altro. Ai vecchi tempi, ma sospetto succeda ancora, uno che magari aveva la terza media, faceva le scuole serali, prendeva il diploma e poi chiedeva all'azienda il passaggio di qualifica sulla base di norme contrattuali, anche se la sua mansione rimaneve invariata. Idem da diploma di superiore a laurea. Potrei raccontare qualche divertente nanetto personale, ma sara' per un'altra volta. Credo tali rigidita' indotte dai sindacati e dalla contrattazione nazionale esistano ancora e spiegano probabilmente la reticenza delle imprese ad assumere laureati in se e per se. 

 

Io credevo ci fossero! Comunque, fatto salvo quello che dice Michele sulla determinazione extra-mercato dei salari in Italia, avrei una proposta (coraggiosa). Se si disponesse del numero di lavoratori distinti per educational achievement - e siamo ben disposti verso la semi-eroica ipotesi di perfetta sostituibilita' tra skills quando e' misurata con gli anni di istruzione - potremmo calcolare il valore aggiunto per anno di istruzione (invece che per addetto), e poi stimare il valore aggiunto per classi di istruzione di conseguenza.

I dati sul numero di lavoratori distinti per educational achievement, credo anche distinti per settori, dovrebbero essere su eurostat. Quelli sul valore aggiunto anche.  Molto crudo, ma magari dice qualcosa (in piu' di niente).

 

 

 

Un quadro aggregato desolante, dunque, a fronte del quale pare

opportuno chiedersi se esiste almeno qualche settore o comparto

dell'economia italiana che faccia eccezione. Ossia, se esistono

industrie nelle quali la produttività continui a crescere in modo

sostanziale. I valori disaggregati per comparti più piccoli di quelli

citati si fermano - purtroppo: grazie ISTAT - al 2004.

In quell'anno solo il comparto della produzione e distribuzione

dell'energia elettrica, acqua e gas sembra avere performances decenti:

+22% rispetto al 2000.

 

Mi sa che nei settori di energia acqua e gas l'aumento del valore aggiunto l'abbiano pagato i consumatori con gli aumenti delle tariffe.

 

 

Non improbabile, visto che in tutti quei settori i prezzi sono regolati dalla pubblica autorita'. Facciamo la verifica. Ecco (dal 1998 in poi) gli anni in cui, secondo l'ISTAT, il VA per ora lavorata e' aumentato, in quei settori, di piu' del 1%: 

1999: +12%

2001: +7.6%

2003: +8.3%

2004: +5% 

Se ti ricordi quando hanno aggiustato le tariffe, facciamo il confronto.

Vale la pena notare, comunque, che in questo settore deve esserci stata una trasformazione tecnologica veramente sostanziale. Nel 1981 la remunerazione del fattore lavoro era l'85% del VA, mentre nel 2000 era il 30.2% e nel 2004 (ultimo dato disponibile) il 26%.  

 

Le previsioni della UE, riportate qui su Repubblica, danno un tasso di crescita del PIL italiano previsto per il 2008 intorno allo 0.7 per cento. Le previsioni per la Germania sono del 1.6%, per l'Olanda 2.9%, per la Polonia 5.3%.

Calma piatta, insomma. 

 

 

I differenziali di produttività del

lavoro tra industrie, già elevati, sono generalmente e ulteriormente cresciuti

in Italia dal 2000 al 2005. Il trend nazionale è riscontrabile (prima tabella)

in ciascuna zona geografica [...] Questo fatto, di per sé,

giustificherebbe l'eventuale esistenza di differenziali salariali via via più

consistenti tra industrie sull'intero territorio.

 

Ho cercato sul sito dell'Istat, e ho trovato dati relativi alle remunerazioni in diversi tra i settori che analizzate (per la precisione, si tratta di 1-estrazioni di minerali,2-attività manifatturiere, 3-produzione e distribuzione di energia elettrica gas e acqua, 4-costruzioni, 5-commercio all'ingrosso ed al dettaglio, 6-turismo alberghi e ristoranti, 7-trasporti magazzinaggio e comunicazioni, 8-intermediazione monetaria e finanziaria, 9-attività immobiliari noleggio informatica ricerca altre attività professionali ed imprenditoriali). Credo per la verita' ci fossero anche a livello piu' disaggregato, ma quello che trovo conferma quanto congetturate, sull'esistenza di differenziali salariali crescenti che accompagnano differenziali di produttività del

lavoro crescenti tra industrie.

dispersione

La linea blu rappresenta la deviazione standard delle retribuzioni lorde per ULA (unita' di lavoro equivalenti a tempo pieno) per operai, impiegati ed apprendisti nei settori elencati sopra. Questa misura di variabilita' parte da zero nel 2000 perche' i dati sono numeri indici con base 2000 (cioe' le retribuzioni di ciascun settore sono poste uguali a 100 nel 2000). Le retribuzioni lorde comprendono, se non ho capito male dal sito, "tutti gli emolumenti sia regolari sia una tantum ricevuti dal lavoratore, inclusi i contributi sociali a carico del lavoratore e le imposte (le retribuzioni in natura sono escluse)".

Per capire se questa tendenza all'incremento nella dispersione viene anche dai contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL), ho rifatto lo stesso calcolo di sopra (stessa base, anno 2000, stessi settori) usando le retribuzioni orarie contrattuali (linea rossa), che invece "comprendono: (1) la paga base; (2) tutte le indennità specificate negli accordi nazionali e retribuibili a tutti i lavoratori; (3) le mensilità aggiuntive e altre erogazioni regolarmente corrisposte in specifici periodi dell’anno come la “tredicesima”. Sono invece esclusi: (a) premi relativi alle prestazioni individuali; (b) premi relativi alle condizioni individuali di lavoro; (c) retribuzioni supplementari concesse dall’azienda (sancite dalla contrattazione decentrata) e (d) importi corrisposti a titolo di arretrati e una tantum. "

 

 

Grazie. In effetti questo grafico sembra davvero confermare la nostra ipotesi. Hai trovato, per caso, anche i dati salariali suddivisi per regione? Sarebbe interessante poter verificare se la dispersione delle retribuzioni o dei salari tra regioni e` aumentata oppure no. La nostra tabella (l'ultima) ed il grafico ad istogrammi sulla produttivita` per macroaree suggerirebbero (grosso modo) di no, ma se potessimo stabilirlo direttamente sarebbe molto meglio.

 

 

La disoccupazione, fondamentalmente per motivi

demografici ma non solo, non è praticamente più un problema. Non lo è da due

decenni e passa nel Nord del paese (4.4%), ed ora non lo è nemmeno al Centro

(6.3%). Rimane un problema "statistico" al Sud, dove il tasso di occupazione è

del 47% (67% al Nord) ed il tasso di disoccupazione misurato raggiunge tuttora

livelli a due cifre (14%).

 

Da dove vengono questi dati? Come è misurato il tasso di

occupazione/disoccupazione in Italia? In altre parole: cosa

rappresentano questi numeri?

 

Veramente interessante questa analisi che avete fatto (e un lavorone). Da cui emerge chiaramente che il dramma dell'Italia e' l' improduttivita' del lavoro (e dei fattori produttivi in genere). La abbiamo messa anche su iMille. Sono ansioso di vedere l'analisi del settore pubblico...

 

Pierangelo, i dati sulle remunerazioni settoriali disaggregati per regione purtroppo non li ho trovati. L'alternativa migliore mi e' parsa usare i dati dei "conti economici delle imprese" che l'istat ha sul suo sito per gli anni 1998-2003 (soltanto!). In questi documenti, si trovano per ogni regione e settore i dati, fra l'altro, del costo del personale e numero degli addetti, e si puo' quindi calcolare il costo per addetto, che e' quanto di piu' vicino ho trovato alla remunerazione. Differenze a livello regionale nei profili temporali di voci come oneri previdenziali e sociali a carico dell'impresa (se ve ne sono), possono rendere inadatta questa misura ai nostri fini.

Comunque, questo e' cio' che si trova per alcuni settori.

dispersione_interregionale_salari

Direi che per quanto approssimativi questi dati confermano quello che riportate nell'ultima tabella: non mi sembra ci siano delle regolarita' evidenti nel modo in cui la variabilita' cambia lungo il tempo all'interno di diversi settori.

(ps.: scusa, non volendo ho risposto qua sotto!) 

 

 

 

 

Grazie di nuovo, Ferdinando. Anche questa tavola e` molto interessante e, come fai notare, sembra dare supporto a quanto affermato nel post. Soprattutto, e` compatibile con le dinamiche della produttivita` regionale emarginate prima.

 

In questi giorni si è parlato molto dell'inflazione, anche per l'annunio del nuovo indice istat, che include nel paniere solo i beni con alta frequenza di acquisto. Su come fronteggiare il problema dell'inflazione vi segnalo un'interessante intervista a Repubblica del probabile futuro ministro dell'Economia (il link non lo trovo). Parto dal sottotitolo: Per fermare i prezzi stop alla globalizzazione. Poi la frase chiave. Ecco la risposta alla domanda: Che propone di fare? "Per cominciare bisogna dire cosa non bisogna fare. Non entrare in questo scenario con il pensiero debole, con il populismo leggero, con il relativismo, con il sincretismo, con il veltronismo. Nei dodici punti di Veltroni c'è tutto tranne l'essenziale [.....] Non trova le tre parole che invece marcheranno i prossimi anni: crisi, solidarietà pubblica, Stato. Ricorda quando parlavo di colbertismo? Le annuncio il clamoroso necessario ritorno del pubblico! Veltroni pensa a "chiamare il mercato" per risolvere i problemi sociali. Io penso che, in tempi di ferro, questo lo debba e lo possa fare molto di più lo Stato". E poco dopo: "La nostra bozza di programma incorpora il tempo duro che c'è e che arriva. Comincia dall'Europa, dalla protezione delle nostre industrie e dei nostri capannoni, del nostro lavoro."

Insomma, la ricetta economica del centro destra sembra essere: spesa pubblica (ieri rilancio del ponte sullo Stretto) e protezionismo (oggi sul Sole annuncio di dazi sulle importazioni dalla Cina).

 

 

C'è qualcosa sul di lui sito, non so se sia il testo integrale:

http://www.giuliotremonti.it/interviste/visualizza.asp?id=181

 

EDIT: sembra quasi che abbia ascoltato Feltri:

http://www.difesa.it/Sala+Stampa/Rassegna+stampa+On-Line/PdfNavigator.htm?DateFrom=24-02-2008&pdfIndex=7

(file pdf da scaricare)

 

 

bene, pare che anche in queste elezioni si sfideranno due coalizioni socialdemocratiche.

 

Dall'articolo linkato: 

 

Se

il petrolio che c´è nel mondo, se gli animali da carne che ci sono nel

mondo, se il grano che c´è nel mondo restano uguali ma la domanda

cresce violentemente, i prezzi esplodono.

 

Il solito modello superfisso...

 

E vi stupite? I miei articoli sul commercialista con i calzini a pois ed il suo datore di lavoro, l'uomo BS, non li avete mai letti? Cosa ci sarebbe di nuovo? Esprime sempre piu' liberamente la sua ideologia e la sua "cultura", economica e non ... Ora poi, con i camerati social-corporativi a bordo, altro che Colbert: Giuseppe Bottai diventera' il modello ideale.

 

 

Dani Rodrik in un ambizioso articolo sulla globalizzazione finanziaria:

http://www.ft.com/cms/s/0/bee0b4b2-e3a5-11dc-8799-0000779fd2ac.html

 

Ambizioso? semmai ridicolo...

 

  http://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna¤tArticle=HA3KU

La produttività secondo Gallino spiegata con la parabola dei due lavoratori, con critica finale al modello amerikano, ovvero, il modello superfisso colpisce ancora. Mi chiedo che cosa impedisca a Carlo di licenziarsi e di andare a lavorare nell'impresa dove lavora Luigi.

 

 

"Interessanti" i toni di questo articolo su Repubblica:

 Link

che sembrano contraddire il primo paragrafo dei "Non Fatti" di questo post.

Da fonti ISTAT (le stesse utilizzate qui), risulta che:

                                                                              Remunerazione del Fattore Capitale in Italia (Dati Aggregati):

28.81981
28.31982
28.21983
28.81984
29.91985
30.81986
31.71987
31.91988
31.71989
30.61990
29.21991
28.01992
27.71993
29.31994
31.31995
32.51996
32.51997
32.21998
32.01999
32.62000
33.52001
33.12002
32.02003
31.72004
31.02005
29.52006

La situazione e` cosi` drammatica?

 

 

Pierangelo, grazie per aver messo in evidenza questo articolo. Ho cercato il sito della BIS ed ho finalmente trovato il lavoro in questione. Ora provo a leggerlo con attenzione, per capire bene in che senso i loro dati contraddicono quelli che noi avevamo ricavato dall'ISTAT (magari gli si scrive). 

Tre osservazioni posso, però, immediatamente fare.

- La crescita che riportano NON è generalizzata, anche se sembra avvenire in un numero grande di paesi.

- La frazione di PIL che va a reddito di capitale cresce nei loro dati dalla metà degli anni '80, però questo avviene dopo circa altri 20 anni di decremento. Insomma, i valori attuali sono molto prossimi a quelli della prima metà degli anni '60, secondo le figure che riportano nel paper.

- Gli autori sottolineano una forte correlazione (a cui loro attribuiscono un'interpretazione causale, ma non lanciamoci troppo) fra regolazione del mercato del lavoro e dei mercati dei prodotti e quota di reddito che va al capitale. Ossia: più alte sono le restrizioni/regolazioni/protezioni più alta è la quota di PIL che va al capitale. Insistono sul fatto che siano i poteri di monopolio così creati e la scarsa concorrenza che fa crescere il tasso di rendimento del capitale. 

Questi aspetti cruciali il nostro buon giornalista-poco-professionista (ma senza dubbio iscritto all'ordine) li omette allegramente! 

Infine, il giornalista menziona Blanchard, e credo abbia in mente questo lavoro, che è vecchio di più di 11 anni (nel senso che i dati ivi contenuti lo sono).  

 

Dai che a 4 anni e mezzo da questo post anche il corriere parla dell'argomento.... Qualcosa sta cambiando...

 

http://www.corriere.it/economia/12_settembre_17/produttivita-salari-imprese-marro_119056d8-0087-11e2-821a-b818e71d5e27.shtml