Riforma delle banche popolari: cosa c’è di sbagliato.

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Mi dichiaro subito e senza scrupoli: l’unico vero difetto del provvedimento del Governo è il non sottoporre tutte le popolari, indiscriminatamente, all’obbligo di trasformazione in S.p.A. indipendentemente dalle dimensioni dell’attivo. Il mio punto di vista si basa su una circostanza assai banale e sotto gli occhi di tutti: le banche popolari, così come ce le raccontano, semplicemente, non esistono.

Il 24 gennaio di quest’anno il Governo Renzi ha approvato il c.d. “Investment Compact”, decreto legge-mosaico contenente una moltitudine di norme sul sistema finanziario.

Le disposizioni di maggior importanza riguardano le banche popolari le quali, se detentrici di un attivo consolidato (vale a dire calcolato a livello di gruppo) superiore a 8 miliardi di Euro dovranno, tempo un anno, scegliere tra:

1)      Ridurre l’attivo entro il limite degli 8 miliardi;

2)      trasformarsi in società per azioni “ordinarie”, abbandonando il voto capitario;

3)      andare in liquidazione.

Nel caso in cui l’assemblea dei soci rimanga inerte non conformandosi alla legge, la Banca d’Italia si attiverà per ottenere la revoca della licenza bancaria.  

Mi dichiaro subito e senza scrupoli: l’unico vero difetto del provvedimento del Governo è il non sottoporre tutte le popolari all’obbligo di trasformazione in S.p.A., indipendentemente dalle dimensioni dell’attivo.

Il mio punto di vista si basa su una circostanza assai banale e sotto gli occhi di tutti: le banche popolari, semplicemente, non esistono. O meglio, non esiste nell’intero Paese un solo caso di banca popolare rilevante la cui operatività sia in qualche modo distinguibile da quella di una qualsiasi banca commerciale costituita nella forma di società per azioni. Identici i prodotti, identici i mercati, identici i clienti, identici i rischi. E, dunque, non vi è alcun motivo ragionevole per consegnare la governance di una buona fetta del mercato creditizio ai cacicchi sindacali, politici, associativi che albergano pressoché incontrastati in tutte le assemblee “popolari”.

Fatta la debita premessa, vediamo di ricostruire un po’ la storia di quest’animale mitologico, idealmente socialista e praticamente capitalista.

La banca popolare affonda le proprie radici nella tradizione cooperativistica di matrice anglosassone (consiglio ai curiosi la lettura del magnifico testo di Aristide Rava sulle cooperative in Emilia, la cui introduzione è sufficiente per comprendere la distanza siderale tra il concetto di cooperazione ai suoi albori e il tristo fenomeno con cui abbiamo a che fare oggi) e nell’intuizione pre-marxista che la condivisione della proprietà dell’impresa tra gli operai potesse essere un viatico per il miglioramento delle condizioni di lavoro. In Italia il modello si sviluppa in maniera inattesa - e in misura rilevantissima - anche al di fuori dell’ambiente d’origine: alle cooperative socialiste si contrappone l’associazionismo cattolico, che individua nel modello mutualistico l’antidoto alla “deriva rossa” e ne fa cavallo di battaglia proprio nel settore del credito.

Sin dall’inizio le forme sono più o meno le stesse in tutto il Paese: associazioni di agricoltori, artigiani e notabilato, ispirati dall’attivismo di Luigi Luzzatti, promuovono la costituzione di cooperative per l’erogazione del credito agli stessi soci. La particolare forma di governance basata sul voto capitario è la naturale conseguenza di quel modello nonché, sin dal primo vagito, lo strumento per mantenere il controllo degli istituti nelle mani dei promotori. Quest’ultimo aspetto è di fondamentale importanza: se da un lato il principio “one head-one vote” ha un sapore evidentemente democratico, la storia dei vertici delle banche cooperative è costellata da vere e proprie dinastie che si perpetuano per decenni  grazie dell’emersione di “personalità” capaci di gestire il consenso.

Lo sviluppo del sistema creditizio italiano determina in seguito una duplicità di modelli: alle banche popolari propriamente dette si affiancano le casse rurali ed artigiane. Mentre queste ultime rimangono fedeli alle radici mutualistiche e si mantengono legate a un territorio che spesso (sul modello delle “Reiffeisen” tedesche) non supera il comune o la provincia, le prime si espandono rapidamente e somigliano sempre di più alle banche ordinarie. Con il d.lgs. 385/1993 (anche noto come Testo Unico Bancario) il fenomeno è consacrato dalla legge e mentre alle Banche di Credito Cooperativo (nuova etichetta delle vecchie casse rurali) è fatto divieto di operare al di fuori della propria “zona di competenza” ed è fatto obbligo di mantenere un’ “operatività prevalente” nei confronti dei soci, alle banche popolari è consentita la più ampia libertà. Nel giro di qualche anno, la totalità delle popolari acquisisce partecipazioni all’estero, si costituisce nella forma di “gruppo bancario”, include tra le società controllate almeno una società prodotto (factoring, leasing, assicurative, on line, banche private o reti di promotori, Sgr) investe il proprio portafoglio negli strumenti finanziari più sofisticati. A fine 2014 tra le prime 10 banche italiane per patrimonio 5 sono banche popolari.

Ma le similitudini con le banche ordinarie non si limitano al business.

Quasi tutte le popolari più importanti sono protagoniste delle cronache giudiziarie - a dimostrazione che essere “cooperativi” non vuol dire necessariamente esser virtuosi - e nessuna di esse si distingue per una particolare avversione al rischio (delle nove banche italiane bocciate agli stress test 7 sono banche popolari).

Nonostante le chiacchiere sul rapporto banca/territorio dunque, per vizi e per virtù, le banche popolari sono in tutto e per tutto assimilabili alle S.p.A. e non c’è alcun serio fattore tecnico che giustifichi la difesa del voto capitario in assenza del “contrappeso” dei limiti all’operatività. Dirò di più: la sopravvivenza del voto capitario nelle popolari mette fuori dalla logica le norme che disciplinano le BCC e che giustamente ne limitano la crescita dimensionale per preservarne la vicinanza operativa al socio/cliente (e raggiungere così soggetti altrimenti esclusi dal circuito del credito perché poco “interessanti” per i grandi istituti).

Sarebbe tutt’al più consigliabile (ove si volesse completare la pulizia e ripristinare una volta per tutte l’endiadi “società cooperativa = voto capitario = operatività e dimensione limitata / società per azioni = voto proporzionato al capitale = operatività e dimensione libera”) l’introduzione nella riforma di un obbligo di trasformazione in BCC  delle “micro-popolari” e delle “micro-S.p.A.”, vale a dire di quegli istituti che, pur non essendo BCC  operano di fatto come tali.  

Avrei concluso, eppure uno scrupolo mi affligge: nella foga di convincervi dell’assurdità del voto capitario, ho omesso di dire tutta la verità. Le popolari una caratteristica peculiarissima ce l’hanno.

Nonostante l’effetto boom della riforma sulla quotazione delle stesse popolari, l'associazione di categoria non ha perso un minuto e si è precipitata a manifestare il proprio fastidio e disappunto: ecco, per chi ancora non lo sapesse, le popolari italiane rappresentano l’unico caso al mondo di società il cui management protesta quando gli azionisti si arricchiscono.

Che dite, è sufficiente per (non) lasciarle come sono?

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Commenti

Ci sono 21 commenti

L'unica cosa su cui non concordo è la peculiarità del fenomeno cooperativo.

Una forma associativa che combina legami fortissimi con aggregati di potere e/o partiti,  controllo gerarchico, agevolazioni fiscali mostruose e la possibilità di sottopagare "i soci" è l'ideale per l'Italia

E poi dicono che in Italia non c'e' il turboliberismo

Sarebbe un discorso lungo: comunque bisogna sottolineare che il fenomeno cooperativo, in giro per il mondo e per  l'Italia, ha prodotto molti buoni risultati. Come al solito l'ideale sarebbe esser capaci di reprimere gli abusi.

 

"Si puo' guadagnare molto di piu' senza prestare alle Pmi" (Il Sole 24 Ore Radiocor) - Roma, 19 feb - "Noi - ha rilevato Giarda - abbiamo la sventura di essere dentro i territori piu' ricchi, la fascia dell'Italia del nord legata al resto dell'Europa da antiche tradizioni, con famiglie a elevata propensione al risparmio finanziario, la nostra raccolta diretta e indiretta. E naturalmente sulla gestione di queste grandi masse di ricchezza finanziaria si puo' guadagnare molto di piu' svincolati dalle reti che fanno prestiti alle piccole e medie imprese: si possono guadagnare con ritorni in equita' superiori al 12-15%, che ci vengono descritti, come i target della trasformazione delle nostre banche popolari in spa"

[è in audizione alla camera, si rivolge ai deputati] Giarda ha quindi ribadito: "Avete responsabilita' che vanno al di la' della stabilita' di una sistema finanziario di poche imprese, come sono queste popolari ma che guardano ai territori che definiscono una parte rilevante dei territori del sistema produttivo italiano sui mercati internazionali, avete un compito molto complicato".

Bof-Mct

(RADIOCOR) 19-02-15 15:16:31 (0412) 5 NNNN

 

giarda è uomo di molte vite e gran uso di mondo, ultimamente ha perso parecchio tempo con la spending review per poi passare alla popolare milano, con lo stesso mandato: non muovere nulla.  però qua si è finiti in un'altra dimensione, roba per fisici quantistici oppure per roger rabbit.

a leggere e rileggere risulta che le popolari insomma lavorano malissimo, visto che col core business quasi ci rimettono, però mungono senza pietà quei babbaloni che gli fanno gestire  il risparmio familiare. e poi, quelle insistenti banche estere che baderebbero solo a fare buoni affari, che scorrette, anzi immorali! no pasaran, in parlamento abbiamo tanti amici.

l'ignoranza è forza, l'acqua va in salita, la  nostra prossima povertà dovremo chiamarla ricchezza?

 

 

Potrei aggiungere che le affermazioni di Giarda riflettono un altro elemento importante: la tendenza della banca popolare a comportarsi come un spa anche quando si tratta di scegliere quale parte del margine d'intermediazione privilegiare. Sarà anche un pò colpa del modello di "banca universale"? pensiamoci

 

1) Ridurre l’attivo entro il limite degli 8 miliardi;

2) trasformarsi in società per azioni “ordinarie”, abbandonando il voto capitario;

3) andare in liquidazione.

 

devono fare una delle tre, non tutte e tre. è ovvio, ma nel testo manca.

messo a posto! grazie!

Anche in altri paesi esistono banche mutualistiche e cooperative.
Mi piacerebbe capire quali siano le differenze con quelle italiane (a parte la qualità di gestione).

Se non mi sbaglio, la principale differenza per esempio in Germania e in Francia è che in quei paesi le banche popolari o assimilabili siano rimaste comunque banche territoriali (o dovremmo dire "macroterritoriali"), mentre in Italia le banche popolari di territoriale hanno oramai solo il nome.

Più che l'attivo patrimoniale, dovrebbe forse essere questo il criterio che forza la conversione?

Così come per le casse di credito cooperativo il mantenimento o meno della mutualità prevalente. O no?

E non sarebbe più opportuno che queste regolamentazioni fossero fatte "ex-ante", ossia che sia dato un quadro chiaro in cui muoversi a tutti gli attori (lo so, in  Italia probabilmente è una domanda oziosa)?
E' evidente per esempio che il criterio degli 8 miliardi di euro è del tutto arbitrario, fatto per selezionare le banche che per altri criteri si volevano "colpire".
E, incidentalmente, se ne è colpita un'altra (la Volksbank di Bolzano), che, pur restando sostanzialmente territoriale (si fonde con una popolare veneta che ne ha "necessità"), supererà il criterio patrimoniale dopo la fusione.

Insomma, visto che anche questa volta una delle giustificazioni del governo è "ce lo chiede l'Europa", come ci confrontiamo con gli altri paesi, quanto meno quelli dell'eurozona?

Caro Stefano,

hai centrato un punto fondamentale:

la vera differenza tra banca cooperativa e banca non cooperativa è (o dovrebbe essere) proprio nei limiti all'opertività. Mi spiego meglio: posto che  la b.c. nasce per erogare ai soci (sulla base del presupposto che questi sarebbero altrimenti esclusi dal mercato perchè marginali o non redditivi) quando smette di farlo o di farlo prevalentemente, dovrebbe cessare di essere cooperativa allineando la forma alla sostanza ed eliminando il voto capitario. Con le BCC  la normativa prevede addirittura dei limiti di legge che impediscono che ciò accada, vincolando l'operatività a zone di competenza e a soggetti ben definiti. ecco, a voler essere sintetici e secondo la mia opinione, o sei BCC o sei SpA. Tertium non datur  

non credo che il criterio degli 8 miliardi sia arbitrario. dovrebbe essere legato ai criteri per i quali si ricade sotto il controllo BCE, e sono abbastanza sicuro che l'urgenza del decreto derivi da questo. qualcuno più esperto di me mi corregga se sbaglio.

quanto all'argomentazione "cosa fanno gli altri?" trovo più convincente chiedersi "è una riforma valida?"  . non è che se una cosa è sbagliata, diventa corretta se la fanno altri. E viceversa ovviamente.

nell'ultimo elenco dei soggetti, definiti significativi,  posti sotto sorveglianza diretta BCE, compaiono 7 banche popolari italiane. il decreto-renzi ne colpisce 10. i criteri europei non sono poi puramente patrimoniali, ma anche di rilevanza sistemica nazionale e internazionale, che non sembra roba da popolari.

la mia irrilevante opinione: l'urgenza viene dalla situazione da veneto banca e pop vicenza, grosse ma  non  quotate. il valore dell'azione è fissato dall'assemblea dei soci a valori folli, ante crisi. in queste condizioni il loro adeguamento alle indicazioni degli stress test è stato faticosissimo ed irripetibile.

ad es. veneto banca all'ultimo aumento di capitale ha iscritto 10*000 nuovi soci, tutti  intortati allo sportello mentre trattavano il mutuo o l'acquisto di un' obbligazione della casa.

il limite inferiore di 8 miliardi si ricava poi dall'ultima in classifica, la pop bari, pure non quotata. perchè arrivare più in basso, vista la minore rilevanza? non lo so, il fatto che però il dominus della banca si addirittura l'erede del dominus precedente, non fa pensar bene. dominus, non proprietario, che per esser proprietari bisogna investire soldi.

 

Il controllo diretto della BCE è dedicato alle banche con oltre 30 Miliardi di attivi patrimoniali, o più precisamente alle banche "significative" di un paese membro della eurozona. La BCE comunque si riserva di controllare tutte le banche dell'eurozona, sia imponendo criteri uniformi di vigilanza nei singoli paesi e controllando i controllori (le banche centrali nazionali o le autorità indipendenti di supervisione a seconda del paese), che controllando direttamente.
Qui trova i criteri di classificazione e le linee guida per la vigilanza BCE.

Non trovo da nessuna parte il valore di 8 Miliardi di Euro di attivi patrimoniali. Ma potrei aver letto male.

Per il resto a me pare che in ogni caso sia interessante fare una analisi comparata tra i vari paesi.

Sebbene sia vero che ciascuno ha le sue particolarità, è sempre interessante compararle.

Non sarei nemmeno così certo che esistano in senso assoluto soluzioni giuste e sbagliate. E' molto probabile che le soluzioni più opportune dipendano dal contesto.

In ogni caso, considerato che Renzi e Padoan hanno giustificato l'intervento con un "ce lo chiede l'Europa", domandarsi se sia vero o meno non mi sembra ozioso.
Così come mi parrebbe interessante vedere se vi sono differenze negli impieghi e nelle sofferenze tra le varie tipologie di banca nei vari paesi. Ma questo forse è chiedere troppo.

Se poi vogliamo restare unicamente sul problema nazionale, a quel punto io riterrei più ragionevole la soluzione preferita dall'articolista, ossia la trasformazione in SpA di tutte le popolari italiane.
Non mi pare, ma appunto qui mi sarebbe interessato il parere dell'esperto, che per la maggior parte delle nostre sia ancora valido il presupposto (che appunto mi pare invece permanga negli altri paesi europei) di territorialità o mutualità che ne hanno determinato la forma di governo particolare.
Salvo che so, la Valsabbina? Quella la teniamo cosi?

Siamo di fronte ad una delle tante eredità del sistema consociativo che negli ultimi decenni del secolo scorso ha gestito il Paese. Una delle tante reti di interessi e persone che gestiscono la loro nicchia di potere e che bisogna tagliare (potrei dire, ROTTAMARE) per fermare il declino di questo nostro amato Paese.

Articolo interessante,   ma per me rimane una questione di fondo  su cui mi piacerebbe capire di piu.  Stessi clienti, stesso business, stessi mercati. OK.   E allora?  il problema e'  la  scarsa contendibilita' di questi istituti (garantita dal voto capitario), che tende a non disciplinare i comportamenti   garantendo a pochi ben-connessi di fare il bello e il cattivo tempo a scapito della maggioranza a vita?  (questo il punto, a mio avviso  molto importante,  evidenziato qui da  Luigi Guiso).  C'e' altro? (trattamento fiscale o altro?) Nei giorni oassati   ho letto  un appello di due economisti a FAVORE della biodiversita finanziaria (!)  e contrario alla riforma delle popolari....non vi ho trovato argomenti chiari  di principio   ma mi piacerebbe se qualcuno  spiegasse  i principi economici, e le evidenze, dietro queste realta'  istituzionali diverse (ammesso che ce ne siano).    

 

  il problema e'  la  scarsa contendibilita' di questi istituti (garantita dal voto capitario), che tende a non disciplinare i comportamenti   garantendo a pochi ben-connessi di fare il bello e il cattivo tempo a scapito della maggioranza a vita?  (questo il punto, a mio avviso  molto importante,  evidenziato qui da  Luigi Guiso).  C'e' altro?

 

beh, almeno dal punto di vista della concorrenza, sì.

anche una dirigenza che si rinnova esclusivamente  per cooptazione necessita lo stesso di un criterio aziendale, cioè del patto implicito ma conosciuto da tutti che ne ispira la vita e le opere.  le banche popolari non lavorano alla fine per compensare gli azionisti, ma per rimanere nell'ambito, anche se ormai confuso, della parte politica che le ha generate. a oltre vent'anni dallo scioglimento  della DC queste sono ancora tutte aziende democristiane,  pure se pare assurdo. da qua discende la primaria difesa del controllo e le degenerazioni che ne conseguono. 

e costituiscono allora un cartello di fatto, all'interno del quale si regolano le controversie, si organizza il mutuo soccorso, ci si legittima a vicenda; non ci si strappa clientela, managemement e zone di influenza.  l'efficienza, sarà quella di tutti i cartelli, cioè quella del membro peggiore. niente di innovativo verrà mai da un cartello.

copioincollo la cronologia delle acquisizioni della bper:

La banca nasce nel 1867 come Banca Popolare di Modena Scarl. Nel 1983 in seguito alla fusione con la Banca Cooperativa di Bologna assume il nome di Banca Popolare dell'Emilia, sostituito nel 1992 con l'attuale ragione sociale dopo la fusione con la Banca Popolare di Cesena.

Nel 1997 viene acquistato il Credito Commerciale Tirreno.

Nel 1998 acquisisce la Banca del Monte di Foggia, Banca popolare del Sinni e Banca Popolare di Aprilia.

Nel 1999 acquista Banca popolare di Castrovillari e Corigliano Calabro, Banca popolare di Salerno, Carispaq (Cassa di Risparmio dell’Aquila).

Nel 2000 acquisisce la Banca popolare dell'Irpinia.

Nel 2001 acquista il Banco di Sardegna e la Banca di Sassari.

Nel 2003 viene fondata la controllata Banca della Campania, che include la Banca popolare dell’Irpinia, la Banca popolare di Salerno e l’ex Credito Commerciale Tirreno; successivamente viene inglobata anche la Banca del Monte di Foggia (2006).

Nel 2004 viene acquistata la Eurobanca del Trentino e ABF Factoring, mentre nel 2005 ABF Leasing.

Nel 2008 nasce la Banca Popolare del Mezzogiorno, dalla fusione della Banca popolare del Materano e della Banca popolare di Crotone.

Nel 2009 le azioni BPER vengono quotate alla Borsa Italiana, nel segmento Blue Chip del mercato MTA.

Nel 2010 viene incorporata la Cassa di Risparmio di Vignola.

A seguito di fusione, incorpora Meliorbanca[5] nel novembre 2012 e Banca Popolare di Lanciano e Sulmona, Cassa di Risparmio della Provincia dell’Aquila e Banca Popolare di Aprilia nel maggio 2013[6].

Sempre nel 2013 ha acquisito il controllo della Cassa di Risparmio di Bra.

Il 30 ottobre 2013 il Consiglio di Amministrazione ha approvato una riorganizzazione dell'intero gruppo bancario, attraverso la fusione per incorporazione nella capogruppo di tutte le sue banche aventi sede nella penisola[7]. Il 27 maggio 2014 il CdA ha reso noto, dopo l'approvazione del progetto di fusione, che l'incorporazione di Banca popolare del mezzogiorno, Banca della Campania e Banca Popolare di Ravenna sarebbe stato perfezionato a fine novembre 2014[8], divenendo poi efficace in data 24 novembre 2014.

a ben vedere, c'è tutto.

 

 

(qui) Incidentalmente, facendo riferimento alla famosa soglia dei 30 miliardi.

Chissà se ci riusciranno.

il livello di 8 miliardi non stato definito a caso, ma per comprendere la pop bari.

io penso che sia anche per impedire una involuzione della governance in senso addirittura ereditario: marco jacobini è succeduto nel ruolo di suo padre, senza soluzione di continuità.  sembra la storia del figlio di casaleggio, anche lì uno vale uno e tutto il potere è nell'assemblea.

fassina fa opposizione,  essendo all'opposizione.