La riforma 3 più 2 e il mercato del lavoro giovanile

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La disoccupazione giovanile è diventata un tema di grande attualità nel nostro paese. Ma i problemi non sono nuovi e le relazioni tra livelli di istruzione e status lavorativo dei giovani continuano a non ricevere l’attenzione che meritano.

La singolare, recente evoluzione dei tassi di occupazione e di disoccupazione per titolo di studio dei 20-24enni emerge chiara dalla prima Tabella sotto (fonte:EU Labour Force Survey), la quale confronta cinque paesi europei e la complessiva area EU-27. La scelta del 2003 come anno di comparazione è dovuta al fatto che i laureati di quell'anno sono ancora in misura nettamente maggioritaria laureati pre-riforma "3+2", cioè persone provenienti dal vecchio ordinamento didattico universitario. Il 2009 è la disponibilità più recente di dati annuali.

Nel 2003, a ciascun livello formativo l’Italia condivide con Spagna e Francia i livelli più bassi di occupazione. Le differenze nei tassi di occupazione si ampliano al crescere dei livelli di istruzione: al livello Isced 5-6 (si veda la nota alla Tabella), 25-30 punti percentuali separano Francia, Spagna, Italia, da Germania e Inghilterra. Il quadro è alquanto diverso nel 2009. Una caduta verticale dei tassi di occupazione dei laureati, rispetto ai livelli 2003 pone l’Italia in posizione del tutto isolata. L’Italia esibisce nel 2009 la speciale caratteristica che i tassi di occupazione diminuiscono rapidamente al crescere dei livelli di istruzione. Circa 50 punti percentuali separano ora, al livello Isced 5-6,  l’Italia da Germania e Inghilterra, e 35 punti dalla complessiva area EU-27. La caduta dei tassi di occupazione dei laureati si lega a una forte caduta in Italia dei tassi di attività: dal 63% del 2003 al 35% del 2009. Negli altri paesi si osserva invece una sostanziale stabilità o una crescita della partecipazione. In Italia poi, nel 2009, la disoccupazione dei 20-24enni si situa in posizione intermedia nei più bassi livelli di istruzione e, in decisa controtendenza rispetto agli altri paesi, cresce sensibilmente tra i laureati. Ma elevatissimi tassi di disoccupazione tra i laureati, intorno o superiori al 30%, si registrano anche in anni assai vicini (ad es. nel 2004-2005).

 

Tassi di occupazione dei 20-24enni per titolo di studio

 
 

 

 
 

isced 0_2

 
 

isced 3_4

 
 

isced 5_6

 
 

 

 
 

2003

 
 

2009

 
 

2003

 
 

2009

 
 

2003

 
 

2009

 
 

Germania

 
 

57,2

 
 

59,7

 
 

62,8

 
 

63,4

 
 

78,7

 
 

76,4

 
 

Spagna

 
 

66,2

 
 

49,2

 
 

35,0

 
 

39,2

 
 

53,9

 
 

49,3

 
 

Francia

 
 

48,7

 
 

43,2

 
 

52,1

 
 

50,7

 
 

50,5

 
 

57,8

 
 

Italia

 
 

48,9

 
 

45,9

 
 

35,4

 
 

35,3

 
 

53,3

 
 

25,0

 
 

UK

 
 

58,3

 
 

57,1

 
 

70,3

 
 

66,0

 
 

80,7

 
 

72,3

 
 

EU-27

 
 

54,9

 
 

51,2

 
 

50,2

 
 

50,6

 
 

62,9

 
 

60,1

 
 

Tassi di disoccupazione dei 20-24enni per titolo di studio

 
 

 
 

isced 0_2

 
 

isced 3_4

 
 

isced 5_6

 
 

 

 
 

2003

 
 

2009

 
 

2003

 
 

2009

 
 

2003

 
 

2009

 
 

Germania

 
 

17,7

 
 

17,2

 
 

10,5

 
 

9,0

 
 

5,2

 
 

8,3

 
 

Spagna

 
 

18,7

 
 

40,0

 
 

20,0

 
 

28,1

 
 

15,8

 
 

24,4

 
 

Francia

 
 

27,9

 
 

39,7

 
 

13,5

 
 

19,9

 
 

13,2

 
 

12,6

 
 

Italia

 
 

25,5

 
 

23,0

 
 

24,9

 
 

22,1

 
 

15,3

 
 

29,6

 
 

UK

 
 

16,7

 
 

23,6

 
 

6,9

 
 

13,4

 
 

5,1

 
 

14,6

 
 

EU-27

 
 

20,6

 
 

26,4

 
 

17,4

 
 

15,9

 
 

12,0

 
 

16,1

 

Nota alla Tabella: La classificazione dei livelli formativi della tabella è Isced 97. Il livello 0-2 giunge alla scuola secondaria inferiore; il livello 3-4 copre il variegato mondo dei diplomi; il livello 5-6 è composto dai titoli universitari.

I ritardi di ingresso nel mercato del lavoro si accentuano dunque ulteriormente in questi anni tra i laureati 20-24enni. La caduta dei tassi di partecipazione (al mercato del lavoro) dei laureati, va di pari passo con la caduta dei tassi di occupazione ed è il fatto nuovo di questi anni. Evidente è il collegamento con la riforma degli ordinamenti didattici del 1999, il cosiddetto 3+2. Il massiccio passaggio dei nuovi laureati triennali al successivo biennio della Laurea magistrale, unitamente alla particolare propensione italiana (ben documentata nei dati OCSE di Education at a Glance) di considerare studio e lavoro come attività alternative e dunque come impegno esclusivo, hanno determinato l’ulteriore ritardo di ingresso dei laureati. Ridurre il percorso di laurea e condurre più rapidamente una vasta maggioranza di giovani laureati al mercato del lavoro è, di fatto fino ad oggi, un obiettivo fallito della riforma.

Alla constatazione di questo obiettivo fallito nella fascia dei 20-24enni si aggiungono altre perplessità, che derivano dai dati relativi ai due livelli di laurea creati dalla riforma. Nella seconda Tabella (fonte: ISTAT) compaiono i tassi di attività, occupazione e disoccupazione dei laureati 25-29enni separati per tipo di laurea -- triennale (primo livello) e magistrale (secondo livello), dove queste ultime includono anche le residue lauree del vecchio ordinamento -- negli anni 2004-2009. Gli andamenti sono alquanto diversi tra i due livelli di laurea. La stabilità della partecipazione, la crescita dell’occupazione e la contrazione della disoccupazione dei laureati di secondo livello, in entrambi i gruppi di genere, contrastano con la continua discesa di partecipazione e occupazione dei laureati triennali. Quanto quest’ultimo esito si colleghi all’assai lento conseguimento della laurea magistrale (dai dati MIUR, 27 anni è l’età media di laurea magistrale nel 2009) o a effetti di scoraggiamento dovuti all'incertezza sugli sbocchi professionali è questione aperta. I risultati sono in ogni caso assai deludenti e preoccupanti. Infine, è bene sottolineare che questi risultati emergono da andamenti regionali omogenei. In ciascuna delle 4 aree del paese si osserva una consistente contrazione di partecipazione e occupazione dei laureati triennali. L’eterogeneità tra le aree si riflette, naturalmente, in livelli molto differenziati di occupazione e disoccupazione.

 

Tassi di attività, occupazione, disoccupazione dei laureati 25-29enni di 1° e 2° livello

 
 

 

 
 

M

 
 

F

 
 

 

 
 

2004

 
 

2006

 
 

2008

 
 

2009

 
 

2004

 
 

2006

 
 

2008

 
 

2009

 
 

Laureati 1° livello

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

Tassi di attività

 
 

79,3

 
 

69,6

 
 

62,6

 
 

57,7

 
 

83,6

 
 

75,3

 
 

65,8

 
 

65,5

 
 

Tassi di occupazione

 
 

68,3

 
 

61,3

 
 

54,4

 
 

47,7

 
 

73,9

 
 

64,7

 
 

58,4

 
 

55,6

 
 

Tassi di disoccupazione

 
 

13,9

 
 

11,9

 
 

13,0

 
 

17,4

 
 

11,5

 
 

14,1

 
 

11,1

 
 

15,1

 
 

Laureati 2° livello/VO

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

Tassi di attività

 
 

73,7

 
 

75,7

 
 

79,7

 
 

75,0

 
 

70,3

 
 

70,5

 
 

70,6

 
 

71,6

 
 

Tassi di occupazione

 
 

59,8

 
 

63,4

 
 

70,8

 
 

65,1

 
 

53,6

 
 

57,2

 
 

60,0

 
 

59,5

 
 

Tassi di disoccupazione

 
 

18,8

 
 

16,3

 
 

11,2

 
 

13,2

 
 

23,7

 
 

18,9

 
 

15,0

 
 

16,9

 

 

In conclusione. Complessivamente la riforma "3+2" ha rallentato l’ingresso nel mercato del lavoro. Ma si delinea anche un problema di collocazione nel mercato dei laureati di primo livello, un problema molto aperto all’analisi e a interventi di policy. Controlli e valutazioni dei nuovi corsi di laurea estremamente carenti e disegni di facoltà e sedi, tesi troppo spesso alla spartizione di posti piuttosto che alla efficiente creazione di competenze, hanno insieme contribuito a una figura di laureato incerta e dalla difficile collocazione. Una reale valutazione dei nuovi corsi, la semplificazione nella organizzazione dei due livelli di laurea (anche per evitare i tempi morti nel passaggio dall’uno all’altro livello) e concrete misure per facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro dei laureati di primo livello dovrebbero essere oggi prioritari obiettivi di policy in questa area.  La rimozione di vincoli per l’accesso a una serie di professioni, in particolare nel settore pubblico, rafforzerebbe chiarezza e ruolo delle lauree triennali e favorirebbe una ripresa dei tassi di attività, o almeno ne frenerebbe il declino.

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Commenti

Ci sono 34 commenti

 

"La rimozione di vincoli per l’accesso a una serie di professioni, in particolare nel settore pubblico, rafforzerebbe chiarezza e ruolo delle lauree triennali e favorirebbe una ripresa dei tassi di attività, o almeno ne frenerebbe il declino."

 

Sante parole.

Peccato che questo governo vada nella direzione opposta. Addirittura, si è arrivati ad istituire un albo che rischia di togliere dal mercato professionisti attivi da tempo nel proprio settore. Succede nel campo dei restauratori (qui un articolo di Sergio Rizzo).

Altro esempio dove le restrizioni all'accesso sono aumentate invece di diminuire è l'albo dei commercialisti, per i quali non esiste più la figura del ragioniere commercialista e l'esame è passato ad avere una prova scritta aggiuntiva. Ho letto di altri orrori, come questo su cui non ce la faccio proprio a commentare...

Queste cose mi deprimono talmente che quasi quasi divento anarco-capitalista anch'io.  Purtroppo non e' nemmeno un problema solo italiano - vedi l'Economist di questa settimana sulla situazione Amerikana.

Altro esempio dove le restrizioni all'accesso sono aumentate invece di diminuire è l'albo dei commercialisti, per i quali non esiste più la figura del ragioniere commercialista e l'esame è passato ad avere una prova scritta aggiuntiva

esiste la figura dell'esperto contabile:laurea triennale,tirocinio,esame di stato

iscrizione all'albo,sezione esperto contabile

 

 

Qualche chiarimento in più per quanto riguarda il settore pubblico. Una circolare del dicembre 2000 dell’allora ministro della funzione pubblica Bassanini richiedeva la laurea specialistica come requisito per l’accesso alle funzioni dirigenziali nelle amministrazioni pubbliche. Relativamente alle qualifiche non dirigenziali, la circolare richiedeva il “titolo di studio di primo livello denominato laurea” come requisito per l’accesso a una serie di posizioni nel “comparto Ministeri”, nonché per l’accesso alle equivalenti qualifiche degli altri comparti”. Questi punti venivano ribaditi in una successiva circolare del 2005 del ministro Baccini: per la dirigenza pubblica occorre la laurea specialistica o magistrale, mentre con la laurea triennale si accede solo alla carriera direttiva. Queste disposizioni, peraltro felicemente formulate in governi  di diverso orientamento, hanno trovato davvero applicazione? Vengono sollevati molti dubbi su questo quesito e capita di sentire fortemente sottolineata la mancanza di strumenti giuridici per costringere le amministrazioni pubbliche a rispettare tali disposizioni.

"Ridurre il percorso di laurea e condurre più rapidamente una vasta maggioranza di giovani laureati al mercato del lavoro è, di fatto fino ad oggi, un obiettivo fallito della riforma."

 

Vero...non potevano, ad esempio, ridurre gli anni delle scuole precedenti l'università?? Mi pare che solo in Italia ci si diplomi a 19 anni....o comunque sia una delle poche nazioni..

 

non potevano, ad esempio, ridurre gli anni delle scuole precedenti l'università?? Mi pare che solo in Italia ci si diplomi a 19 anni....o comunque sia una delle poche nazioni..>

Per accedere all'universita' in Germania bisogna avere l'Abitur e studiare fino a 19 anni (come in Italia) ; ma siamo in buona compagnia: bisogna avere 19 anni in Danimarca, Finlandia, Estonia, Slovenia, Bulgaria, Romania e Svezia....interessante anche guardare l'inizio della scuola dell'obbligo in UE: la maggioranza opta per i sei anni; mentre Danimarca, Estonia, Finlandia e Svezia sette anni; Paesi Bassi e Regno Unito quattro anni e l'Ungheria fa iniziare la scuola dell'obbligo a ben tre anni.   

 

C'è qualcosa che non mi convince nei dati presentati e nella loro lettura. Posto che non mi dichiaro esperto in materia di mercato del lavoro e non ho familiarità con i relativi dati, quello che faccio tipicamente è seguire le ben note analisi di AlmaLaurea, che svolge una indagine annuale sulla Condizione occupazionale dei laureati, avvalendosi di una propria survey ad ampia base di dati.

Lì è possibile andare abbastanza nel dettaglio della questione del nuovo ordinamento didattico ("3 + 2") e si è potuto riscontrare qualitativamente un impatto moderatamente positivo della riforma, pur con le criticità e le carenze da attribuire alla fase progettuale e di implementazione dei nuovi corsi. Ho ridato un occhio al "riassunto" dell'indagine del 2010, che riporta la situazione del 2009, la quale risulta ovviamente segnata dalla crisi che ha picchiato duro in quell'anno, ma comunque non in modo da giustificare andamenti "totalmente discontinui".

Pertanto mi riprometto di tornare con più calma sulla questione, e nel frattempo formulo la seguente osservazione sulla tabella EU dei tassi di occupazione/disoccupazione dei 20-24enni per classi di titolo di studio. Ora, quanti erano gli ISCED 5-6 dell'ordinamento pre-riforma, già laureati prima dei 24 anni? Pochi, le schegge (forse i migliori, potremmo dire); oserei dire "pochissimi". Ora i "nostri" nuovi ISCED 5-6 post-riforma sono certamente molti di più. Insomma, vedo un problema di confrontabilità e di congruenza, per quanto riguarda quei dati, e invito a riflettere meglio sulla cosa. Un altro punto è comparativo: noi siamo stati i primi ad implementare la riforma, fra quei 5 paesi, quindi il raffronto è disomogeneo anche in questo senso.

Migliore (nel senso di "più utile/adeguata") appare invece la tabella ISTAT sui 25-29enni, che mi sembra fornisca una base più solida per dei ragionamenti nazionali. Anche lì va considerato ovviamente che fra il 2004 e il 2009 c'è una transizione quali-quantitativa delle coorti dovuta al continuo progresso della venuta a regime della riforma.

RR

 

Grazie del pezzo, molto interessante. Solo una domanda da "orologiaio" sull'errore campionario nella categoria "laureati 20-24" in Italia? Considerato che, a quanto immagino, i laureati 20-24 in Italia siano pochi, anche se il campione dell'indagine forze di lavoro e' immenso, a quanto ammonta la base campionaria nella categoria "laureati 20-24" in Italia?

Secondo me, le lauree triennali hanno senso solo in determinate facoltà, mentre in altre servono solo a rallentare i tempi per la magistrale (doppia tesi di laurea, ulteriori adempimenti burocratici, non perfetta coincidenza dei tempi...). Per es., tutti i corsi di laurea di ingegneria hanno un preciso sbocco professionale anche a livello di laurea (triennale): basta ricordare che i diplomi di laurea triennale erano pre-esistenti alla riforma.

Mi domando, invece, che senso abbiano lauree triennali nella facoltà di Lettere e Filosofia o Scienze politiche o Sociologia: quale collocazione di mercato dare ai laureati di queste facoltà? Francamente faccio difficoltà a trovarne. Non sarebbe allora più logico creari classi di laurea a ciclo unico come succede a Giurisprudenza, Medicina e Chirurgia e Architettura? (parlo dei corsi di laurea, visto che in quelle facoltà esistono diversi corsi di laurea triennali con scopi differenti).

 

Mi domando, invece, che senso abbiano lauree triennali nella facoltà di Lettere e Filosofia

 

mi sembra più che sufficiente per compiti dove serve una base di cultura generale (saper interpretare un testo, scrivere decentemente etc.) poi da arricchire con on the job training. Quello che dava il buon vecchio liceo dei miei tempi. Tanto per dire, lavori da segretaria, impiegato pubblico non di alto livello etc.  Una laurea triennale non sarebbe sufficiente per fare l'insegnante di lettere, che comunque prevede un percorso specifico

 

Correggetemi pure se dico una cazzata ma 

27 anni è l’età media di laurea magistrale nel 2009

non dovrebbe essere già un indicatore di malfunzionamento del sistema universitario? Assumendo che le capacità e l'impegno siano distribuiti in modo normale tra gli studenti, in media in un università decente gli studenti non dovrebbero laurearsi in corso? Va bene il caso singolo dello studente che lavora, o vuole una media più alta o ha n altre ragioni, ma non è anomalo che in media ci mettano 9-10 anni laurearsi?

Beccato Massimo: hai proprio ragione. La durata abnorme del percorso universitario medio dei laureati nasconde più realtà.

La prima è senz'altro quella che definisci come malfunzionamento dell'università. Un'altra altretanto evidente è legata alla ricerca dell'ingresso sul mercato del lavoro (impiego full time dello stesso indirizzo degli studi) il più tardi possibile: non certo per volontà dei candidati laureati, bensi per le istituzioni che si devono prendere cura dei nuovi entranti sul mercato (anche solo a livello statistico).

I sistemi che funzionano prevedono l'esclusione dello studente del percorso di laurea quando si supera un determinato tempo per il superamento di esami necessari al conseguimento della laurea.

 A prescindere che la nozione di esami dovrebbe essere rapportata ad anni di corso: tot esami minimo superati in tot anni massimo, senza questa nozione di performance universitaria, la laurea diventa un investimento patrimoniale senza collegamento con la vita lavorativa.

A queste esigenze di rapporto esami/durata, dovrebbe anche coincidere un osservazione sulla durata della ricerca di una posizione lavorativa e sulla percentuale di posti di lavoro trovati in coincidenza con l'indirizzo di corso conseguito.

Concordo. Non e' molto diversa dalla media della quinquennale (mi ricordo medie ad ingegneria, la Sapienza, di 27/28 anni).

Sostanzialmente per chi fa la magistrale non e' cambiato molto, a parte ulteriori complicazioni burocratiche. L'unico vantaggio e' riuscire ad andarsene prima se fai solo la triennale.

Non solo la durata effettiva degli studi è molto lunga, ma credo che quel valore medio di 27 anni possa essere influenzato al rialzo da alcune anomalie.

Per esempio, nel documento "I laureati e lo studio" prodotto da ISTAT nel 2004 e relativo all'anno 2001, leggo a pag. 26 che nel gruppo educazione fisica il 92.5% degli studenti si laureava in corso, ma curiosamente l'età media dei laureati era 35 anni. Probabilmente questo è un effetto del valore legale del titolo di laurea: se non sbaglio, in Italia esistono requisiti di legge per i responsabili tecnici di palestra. Immagino che diverse persone possano aver iniziato a lavorare dopo la scuola superiore, per poi fare un upgrade del curriculum in un secondo momento quando si ritenevano pronti a gestire un'attività in proprio.

 

La rimozione di vincoli per l’accesso a una serie di professioni, in particolare nel settore pubblico, rafforzerebbe chiarezza e ruolo delle lauree triennali e favorirebbe una ripresa dei tassi di attività, o almeno ne frenerebbe il declino.

 

In effetti la stessa amministrazione pubblica sembra intenta a sabotare la cosiddetta riforma del 3+2. Ci sono due circolari del ministro della funzione pubblica la prima emessa ai tempi di Bassanini, la seconda di un governo di centro destra che invitano inequivocabilmente le amministrazioni pubbliche a non richiedere la laurea magistrale per concorsi a funzioni non dirigenziali. Le stesse circolari prevedono che il funzionario pubblico entrato con la laurea (triennale) dopo cinque anni di servizio possa partecipare a concorsi per dirigente. Queste circolari vengono sistematicamente ignorate in assenza di un deciso indirizzo governativo. Basterebbe rendere cogenti queste circolari e imporre agli ordini professionali che prevedono due livelli, l'ammissione alle prove per l'iscrizione all'ordine di secondo livello degli iscritti al primo livello da oltre cinque anni, per rendere appetibile l'uscita dal sistema universitario con la sola laurea triennale. Si tratterebbe insomma di attenuare il valore legale della laurea magistrale. Priva, o quasi, di valore legale, la laurea magistrale acquisterebbe maggior valore scientifico e culturale, almeno in alcune sedi, mentre altre sedi sarebbero costrette ad offrire, almeno in certi ambiti, solo lauree triennali. Sarebbero queste riforme che non costano nulla ed anzi farebbero risparmiare soldi alle universita'. Devo dire che io avrei previsto per l'insegnamento elementare un percorso universitario triennale (ora è quinquennale!) e per l'insegnamento secondario un percorso universitario di 3+1 (laurea triennale ed un anno di formazione/tirocinio pedagogico, ora invece il percorso è di 5+1). Purtroppo è stato deciso altrimenti, creando le premesse per maggiori costi alle finanze pubblche e alle famiglie. Manca da noi la cultura necessaria per prevedere i costi diretti e indiretti della lunghezza dei percorsi universitari per l'accesso alle professioni e agli impieghi. Poi ci si lamenta che le università non sono adeguatamente finanziate. Forse lo sarebbero se molti corsi di laurea magistrale fossero chiusi per mancanza di studenti.

 

Scusami Alessandro, ho letto il tuo commento solo dopo aver inviato una precisazione che va nella tua stessa direzione.

Ammetto di aver letto i commenti in modo un po' random per cui è probabile che il mio non sia particolarmente centrato ma credo che il primo passo sarebbe/dovrebbe essere l'abolizione del valore legale del titolo di studio, in questo modo eviteremmo che degli imbecilli "titolati" prendano, a prescindere, il posto di gente capace.