La responsabilità indiretta dei magistrati e i privilegi corporativi della magistratura

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La settimana scorsa, la Camera ha approvato un emendamento al disegno di legge intitolato "disposizioni per l'adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'italia alle comunità euopee" 4623-A introducendo la possibilità di un’azione diretta del cittadino nei confronti del magistrato in caso di dolo o colpa grave da parte di quest’ultimo. In questo post metto a disposizione qualche dato più approfondito rispetto alle sintesi giornalistiche e una riflessione più ampia.

Il discorso che sto per fare é di una certa complessità, tuttavia, il senso di esso è, in fondo, intuibile per chiunque abbia un po’ di buon senso. Proverò a rendere digeribile il polpettone seguendo gli eventi nella loro sequenza cronologica.

La responsabilità civile dei giudici è un vecchio cavallo di battaglia del partito radicale. Nel 1987, sulla scia della, indubbiamente scandalosa, vicenda Tortora, su iniziativa dei radicali, si svolse un referendum abrogativo di due articoli del codice di procedura civile, che prevedevano una sostanziale immunità per gli atti compiuti dal giudice nell’esercizio della sua funzione. Fra l’altro l’art. 56 CPC stabiliva che, per poter agire nei confronti del giudice era necessaria l’espressa autorizzazione del Ministero di grazia e giustizia. Faccio notare, altresì, che il codice di procedura civile fu emanato nel 1940, in piena era fascista, era in cui, evidentemente, l’indipendenza del giudice non costituiva un particolare valore e, ciononostante, si stabilì egli fosse immune dalle conseguenze delle sue decisioni.

Abolendo l’immunità, si apriva la stura all’azione diretta per qualsiasi provvedimento che un qualsiasi cittadino riteneva essere errato e, di conseguenza, ad una potenziale situazione di caos totale. Poteva così capitare che, facendo un banalissimo esempio, in una causa civile, un giudice prendesse un provvedimento anche solo provvisorio, per dire un’ordinanza di ammissione delle prove o altro, sgradito ad una delle parti. In assenza di una qualsiasi regolamentazione, la parte poteva tranquillamente partire con una, parallela, causa civile contro il giudice in questione, obbligandolo ad astenersi, con ciò eliminando il giudice, la cui decisione era ritenuta sbagliata. Portando alle estreme conseguenze l’esempio, un convenuto che, nel merito, magari era in torto, poteva paralizzare il processo in eterno, eliminando, ogni volta il giudice, non appena avesse preso qualsiasi decisione.

Credo che basti questo semplice esempio per comprendere come fosse necessario fissare dei paletti alla possibilità di agire contro il Giudice. Di conseguenza, il legislatore dell’epoca intese regolamentare i casi e le modalità con le quali il cittadino poteva far valere il proprio diritto al risarcimento nel caso in cui riteneva di aver subito un danno ingiusto da un provvedimento giurisdizionale. Fu così approvata la Legge 13 aprile 1988, n. 117, legge che i promotori del referendum ritennero essere un aggiramento della volontà popolare.

In realtà, la legge in questione non esclude la responsabilità del magistrato, ma la limita alle sole ipotesi di dolo e colpa grave espressamente descritte nell’art. 2, comma 3, il quale così recita

3. Costituiscono colpa grave:

a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;

d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

Nel contempo, al precedente comma 2, dell’art. 2 L. 117/88, si prevede una c.d. “clausola di salvaguardia” per cui:

2. Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.

In base all’art. 4 della L. 117/88 l’azione per responsabilità civile può essere esercitata solamente dopo aver esperito tutti i rimedi processuali previsti nel procedimento avverso il provvedimento errato, e quindi, dopo che esso sia intangibile. L’azione non può essere esercitata nei confronti del magistrato, ma deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri.

Ai sensi dell’art. 6 L. 117/88, il magistrato può intervenire come parte nel processo.

In base ai successivi artt. 7 e 9 L. 117/88 lo Stato condannato per l’errore del giudice deve esercitare l’azione di rivalsa nonché avviare un procedimento disciplinare nei confronti del magistrato.

In sintesi, secondo la vigente legislazione italiana, la responsabilità dello Stato per eventuale errore giudiziario è inscindibilmente connessa a quella del giudice che potrà, a sua volta, sussistere solamente nelle ipotesi di dolo o colpa grave tassativamente indicata dall’art. 2, comma 2, L. 117/88.

Questo lo stato dell’arte in materia di responsabilità civile del magistrato e, di riflesso, dello Stato.

Senonché nel mondo parallelo e superiore del diritto europeo, vincolante anche per l’Italia, in quanto aderente al trattato UE, si addensavano nubi sempre più minacciose nei confronti del sistema sopradescritto, fino ad arrivare alla tempesta attuale.

Le prime avvisaglie si ebbero allorchè la Corte di giustizia, ancora negli anni ’90, statuì che gli stati dovessero risarcire il privato, qualora essi avessero violato i trattati dell’Unione europea (sentenza Francovich).

L’ulteriore, probabilmente inevitabile, passaggio logico, fu la successiva pronuncia nella causa C-224/01 Köbler, secondo cui tale principio (obbligo di risarcimento del privato in caso di violazione del trattato) doveva applicarsi anche nell’ipotesi in cui la violazione dovesse derivare da una pronuncia di un organo giurisdizionale di ultimo grado (ad esempio, in Italia, la Corte di Cassazione o il Consiglio di stato).

La sentenza Köbler contiene alcune importanti statuizioni di principio tra cui

Per quanto riguarda l'indipendenza del giudice, occorre precisare che il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato. Ora, non sembra che la possibilità che sussista, a talune condizioni, la responsabilità dello Stato per decisioni giurisdizionali incompatibili con il diritto comunitario comporti rischi particolari di rimettere in discussione l'indipendenza di un organo giurisdizionale di ultimo grado (punto 42 della motivazione).

Inoltre, la sentenza stabilisce che non ogni violazione del diritto comunitario da parte di un giudice di ultimo grado costituisce anche un illecito da parte dello Stato, affermando che tale violazione deve essere “manifesta” (punto 53 della motivazione), premunendosi altresì di fornire i criteri per ritenere la sussistenza del presupposto, e quindi

Fra tali elementi compaiono in particolare il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l'inescusabilità dell'errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da un'istituzione comunitaria nonché la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234, terzo comma, CE. (punto 55 della motivazione)

In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è sufficientemente caratterizzata allorché la decisione di cui trattasi è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in questa materia (v., in tal senso, sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame, cit., punto 57) (punto 56 della motivazione).

Il cielo si faceva sempre più scuro per il sistema italiano. La miccia che innesca la tempesta è una causa che risale al 1981, causa che porta alla pronuncia C-173/03,denominata Traghetti del Mediterraneo. La vicenda sottostante, tenuto conto del sito sul quale sto scrivendo, è veramente interessante e merita di essere menzionata riportando le parole della Corte di giustizia

La società Traghetti del Mediterraneo e la Tirrenia di Navigazione (in prosieguo: la «Tirrenia») sono due imprese di trasporti marittimi che, negli anni ’70, effettuavano regolari collegamenti marittimi tra l’Italia continentale e le isole della Sardegna e della Sicilia. Nel 1981, mentre era stata sottoposta alla procedura di concordato, la TDM citava la Tirrenia in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli al fine di ottenere il risarcimento del pregiudizio che essa avrebbe subito, negli anni precedenti, a causa della politica di prezzi bassi praticata da quest’ultima (Punto 7 della motivazione).

La Corte di cassazione rigettava la domanda fra l’altro con il seguente argomento

Per giungere a tale conclusione, la Corte suprema di cassazione rilevava, da un lato, riguardo alla presunta violazione degli artt. 90 e 92 del Trattato, che tali articoli permettono di derogare, a certe condizioni, al divieto generale degli aiuti di Stato al fine di favorire lo sviluppo economico di regioni svantaggiate o di soddisfare domande di beni e servizi che il gioco della libera concorrenza non permette di soddisfare pienamente. Orbene, secondo tale giudice, tali condizioni ricorrerebbero appunto nella fattispecie in quanto, nel corso del periodo contestato (cioè tra il 1976 e il 1980), i trasporti di massa tra l’Italia continentale e le sue isole maggiori potevano essere assicurati, attesi i loro costi, solo per via marittima, cosicché sarebbe stato necessario soddisfare la domanda, sempre più pressante, per tale tipo di servizi affidando la gestione di tali trasporti ad un concessionario pubblico che praticava una tariffa imposta (punto 12 della motivazione).

Superfluo ogni commento…

Dunque, la causa intentata dalla Traghetti Mediterraneo Spa, in applicazione del vigente diritto italiano, fu rigettata sia dai giudici di merito sia dalla Cassazione, la quale rigettò altresì l’istanza della società di rivolgersi alla Corte di giustizia europea per violazione dei trattati UE. Esaurita la via processuale contro la società Tirrenia Spa, la Traghetti del Mediterraneo non si arrende ed in applicazione della sentenza Francovich, cita in Tribunale lo Stato italiano per i danni derivanti dalla violazione del trattato UE. Lo Stato si trincera dietro la legge 117/88 ed eccepisce che, in assenza di una colpa grave ex art. 2, L. 117/88 del giudice, non è tenuto a pagare nessun risarcimento. Così la vicenda finisce davanti alla Corte di giustizia, la quale sancisce il principio per cui, una norma, quale quella dell’art. 2 L. 117/88 che impedisce al cittadino di ottenere n risarcimento di fronte ad una pronuncia di un giudice di ultimo grado che ha interpretato in maniera manifestamente erronea il diritto UE, costituisce violazione del trattato.

La palla passava quindi al Legislatore italiano, il quale, di fronte al solo principio dichiarato nella sentenza Traghetti del Mediterraneo, fece spallucce ed adottò una tattica attendista. A questo punto, il pallino venne preso in mano dalla Commissione, la quale, dopo aver diffidato lo Stato italiano ad adeguare la propria normativa interna al trattato UE, presentò ricorso alla Corte di giustizia europea.

Nel procedimento davanti alla Corte, la Repubblica Italiana si difese con l’argomento per cui la nozione di negligenza del giudice, come emerge dall’art. 2, comma 2, della legge 117/88, sarebbe uguale a quella della violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione, quale definita dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.

In estrema sintesi, l’oggetto della causa C-379/10, è questo e, cioè, quello di stabilire se le due nozioni (negligenza ai sensi della legge 117/88, ovvero violazione negligente del diritto UE in sede giurisdizionale) coincidano o meno.

La Corte, con sentenza datata 24 novembre 2011 risponde di no, le due nozioni non coincidono e che quella di cui alla legge 117/88 è più restrittiva di quella europea, sicchè condanna lo Stato italiano per violazione dei trattai UE.

E così veniamo ai giorni nostri ed alla vicenda parlamentare, dove è in corso di esame ed approvazione il famoso disegno di legge comunitaria, mediante il quale lo Stato italiano si conforma agli obblighi ad esso derivanti dall’appartenenza all’Unione. Il deputato leghista Pini, inserisce un emendamento che modifica la legge 117/88, emendamento che, come è noto, viene approvato alla Camera, contro il parere negativo del Governo, in data 2 febbraio 2012. L’emendamento in questione modifica l’art. 2 della legge 117/88 nel seguente modo (parti aggiunte e/o modificate evidenziate in grassetto):

al comma 1 dell’art. 2, si prevede che

«1. Chi ha subìto un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto»;

b) il comma 2, è sostituito dal seguente:

«2. Salvo i casi previsti dai commi 3 e 3-bisnell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di (interpretazione di norme di diritto. Parte tolta) valutazione del fatto e delle prove»;

c) dopo il comma 3, è inserito il seguente:

«3-bis. Ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del diritto ai sensi del comma 1, deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato con particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto. In caso di violazione del diritto dell'Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, non abbia osservato l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonché se abbia ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea».

Prima di passare all’analisi del significato e della portata dell’emendamento in questione appare necessario fare due piccole premesse, molto importanti per comprendere ciò che è successo e la malafede o profonda ignoranza dei parlamentari che sostengono l’emendamento in questione:

1)      La legge 117/88, già adesso, non esclude una responsabilità del giudice, solamente che la sua condanna deve passare, prima, attraverso una condanna dello Stato. Si tratta, quindi, di per sé, di una mera questione procedurale e non sostanziale (specifico subito, per i lettori più attenti tra voi, che, ai sensi dell’art. 8, comma 3, della L. 117/88, salve le ipotesi di reato e, quindi, di dolo, l’entità del risarcimento che il giudice dovrà pagare è limitato “al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità”. Tale parte della legge rimane invariata anche a seguito dell’emendamento).

2)      Se voi leggete le sentenze della Corte di giustizia, non si parla mai e, dico, mai, di azione per il risarcimento del danno derivante da violazione del diritto europeo contro il giudice, bensì di possibilità di ottenere un risarcimento dello Stato e, fra l’altro, solamente nel caso in cui la pronuncia che ha violato il diritto UE, sia stata emanata da una Corte di ultimo grado. Anzi, come abbiamo visto, la sentenza Köbler lo eslcude espressamente,

Questo il dato di partenza che il Legislatore aveva ed ha, non essendo la legge ancora passata in Senato, di fronte a sé. Certo è che non può lasciare la situazione com’è e che deve conformarsi alla pronuncia della Corte di giustizia. Il punto è come. Le opzioni possono essere molteplici le due più semplici sono:

1)  la scelta di scindere la responsabilità per danno al cittadino derivante da violazione del diritto UE da parte dello Stato, da quella della responsabilità civile del giudice. Ricordo che la responsabilità in questione dello Stato può derivare non solo da una pronuncia giurisdizionale, ma anche da una legge o un atto di natura amministrativa. Inoltre, come abbiamo visto, secondo la giurisprudenza europea, la responsabilità dello Stato sussiste solamente se la decisione provenga da un organo giurisdizionale di ultimo grado e non da qualsiasi giudice. Sarebbe logico regolamentare in maniera organica la questione, i casi e le modalità di risarcimento;

2)  la scelta di introdurre come forma ulteriore di negligenza inescusabile del Giudice ai sensi dell’art. 2 L. 117/88 i criteri indicati nella sentenza Köbler. Questa ipotesi, indubbiamente più facile da percorre, presenta degli obiettivi pericoli, laddove rischia di estendere pericolosamente le forme di colpa che possono determinare una responsabilità del giudice, con ciò minandone la serenità di giudizio.

Il Legislatore della Camera, con il comma 3bis dell’emendamento, apparentemente, sceglie la seconda opzione. Difatti, leggendo il testo della norma, ci accorgiamo che, al comma 3bis, riporta, nella sostanza, gli stessi criteri di cui ai punti 55 e 56 della sentenza Köbler. Dico, apparentemente, perché, in realtà, non è così. Difatti, il Legislatore non si accontenta di ciò ed introduce - o meglio vorrebbe introdurre - la possibilità di agire, in via diretta e non più mediata nei confronti del giudice nella parte in cui si dice che il danneggiato può agire contro lo stato ed il “soggetto riconosciuto colpevole”.

Riconosciuto colpevole?

E da chi?

E come?

Il bello è che il nostro Legislatore è perfino incapace di sbagliarle, le leggi. Come si fa ad agire contro un “soggetto colpevole” se prima non sia stata accertata la sua colpevolezza? E poi, se non si interviene anche sull’articolo 4 della legge 117/88, che vieta espressamente l’azione contro il magistrato, come si fa ad agire direttamente? E se prima di poter agire contro il colpevole, bisogna agire contro lo Stato, cosa cambia con l’inciso, visto che, una volta che si è stati risarciti non si potrà più agire contro il giudice, avendo perso il titolo? Misteri della fede padana… Insomma l’inciso in questione, lungi dal riuscire nell’intento dichiarato del promotore, rischia di perdersi sostanzialmente nelle brume della bassa lombarda.

Ma, non solo, è un’altra, in fondo, la parte più pericolosa, se leggiamo l’inciso “in violazione manifesta del diritto o”, ci accorgiamo che vi è una disgiuntiva che finisce con l’introdurre una terza ipotesi di responsabilità, una per dolo, una per colpa grave ed, appunto, una per violazione manifesta del diritto. Si arriva al paradosso, evidenziato dall’onorevole Buongiorno durante il dibattito in aula per cui il Giudice potrebbe addirittura rispondere in un caso in cui non vi sia colpa alcuna da parte sua. Insomma, il solito pasticcio, che non è utile analizzare ulteriormente in questa sede.

Come si vede, toccare questi delicati equilibri, può essere oltremodo pericoloso, come evidenziano gli stessi professori universitari, la maggioranza dei quali si è schierata apertamente contro l’emendamento ed, in generale, contro un’estensione della responsabilità del giudice. È, del resto, intuibile come il giudice esposto a responsabilità economica e disciplinare per ogni decisione che prenderà, non sarà sereno e, soprattutto, sceglierà, sempre, la via meno rischiosa, privilegiando, ad esempio, la parte economicamente forte e per lui più pericolosa, contro quella più debole.

Per capire la pericolosità di un simile intervento basta alzare lo sguardo e considerare che nessun paese europeo prevede la possibilità di agire direttamente contro il giudice e tutti paiono prevedere delle limitazioni nella sua responsabilità, nella maggior parte dei casi, addirittura più rigorose di quella italiana come si evince da questa analisi. E’ chiaro che non si tratta di fonte diretta, per cui è da prendere con beneficio d’inventario. Tuttavia, è sufficiente leggere quali sono le raccomandazioni del Consiglio d´Euuropa, che é la sintesi delle opinioni sul punto degli stati europei e che sancisce

22. It is not appropriate for a judge to be exposed, in respect of the purported exercise of judicial functions, to any personal liability, even by way of reimbursement of the state, except in a case of wilful default.

In Italia, purtroppo, anni di propaganda politica deleteria hanno lanciato il messaggio subliminale per cui l’indipendenza dal potere politico, l’inamovibilità e l’immunità per le decisioni prese, sono dei privilegi corporativi. Chiunque sia dotato di un minimo di buon senso e non sia in malafede, comprende, come viceversa, lo status del giudice come sopra delineato, ha la funzione di garantire l’eguaglianza di fronte alla legge e quindi, in ultima analisi, il cittadino, tanto che tutti gli stati liberali prevedono tutele di questo tipo, più o meno forti.

Non è lì che si annidano i privilegi corporativi della magistratura italiana. Il vero privilegio è un altro, questo sì unico in Europa, ed è quello della carriera economica scissa dalla funzione e responsabilità e, conseguentemente, dalla carriera automatica per anzianità. Il dramma è che la nostra classa dirigente, nemmeno quella -politicamente ostile alla magistratura - proprio non ci arriva. Basti pensare che, nel 2006, con un ministro della giustizia padano, si riformò l’ordinamento giudiziario, senza nemmeno provare ad intaccare il sistema della carriera automatica. La cosa non venne presa, nemmeno lontanamente, ipotizzata. Fra l’altro si tratta di un sistema di carriera ormai finanziariamente non più sostenibile.

Ed allora, é sulla carriera che si deve itervenire, e fare in modo che chi non merita non avanzi per anzianitá o, ancor peggio, faccia carriera grazie alla propria appartenenza correntizia.

E cosí torniamo al punto dal quale siamo partiti. Al caso Tortora. I due giudici protagonisti di quella gloriosa pagina dell’italica magistratura, hanno fatto delle brillantissime carriere, chi arrivando a guidare la Procura generale di Salerno, chi passando dal CSM , alla guida della Direzione direzione distrettuale Antimafia di Napoli

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Commenti

Ci sono 30 commenti

ottimo post. soprattutto spiega con chiarezza anche per i non adetti ai lavori. complimenti.

...Axel è un grandissimo!

Ok, comprendo la complessità della materia ma che dire in un caso del genere?

Qui ci sono esponsabilità gravi di carabinieri, guardie carcerarie e, mi pare, di giudici che non hanno indagato abbastanza, trascurando di approfondire ritrattazioni o strani suicidi in carcere. La responsabilità è individuale, leggo spesso. Tranne i casi di criminalità organizzata ed i reati associativi. Dovrebbe essere una sorta di caposaldo del diritto.
Ma se la responsabilità in un caso del genere fosse solo genericamente dello Stato, dovremmo configurare che lo Stato è, seppure in parte, un'associazione a delinquere?

Ed i responsabili come persone, non devono pagare?

Anche con il carcere?

Poi dalla veloce trattazione dell'articolo mi pare di capire che l'ergastolo sia stato dato in primo grado e solo per la successiva revisione ci sia stato un proscioglimento.

Questo esclude la possibilità di un risarcimento per 21 anni in carcere?

Anche io ero rimasto colpito dalla notizia, poco dopo aver letto il post di Axel. Credo però che dei distinguo siano necessari. Se la mettiamo così, lo sforzo di chi ha scritto il post (e quello di chi l'ha letto;D) rischiano di apparire vani...

Una cosa è che lo Stato debba risarcire. E mi pare giusto, a me uomo della strada, che sia lo Stato a farlo, indipendentemente dalle responsabilità delle persone che che possano aver agito "per suo conto" (giudici, carabinieri ecc...). Tra l'altro, mi pare importante osservare, qui si parla di 21 anni: un tempo inaccettabile per una sentenza in appello, e indipendentemente dal fatto che questa ribalti il risultato del primo grado. E responsabili di ciò direi che non siano nè il giudice di primo grado nè i carabinieri, no? E però, la normativa europea, spiega il post, si applica solo dopo la sentenza definitiva, o sbaglio? Questo problema è ben diverso rispetto all'oggetto del post.

Un'altra cosa sono "i responsabili come persone". E, anche qui, un distinguo è d'obbligo.

Una cosa sono i carabinieri che avrebbero torurato, seviziato, estorto confessioni fasulle, mentito... sono tutti reati, no? su cui, credo, se così sono andate le cose, ogni commento è superfluo. Ma anche questo, credo, ha poco a che fare con l'oggetto della discussione di Axel.

Un'altra cosa è il giudice che ha pronunciato la sentenza di primo grado. Lì entrano in ballo le distinzioni tra dolo, errore e le varie tipologie di "negligenza inescusabile"...

Ma se la responsabilità in un caso del genere fosse solo genericamente dello Stato, dovremmo configurare che lo Stato è, seppure in parte, un'associazione a delinquere?

perché? Di casi del genere, ovvero di errori guidiziari sono pieni tutti i sistemi, non solo il nostro. Secondo me questo caso, per quanto possa sembrare paradossale dimostra la coerenza del sistema, laddove ha comunque corretto un errore giudiziario. Tieni conto che l´errore comunque é passato attraverso una corte d´assise (almeno due giudici togati), una Corte d´assise d´appello, la Cassazione. Possibile che fossero tutti in colpa grave? Il punto é questo. L´importante é che, comunque, il sistema offra la possibilitá di revisione, cosa, ad esempio, non possibile in stati in cui vige la pena di morte.

 Ed i responsabili come persone, non devono pagare? 

Anche con il carcere?

Certo, che devono pagare, o meglio dovrebbero, solo che i fatti a loro addebitabili sono ampiamente prescritti.

Questo esclude la possibilità di un risarcimento per 21 anni in carcere?

No, per la detenzione ingiusta é previsto un apposito indennizzo.

Oggi, con l´attuale codice di procedura, confessioni estorte in questo modo non sono piú possibili, in quanto hanno valore probatorio solamente quelle rese in presenza di un avvocato e previo avviso che si ha la facoltá di non rispondere. Trovo la cosa sacrosanta, il caso in questione ne é  la prova piú evidente.



l’indipendenza del giudice non costituiva un particolare valore e, ciononostante, si stabilì egli fosse immune dalle conseguenze delle sue decisioni.

poichè la non indipendenza del giudice era a favore del potere politico forse questo più del giudice proteggeva se stesso.


un convenuto che, nel merito, magari era in torto, poteva paralizzare il processo in eterno, eliminando, ogni volta il giudice, non appena avesse preso qualsiasi decisione.

questo comportamento mi ricorda la possibilità per gli avvocati di rinunciare alla difesa senza che venga interrotto il decorrere dei tempi per la prescrizione per il periodo di sospensione del procedimento determinato da tale comportamento. Quando si ridarà alla prescrizione la sua funzione che in un anno di diritto alle superiori mi fu insegnato essere di evitare di aprire procedimenti, dopo tanto tempo dai fatti, quando gli eventuali testimoni non sono più disponibili. In questa prospettiva la prescrizione dovrebbe decorrere al massimo fino al rinvio a giudizio. Purtroppo principi del foro hanno più volte presentato in tv la prescrizione come un istituto premiale, addirittura ridotta per gli incensurati, per i quali è già prevista la riduzione della pena ma non l'impunità.

Tornando all'emendamento, prescindendo da un giudizio di merito sullo stesso, la cattiva fede dei suoi  sostenitori io l'ho vista nel fatto che per supportarlo nessuno abbia fatto esempi del suo utilizzo da parte dell'attore o della parte lesa: la legge sembra fatta solo per convenuti e imputati e chi la sostiene confessa implicitamente di essere sempre  dalla parte dei "mariuoli".

Alcune domande:

--- secondo i sostenitori dell'emendamento, dopo tre gradi di giudizio con esito identico contro quale dei tre (o almeno dei due che hanno giudicato nel merito) potrebbe essere diretta l'eventuale azione ? Non sarebbe debole sostenere che hanno sbagliato in tre ,indipendentemente e in tempi diversi?

--- nel caso di collegi giudicanti l'azione sarebbe diretta a tutti i componenti? E gli eventuali giudic popolari?

---  il pm puo anch'egli essere oggetto di azione risarcitoria (visto che si parla di responabilità del giudice)?

Con le idee poco chiare che circolano circa l'errore di un giudice, l'emendamento è inquietante. Ho sentito infatti  sostenere , da persone molto simili ai tifosi dell'emendamento e non al bar ma in dibattiti televisivi, che il giudice di primo grado  ha sbagliato poichè un condannato è stato poi assolto in appello (chissa chi avrebbe sbagliato, secondo loro, se fosse successo il contrario) o che il p.m. ha sbagliato poichè un imputato da lui inquisito è stato assolto; e senza che si rendano conto dell'inconsistenza logica di tali affermazioni. Se primo e secondo grado dovessero sempre avere lo stesso esito e se ogni rinviato a giudizio dovesse sempre essere condannato sarebbe inutile l'esistenza dell'appello e del processo.


 secondo i sostenitori dell'emendamento, dopo tre gradi di giudizio con esito identico contro quale dei tre (o almeno dei due che hanno giudicato nel merito) potrebbe essere diretta l'eventuale azione ? Non sarebbe debole sostenere che hanno sbagliato in tre ,indipendentemente e in tempi diversi?<o:p></o:p>

<o:p> </o:p>

Infatti, direi che hai centrato il problema. In ogni caso, di fronte a tre gradi di giudizio uniformi che, poniamo, non hanno visto un qualche elemento probatorio risultante dagli atti, dovrebbero rispondere tutti i giudici.<o:p></o:p>

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 nel caso di collegi giudicanti l'azione sarebbe diretta a tutti i componenti? <o:p></o:p>

<o:p> </o:p>

Tranne contro quelli che abbiano messo a verbale una c.d “dissenting opinion”, cosí come prevista e regolata dall´art. 16 della legge 117/88<o:p></o:p>

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E gli eventuali giudic popolari?<o:p></o:p>

<o:p> </o:p>

Sul punto ti rimando al comma 3 dell´art. 7 della legge 117/88, per cui:<o:p></o:p>

3. I giudici conciliatori e i giudici popolari rispondono soltanto in caso di dolo. I cittadini estraneialla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali rispondono incaso di dolo e nei casi di colpa grave di cui all'articolo 2, comma 3, lettere b) e c)<o:p></o:p>

<o:p> </o:p>

---  il pm puo anch'egli essere oggetto di azione risarcitoria (visto che si parla di responabilità del giudice)?<o:p></o:p>

<o:p> </o:p>

Secondo me sí, se con la sua condotta colposa ha contribuito ad indurre in errore il Giudice.<o:p></o:p>

<o:p> </o:p>

Se primo e secondo grado dovessero sempre avere lo stesso esito e se ogni rinviato a giudizio dovesse sempre essere condannato sarebbe inutile l'esistenza dell'appello e del processo.<o:p></o:p>

<o:p> </o:p>

Ineccepibile.  Aldo for President :-)<o:p></o:p>

non credo che sia stato un appello, piuttosto una revisione.

Ma non è questo il problema.

Partiamo dal presupposto che qui siamo tutti d'accordo nell'individuare questo caso come uno tipico di responsabilità dello Stato, nel senso che è palese che lo Stato ha sbagliato e deve risarcire il daneggiato.  Se cosi' non fosse, mi chiedo "what else?"

E non è solo lo Stato nel suo complesso ma ci sono anche precise responsabilità penali individuali (alcuni carabinieri o ex, guardie carcerarie).  Nessuno credo neghi queste responsabilità. E il magistrato? Alex ha citato dei casi. Potremmo usare questo per vedere come regono le varie tesi sulla responsabilità (personali) dei giudici?  Mettiamo che un simile caso tocchi a me. Messo dentro ingiustamente e pestato fino ad ammettere cio' che non ho fatto, appena ho l'occasione di parlare con il giudice ritratto e gli spiego delle torture. Con chi altro potrei parlare, dopo essere stato torturato dalle forze dell'ordine? Per me in quel momento lui è lo Stato e se mi sbatte le porte in faccia, non indagando e negandomi giustizia, ritengo (ma sono un normale cittadino, non un giurista) che lui sia in qualche modo responsabile. Perché altri forse avrebebro agito diversamente.

Allora come cittadino chiedo se oltre agli altri funzionari dello stato, esiste (o deve esistere) in linea di principio anche una responsabilità penale e/o civile del magistrato.

Parlo di una linea di principio, non dei mille cavilli in cui si agita il complesso e contorto diritto italiano.

Pare che avesse confessato (convinto dalle violenze): Il magistrato ha raccolto la confessione forse non poteva sapere delle violenze

Dall'articolo (ok, non è un atto giudiziario ma fino a prova contraria diamo per scontato che racconti le cose come sono veramente avvenute):

Dopo la chiamata di correità di Vesco, Giuseppe Gulotta fu arrestato e massacrato di botte per una notte intera. La mattina, dopo i calci, i pugni, le pistole puntate alla tempia, i colpi ai genitali e le bevute di acqua salata, avrebbe confessato qualunque cosa e firmò un documento in cui affermava di aver partecipato all'attacco alla caserma. Il giorno dopo, davanti al procuratore, Gulotta ritrattò tutto e provò a spiegare quello che gli era successo. Non venne mai creduto, neanche al processo che, nel 1990 lo condannò in via definitiva all'ergastolo.

Anche un altro (Vesco) ritrattò  denunciando torture e fu suicidato in carcere.

Possibile che nessuno tra PM e magistrati giudicanti abbia fatto 2+2 e che solo il pentimento di uno dei  veri colpevoli abbia portato alla verità?   

Ok, la giustizia, come tutte le cose umane non è perfetta e forse oggi siamo troppo abituati ai polizieschi tecnologici americani o ai vari "cold cases" pero' a me, da profano, una responsabilità dei magistrati che hanno trattato il caso appare chiara.

  Discutere di un problema di questa dimensione sulla base di un episodio di cronaca del quale si conosce ben poco, mi sembra una assurdità; vorrei ritornare agli aspetti generali, premettendo che la "responsabilità" da far valere in un giudizio civile sembra anche a me una cosa assurda (oltre che inefficiente).  Tuttavia, l'attuale legge è indifendibile: in funzione da poco meno di trenta anni ha individuato solo quattro casi di "responsabilità".  Mentre i casi di malagiustizia sono stati sicuramente più numerosi.

Per rendersene conto, basta leggere il libro "La legge siamo noi" di Stefano Zurlo.

  Dopo questa premessa, voglio aggiungere che la strada ragionevole è quella delle sanzioni amministrative, al momento non percorribile con la attuale configurazione del CSM (a questo proposito, il libro citato). E dirò sul tema una eresia: qualsiasi cosa sia scritta sulla Costituzione, l'aspetto disciplinare non può essere affidato a rappresentanti eletti dagli stessi che possono subire una censura. Si tratta di un corto circuito che non è pensabile:   quindi, oltre ad una separazione delle carriere - la posizione dei magistrati giudicanti è ben diversa da quella degli inquirenti - le commissioni disciplinari dovrebbero o avere maggioranze "laiche", o quanto meno non essere elettive. Andrebbe poi ripristinato l'avanzamento per concorsi interni, in modo tale che scrivendo sentenze sbagliate, qualcuno in grado di giudicare possa leggerle.

Così come era una volta,  infinitamente meglio di oggi.

 

Che l'emendamento, così come è stato formulato, sia un'idiozia lo ha spiegato ampiamente Axel ma il problema della responsabilità civile del magistrato nei confronti di un cittadino danneggiato è reale. Secondo la legge Vassali del 1988, ad esempio, il risarcimento può essere reclamato, a determinate condizioni, solo in caso di “ingiusta detenzione” ma non di “ingiusta imputazione” come ribadito dalla Corte di Cassazione con la Sentenza No. 11251 del 17 gennaio 2008. Ciò significa che chi viene ingiustamente accusato di un reato e sottoposto a processo in un calvario giudiziario che può durare anni e che sia eventualmente costretto ad ipotecare anche la propria casa per pagarsi le spese legali, in caso di assoluzione piena e definitiva non solo non ha diritto ad alcun risarcimento, ma non gli viene  neanche riconosciuto l’elementare diritto al rimborso delle spese sostenute per difendersi. Non vi sembra giusto che tali spese vengano addebitate al PM che lo ha ingiustamente portato alla sbarra? Si insiste nel parlare di responsabilità civile dei giudici mentre si dovrebbe parlare di quella del magistrato che rappresenta la pubblica accusa. Quale responsabilità si può attribuire al Giudice se il PM porta, ad esempio, prove false o fuorvianti? Assolutamente nessuna. Se è vero, come è vero, che l'Art. 3 della Costituzione stabilisce che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, per quale motivo i magistrati hanno diritto ad una zona franca? Il medico, ad esempio, sottoscrive una polizza assicurativa che lo copre finanziariamente da eventuali azioni risarcitorie promosse dal paziente nel caso in cui si dimostri che ha arrecato, per negligenza o scarsa professionalità, un danno al paziente stesso. Lo stesso discorso vale per l'ingegnere o l'architetto. Non vedo perchè non possa fare altrettanto anche il magistrato che ha in mano il destino e in qualche caso anche la vita di un accusato. Il principio che chi sbaglia paga va applicato nei confronti di tutti, nessuno esluso. Se poi diamo uno sguardo all'evidenza storica, scopriamo che la Legge Vassalli del 1988, come ha spiegato Axel, prevede an'azione di rivalsa da parte dello Stato, nei confronti del magistrato che ha sbagliato. Questa azione di rivalsa deve essere promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Ebbene, dal 1988 ad oggi non ne è stata mai promossa neanche una, nonostante lo Stato ne abbia pagati migliaia. La verità è che il legislatore italiano è oggettivamente incapace di mettere mano ad una materia che prevederebbe un rifacimento totale sia dei codici che delle norme di procedura sia civile che penale. Una vera riforma della Giustizia in Italia molto probabilmente non la vedranno neanche i nostri pronipoti!             

 
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Dimenticavo una cosa.

Parliamo del tuo esempio, del PM che sercita l´azione penale e poi l´imputato viene assolto. Il PM deve pagargli un risarcimento.

Secondo te chi me lo fa fare di fare un processo ad un pezzo grosso? Chi glielo fa fare al collega milanese che ha rinviato a giudizio Berlusconi, se poi deve pagare la parcella di Ghedini?

A quel punto faccio il processo solamente a nomadi ed extracomunitari, cosí non rischio niente. E´questa l´eguaglianza di fronte alla legge?

E poi, prova ad immaginare un PM che, nel processo, si accorge che le prove non reggono. Attualmente e nel sistema italiano, chiederá l´assoluzione. Se trova elementi a favore dell´imputato, ha l´obbligo di portarli davanti al giudice. Se deva aver paura di dover pagare, allora lotterá fino alla morte per ottenere la condanna anche se sa che l´imputato é innocente.

Prova d immaginare un sistema del genere. Lo vorresti tu?

E poi se ha sbagliato il giudce ad assolvere, come la mettiamo? 

chiedo scusa, ma trovo alcune affermazioni francamente sconfortanti.

Tipo quella dell´assicurazione.

Siamo assicurati, state tranquilli. Certo, considerato il rischio basso, il premio é basso. Fin´ora é stato un ottimo affare per l´assicurazione.

Ma io mi domando, come é possibile che tutti, dico tutti, i sistemi limitano la responsabilitá e solo noi in Italia dovremmo invece introdurla? 

Qual´é la peculiaritá italiana? Qualcuno me lo spiega per favore?

Ho cercato di dirlo nell´articolo dove sta l´anomalia tutta italiana. Sta nel sistema di carriera per cui, sostanzialmente tutti, arrivano, dopo esattamente 28 anni, a prendere uno stipendio di un presidente di cassazione. Quello é il punto ed il problema italiano. Chi é incapace o lavativo non deve fare carriera e ció é possibile solamente se si introduce una forma di vera selezione.

Non condivido, a tal fine, il sistema dei concorsi, suggerito da Rosario Nicoletti, perché privilegia lo studio teorico sul lavoro, concreto, ed é addirittura un incentivo ad evitare il lavoro. Sbalgiato il metodo, giusto l ´obiettivo.  Né vedo cosa c´entri la separazione delle carriere (dico subito che, personalmente, rimanendo nella proposta della bicamerale, non sarei, di per sé contrario, ma anche qui, specie le camere penali, fanno della volgare strumentalizzazione, parlando di privilegio corporativo che la magistratura vuole tutelare. Quale sarebbe questo privilegio, anche qui, qualcuno me lo potrebbe spiegare?).

   Temo che Axel Bisignano sia troppo giovane per ricordare come si svolgevano i concorsi "interni" della Magistratura, poi aboliti con legge ordinaria, su pressione dell'ANM. Venivano esaminate le sentenze e questo era il materiale sul quale si giudicava. Non vedo che cosa c'entri la teoria e la pratica: leggendo le sentenze - od i rinvii a giudizio - si capisce benissimo se l'autore è preparato e conosce il suo lavoro.   La separazione delle carriere è un fatto di civiltà giuridica:  il ruolo di chi giudica è del tutto diverso dal ruolo di chi accusa. E' assurdo che si viva sotto lo stesso tetto, si salti con disinvoltura da un ruolo all'altro. Anche le responsabilità sono differenti: un PM può fare molti più danni di un magistrato giudicante, esistendo i collegi, i diversi gradi di giudizio. Ed un PM che impianta più procedimenti che si risolvono in nulla,se non in danni per gli inquisiti, dovrebbe essere allontanato dall'ufficio, cosa che NON ACCADE in alcun caso.

Secondo me la peculiarità, che non so se sia solo italiana, risiede nella modalita' di gestione dei procedimenti disciplinari da parte del CSM, che dovrebbe fare da argine a queste proposte. Il numero di ricorsi accolti dal CSM si attesta su valori inferiori al 10% di quelli presentati, e le sanzioni inflitte sembrano essere spesso molto lievi, anche a fronte di fatti e circostanze che hanno una certa gravità (evito citazioni, ma c’è più di un libro dove vengono riportati casi concreti, e sinceramente più di un dubbio sorge). Tutto si risolverebbe se effettivamente venisse svolto questo compito in maniera un poco più trasparente e rigorosa, per non correre il rischio che la dovuta e necessaria indipendenza si trasformi per alcuni, e in alcuni casi, in irresponsabilità. Perché, invece, ogni volta che si solleva questo tema, la risposta è sempre di netta chiusura, e non si propone di modificare la gestione dei procedimenti disciplinari (cosa che ad esempio aveva chiesto Prodi, come ministro della giustizia, nel 2008 durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario)? Come detto è fondamentale, sacrosanta e benedetta l’indipendenza della magistratura, ma non ci si può dimenticare che chi accusa e giudica ha un potere enorme di incidere sulla vita, la libertà e sui patrimoni delle persone, e quindi in questo caso è necessario che il sistema si autoregolamenti in maniera rigida, rigorosa e trasparente, altrimenti si corre il rischio che vengano avanzate proposte come questa che possono rivelarsi dannose.

COme si fa a rimanere fiduciosi nella giustizia quando ci sono giudici militanti ed orgogliosi di esserlo? Non ritieni che la norma eccezzionale che ci sarebbe solo in Italia, sia anche dovuta alla presenza di giudici che dichiarano apertamente e senza remore al congresso di un partito politico che le loro decisioni sono viziate da pregiudizi? E non e' un caso isolato, anche qui a Bologna abbiamo avuto un giudice che ha seguito processi molto importanti che, costretto a dimettersi per evitare una sanzione disciplinare, ha avuto un'offerta di entrare in giunta il giorno prima delle dimissioni? Come si pososno evitare i giudici con una "missione" e difendere i cittadini da questi personaggi?

attenzione, leggiamo cosa ha detto Ingroia.

Si è limitato a dire che è "un partigiano della costituzione", affermazione, in sè, assolutamente banale. Da ciò non si può trarre la conclusione che sia un giudice "militante".

Il problema era costituito dal contesto, ovvero un congresso di partito e, in particolare un partito della sinistra estrema.

Ingroia, in linea teorica, poteva essere anche un semplice ospite, con orientamenti diversi da quelli dei partecipanti.

Tutti noi abbiamo un' opinione ed una cultura retrostante. Ci sono giudici sinistroidi come ci sono quelli destroidi. 

Le domande che si pongono sono:

1) possono i magistrati esprimere liberamente la loro opinione?

2) possono riunirsi in una corrente che, oltre a proporre questioni di natura giuridica, fanno anche delle proposte di natura "politica" e "di sinistra" (MD)?

3) possono esser vicini ad un partito politico senza esservi iscritti?

4) E qui ti faccio un'altra domanda, perchè se un giudice è vicino a rifondazione comunista è militante e se è vicino al PDL no?

5) Ed un'ulteriore domanda. Perchè io non sono militante se scrivo su questo sito?

Di questi problemi ne abbimo discusso su nFA due anni fa senza arrivare ad una soluzione condivisa. 

Personalmente, sono del parere che si debba propugnare la coerenza del sistema. Attualmente, il sistema non è coerente.

Un magistrato italiano, ad esempio, non può essere iscritto, per costituzione, ad un partito politico, ma può, tranquillamente, essere eletto e, quindi, assumere una colorazione politica e, successivamente, ritornare a fare il giudice.

Un magistrato tedesco, viceversa, può, tranquillamente, avere in tasca una tessera di partito senza che nessuno si scandalizzi. Questione di punti di vista.

Personalmente preferisco che il magistrato stia lontano dalla politica, ferma restando, tuttavia, la libertà di opinione. 

Il giudice "militante". Suppoiniamo che Ingroia non avesse fatto quelle affermazioni. Continuerebbe ad essere militante, avendo (ipotizzo) delle opinioni fortemente "di sinsitra" solo non espresse?

Ed, in caso affermativo. Cosa dovremmo fare? Espellerlo dall'ordine giudiziario perchè non ne condividiamo le idee?

La cosa più importante è che Ingroia rispetti la legge. Purtroppo, anche questo aspetto, dopo venti anni di una certa propaganda si è perso di vista. Il magistrato, al di là delle sue opinioni politiche, è chiamato a giudicare dei fatti, applicando delle regole giuridiche che sono scritte nelle leggi. Se non le condivide deve rivolgersi alla Corte costituzionale e, se questa gli dà torto, deve applicare le regole e basta. Questo fanno anche i colleghi cosiddetti "militanti". Se non lo fanno, commettono degli abusi, per i quali vanno sanzionati. Ma la cosa deve essere dimostrata. Non si può prescindere dal fatto contestato e dire: "sono un perseguitato politico". Se ciò fosse se ne dovrebbero fornire le prove.

Nitto Palma, Mantovano, Papa, nella vita precedente, erano magistrati militanti? 

Detta brutalmente, ma che dire del fatto che vi sono dei giudici in posizioni chiave manifestamente in forza alla mafia? Parlo di Aldo Grassi, allievo del famoso Corrado Carnevale. Intoccabili per solidarietà di casta?

Da: Il Fatto Quotidiano14 marzo 2012 Sant’Iddio, la memoria. Che cosa è non averla…Ma davvero vi pare così strano che una corte presieduta in Cassazione da l giudice Aldo Grassi abbia annullato la sentenza d’appello su Marcello Dell’Utri e abbia sconfessato il concorso esterno in associazione mafiosa? E allora sentite questa storia. C’era la Sicilia degli anni ottanta. E c’era la mafia, naturalmente. Forte, fortissima a Palermo, che era da sempre casa sua. Meno potente ma ormai in crescita a Catania, dove aveva rapporti strettissimi con i maggiori imprenditori locali, chiamati “Cavalieri del lavoro”, anche se la parola d’ordine era che la mafia non vi esistesse. A Palermo però stava affiorando una magistratura nuova. Non solo non complice, ma addirittura intenzionata a imporre ai clan il rispetto delle leggi. Per questo i giudici vi venivano uccisi, anche ai livelli più alti. Il capo ufficio istruzione Cesare Terranova (1979), il procuratore capo Gaetano Costa (1980) e di nuovo il capo ufficio istruzione Rocco Chinnici (1983). E dietro di loro cresceva il prestigio e l’influenza di altri magistrati più giovani, due dei quali si chiamavano Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Quest’ultimo soprattutto mostrava, oltre a grandi capacità investigative, una spiccata propensione a parlare di dottrina, a proporre cambiamenti nei codici, nella giurisprudenza e nell’ordinamento giudiziario per rendere la lotta alla mafia cosa efficace. Si faceva spiegare Cosa nostra da grandi boss, giungeva perfino a colpire i piani più alti del livello economico-finanziario dell’isola, come i cugini Nino e Ignazio Salvo. A Catania invece tutto questo non c’era. A Palermo il prefetto veniva ucciso, a Catania il prefetto presenziava sorridente all’inaugurazione del salone automobilistico del boss Nitto Santapaola. A Catania funzionava un blocco di potere granitico alimentato dai soldi dei Cavalieri. Economia, burocrazie, partiti, intellettuali, giornali. E giustizia. Una giustizia solerte a insabbiare, a proteggere. Un giornalista, si chiamava Pippo Fava, denunciò con vigore questo blocco di potere. Venne ucciso all’inizio del 1984. Ma lo scandalo cresceva, era davvero impossibile non vedere che mondo si fosse costruito intorno ai soldi dei Cavalieri e ai loro rapporti con la mafia cittadina. Li aveva chiamati in causa il prefetto dalla Chiesa. E sulle loro fatturazioni false, specie quelle del Cavaliere Rendo, si indagava ovunque: a Palermo, a Siracusa, anche ad Agrigento, dove c’era un giudice ragazzino, si chiamava Rosario Livatino (anche lui sarebbe stato ucciso anni dopo), che faceva da solo quel che tutto il palazzo di giustizia di Catania (“oberato”, naturalmente) non faceva. Poi si insospettirono anche la Guardia di Finanza e la questura catanesi, e i Cavalieri pensarono di rimediare premendo sui Palazzi romani per fare traferire il questore. Fatto sta che per capire che cosa stesse succedendo in quel Palazzo di giustizia arrivarono gli ispettori ministeriali. Che con 3.252 pagine di allegati dissero e scrissero quello che il povero Fava aveva gridato con quanto fiato aveva in gola. Sulla giustizia catanese c’era un macigno che bloccava tutto. E questo macigno aveva dei nomi. Il primo era quello del procuratore capo Giulio Cesare Di Natale. Il secondo era quello di un suo sostituto, si chiamava Aldo Grassi, che il professor D’Urso, integerrimo architetto che denunciava le omissioni dei giudici sugli scempi urbanistici dei Cavalieri, aveva soprannominato “Beddi capeddi” (“Bei capelli”). Gli ispettori mossero al dottor Grassi una quantità sterminata di addebiti. Di ritardi nella trattazione del processo per l’omicidio del procuratore Costa. Di avere accumulato lentezze intollerabili e a loro avviso sospette nei procedimenti a carico dei Cavalieri. Di lui scrissero: “evidenzia una linea direttiva preordinata ad accantonare le denunzie contro i grandi costruttori per fatturazioni per operazioni inesistenti”. E, a proposito di un procedimento a carico della famiglia del Cavaliere Rendo: “consegue la sicura censurabilità dell’anzidetta stasi processuale a carico del Dott.Grassi”. Lo rimproverarono anche di non avere avvisato di trovarsi in conflitto di interessi nel trattare procedimenti nei confronti del Cavalieri Carmelo Costanzo, essendo inquilino di una casa di proprietà di una società del costruttore. Al termine del loro rapporto gli ispettori scrissero: “Nella specie, quindi, non sussistono soltanto comportamenti, riconducibili a magistrati, tali da offuscarne la credibilità, sufficienti ai fini della sussistenza della incompatibilità ambientale, ma sono emerse accuse (collegate a fatti in parte fondati) di collusioni o comunque di rapporti ambigui, di insabbiamenti, di inerzie, di negligenze o di compiacenze nei confronti di quel nuovo, e non meno pericoloso, tipo di delinquenza che è la criminalità economica”. E ancora: “Deve con certezza ritenersi che lo svolgimento delle funzioni requirenti da parte dei d.ri Di Natale e Grassi sia stato offuscato da sospetti, critiche, accuse che infirmano in modo grave la loro credibilità e che sono state, tra l’altro, in gran parte confermate da quanto è stato accertato nella presente inchiesta”. Grassi venne anche accusato di avere chiesto contributi alla famiglia del Cavaliere Rendo per finanziare un convegno di Magistratura Indipendente. Gli ispettori conclusero di “potere stabilire con assoluta certezza” per Di Natale e Grassi la sussistenza “delle condizioni di incompatibilità ambientali”. Grassi chiese a quel punto il trasferimento a Messina. Il ministro provvide per Di Natale con azione disciplinare. Intanto a Palermo Falcone accumulava il materiale per il maxiprocesso. Che lo avrebbe portato a convincersi che occorreva colpire il concorso esterno in associazione mafiosa: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono -eventualmente- realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili -a titolo concorsuale- nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso[…] che costituisce una della cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, della difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali” (dalla sentenza-ordinanza conclusiva del maxiprocesso ter, luglio 1987). Poteva mai condividere queste parole il dottor Grassi giunto in Cassazione a giudicare Marcello Dell’Utri? P.S. Quanto ai procuratori generali in Cassazione, non sempre fanno testo. Ce ne fu uno, Tito Parlatore, che negli anni sessanta, al processo contro gli imputati dell’assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale difesi dal futuro presidente della Repubblica ed ex capo del governo Giovanni Leone (e assolti per insufficienza di prove), tuonò che la mafia non era materia per tribunali ma materia “per conferenze”. Erano già stati uccisi quaranta sindacalisti, e c’erano state le stragi di Portella delle Ginestre e di Ciaculli…