Protezione dell’occupazione: cosa sappiamo e cosa no. Parte 1: teoria

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Seconda puntata della serie inaugurata dal post di Pica e Leonardi. La battaglia a quattro tra governo, parlamento, sindacati dei lavoratori e sindacati degli imprenditori è già incandescente e in parte ideologizzata. È utile quindi riassumere quello che sappiamo dalla teoria economica e dall’evidenza empirica circa gli effetti della legislazione sulla protezione dell’occupazione. Si tratta di un’area di ricerca molto attiva e molto affollata, per cui ci limiteremo a degli highlights a beneficio dei non specialisti. In questo primo post iniziamo con la teoria. Seguirà nei prossimi giorni il post con l'evidenza.

1. Premessa, definizioni e un chiarimento.

Il governo Monti ha promesso che quella del mercato del lavoro sarà la prossima grande riforma per tentare di rianimare il paese, e che sarà pronta entro marzo (in questo post facciamo finta di crederci nonostante quello che sta succedendo in questi giorni con la riforma precedente, quella  che avrebbero dovuto essere delle liberalizzazioni). Si tratterebbe del più importante tentativo di trasformazione dell’intero mercato del lavoro italiano degli ultimi 40 anni, da quando cioè fu introdotto lo statuto dei lavoratori. La trasformazione di 15 anni fa (correva l’anno 1997 e il primo governo Prodi varò il pacchetto Treu segnando l’inizio della propria fine un anno più tardi) operò una riforma parziale. Se è vero che la riforma Treu (e il suo proseguimento, la “legge Biagi”) aumentò la flessibilità del mercato del lavoro, lo fece al costo di accentuare quel sistema duale le cui nefaste conseguenze sono oggi parte del problema cui occurre porre rimedio. Questo, ovviamente, per non intaccare gli insiders.

Protezione del'occupazione. Cominciamo con le definizioni. La protezione legale dell’occupazione consiste di norme che restringono o rendono costosa la possibilità di licenziare un lavoratore. Secondo la classificazione dell’OCSE esse consistono in: notifica del licenziamento con x settimane di anticipo, pagamento di un indennizzo al lavoratore licenziato pari a y settimane di stipendio, compensazione o reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa, limitazioni temporali al periodo di prova o alla durata e all’utilizzo dei contratti a tempo determinato, regolamentazione delle agenzie di lavoro temporaneo, procedure per i licenziamenti collettivi. Tutti i paesi avanzati utilizzano una combinazione di queste norme, come riassunto nel documento OCSE appena citato. Nel post di Pica e Leonardi è ricostruita e commentata l’evoluzione delle norme in materia di licenziamenti in Italia.

In Italia, l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori non è l’unica forma di protezione dell’occupazione, ma è la principale per aziende con più di 15 lavoratori. In sostanza, esso sancisce l’obbligo di risarcimento e reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore che sia stato licenziato senza “giusta causa.” Il giudice, in linea di principio, sancisce l’assenza della giusta causa ogni volta che il lavoratore licenziato non abbia commesso qualcosa che comprometta il rapporto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro. In realtà però il vincolo della giusta causa  è necessariamente ambiguo e lasciato all’interpretazione discrezionale del giudice. Di conseguenza, al datore di lavoro che voglia licenziare un lavoratore è imposto anche un costo  - il reintegro in caso il giudice ritenga assente la “giusta causa”.  Il costo è aleatorio (chissà cosa decide il giudice) e dipendente dal funzionamento del sistema giudiziario - più inefficiente il sistema (ad esempio, più lunga è la causa) più alto è il costo atteso. Questo è inefficiente, perché il costo pesa sulle imprese ma senza realmente beneficiare il lavoratore, che anzi è anch’egli sottoposto all’alea dovuta all’arbitrarietà e alla discrezionalità del giudice.

Abbiamo parlato (e parleremo sotto) di protezione dell'occupazione, intendendo protezione del posto di lavoro. Questa cosa è molto diversa dalla protezione del lavoratore, una distinzione che è tanto importante quanto intorbidita nel dibattito sulla riforma dell'articolo 18. Quest'ultimo, laddove si applichi, protegge il posto di lavoro (vedi sopra) ma non il lavoratore licenziato con giusta causa o per licenziamento collettivo, che in Italia è lasciato in balia di un sistema di ammortizzatori sociali del tutto inadeguato. La riforma prospettata dal governo Monti trasformerebbe la protezione di cui godono oggi alcuni posti di lavoro in protezione (parziale) per tutti i lavoratori. Torneremo su questa distinzione alla fine del post. Per il momento il lettore deve tenere bene a mente che stiamo parlando degli effetti di proteggere il posto di lavoro. Iniziamo subito.

2. Cosa sappiamo dalla teoria

Da un punto di vista teorico il funzionamento di qualunque meccanismo di protezione legale dell'occupazione è, in prima battuta, semplice da caratterizzare.

Un primo modello. Iniziamo da una economia  in cui le imprese competono in un mercato perfettamente concorrenziale per i propri prodotti. Il salario è invece determinato dalla contrattazione collettiva - che non discutiamo né caratterizziamo se non per dire che sarà più alto del salario concorrenziale.
In questo caso:

  1. Dato un numero di occupati oggi, una maggiore protezione dell’occupazione riduce il numero di lavoratori che perdono il lavoro domani. O direttamente perché è vietato licenziare o indirettamente perché l’impresa licenzierà meno se è più costoso farlo.
  2. In entrambi i casi, a parità di salario il costo di assumere un lavoratore oggi sarà più alto per le imprese, perché esse si accollano il rischio di dover occupare domani lavoratori che ex post potrebbero non voler occupare e/o perché sostengono i maggiori costi attesi di licenziare domani questi lavoratori.
  3. La domanda di lavoro da parte delle imprese domani si riduce se la protezione dell’occupazione si traduce effettivamente in un maggiore costo del lavoro; cioè se i salari non sono ridotti in proporzione.

L’effetto sull’occupazione domani, quindi, non è determinato. A parità di salario le imprese licenziano meno ma anche assumono meno. Idem per disoccupazione e salari. Se nulla possiamo dire riguardo a quello che succede domani all’occupazione e alla disoccupazione possiamo però proiettare l’analisi ad un’economia stazionaria, una specie di lungo periodo in cui le imprese abbiano operato tutti i riaggiustamenti di capitale e lavoro resi necessari dall’ipotetico aumento dei livelli di protezione del lavoro. In questo stato stazionario, ogni lavoratore che va in pensione è sostituito da un nuovo assunto. Un’astrazione, naturalmente, che ci serve a valutare gli effetti nel medio periodo dell’introduzione di nuove forme di protezione dei lavoratori. Questa è l’economia che è bene avere in mente quando si confrontano paesi caratterizzati, tradizionalmente, da diversi livelli di protezione dei lavoratori - Italia e Grecia vs. Stati Uniti e Regno Unito, ad esempio.

In un’economia stazionaria maggiori protezioni a salari invariati sono quindi associate a minore occupazione. In questa economia, infatti, l’occupazione è determinata esclusivamente da quanto le imprese assumono a dati livelli di  protezione.  In altre parole, gli effetti dell’aumento dei livelli di protezione si esauriscono nel corso del processo di aggiustamento, quando l’ultimo lavoratore che l’impresa non vuole sostituire con un nuovo assunto sia andato in pensione.

Riassumendo con parole diverse, un aumento della protezione del lavoro aumenta i costi dell’impresa a parità di salario e quindi, in stato stazionario, dopo i necessari riaggiustamenti: o i salari scendono per compensare il costo della protezione o scende la domanda di lavoro da parte dell’impresa (e quindi l’occupazione - tutti vogliono lavorare nella nostra semplice economia, nessuno che esca dalla forza lavoro per il momento). Tipicamente, scenderanno i salari, ma non abbastanza da compensare il costo (a cosa servono sennò i sindacati?) e quindi scenderà anche l’occupazione. Oppure, se volete una storia senza sindacati, lo slittamento verso il basso della curva di domanda di lavoro da parte delle imprese farà sì che il nuovo punto di incontro con la curva di offerta di lavoro (che ha pendenza positiva) sia a un punto in cui sia il salario sia l'occupazione sono più bassi. È anche importante notare che i costi per le imprese  di un aumento della protezione del lavoro tenderanno a  essere maggiori dei vantaggi per i lavoratori perché una parte dei vantaggi va alla burocrazia che garantisce la protezione, inclusi sindacalisti, giudici, avvocati.

In questa economia stazionaria, quindi, più alta è la protezione, minore la domanda di lavoro da parte dell’impresa e, ceteris paribus, minore l’occupazione e minore il salario.

Eterogeneità.
Questa prima analisi teorica degli effetti dei meccanismi di protezione dei lavoratori è valida, appunto, solo in prima battuta. Per capire bene quale sia l’effetto teorico di queste norme è necessario riconoscere che il mercato del lavoro non è un mercato concorrenziale qualunque, come quelli in cui si scambiano mandarini e mele. Le mele e i mandarini (di un dato tipo, per esempio renette del trentino), infatti, sono beni omogenei la cui qualità è facilmente verificabile. I servizi forniti da un lavoratore e i posti di lavoro offerti dalle imprese, al contrario, sono eterogenei (ogni lavoratore è diverso da un altro per caratteristiche ed abilità e ogni posto di lavoro è diverso da un altro per condizioni di lavoro e mansioni).

Con imprese e lavoratori eterogenei c’è un’altra ragione perché un aumento della protezione del lavoratore generi inefficienze. Supponiamo (l’ipotesi è ragionevole) che le decisioni di assunzione e di licenziamento siano dovute a un calcolo di produttività. Le imprese assumono un lavoratore sulla base della sua produttività attesa, date cioè le sue caratteristiche osservabili (livello di istruzione, conoscenza delle lingue, ecc.). Nel corso del rapporto di lavoro alcune delle caratteristiche del lavoratore che non sono facilmente osservabili ex ante ma che hanno un effetto potenzialmente importante sulla sua produttività (ad esempio serietà, disponibilità al lavoro straordinario, propensioni e attitudini psicologiche varie, ecc.) vengono rivelate.  Alcune di queste caratteristiche non osservabili sono di particolare importanza per alcune imprese e non altre (ad esempio, in alcune imprese è importante essere socievoli, perché il lavoro è lavoro di gruppo; in altre meno). Le imprese vincolate dalla legislazione a protezione dell’occupazione, in generale, potrebbero voler licenziare per due ragioni: i) per chiudere o ridurre la produzione perché sono inefficienti, ii) per sostituire il lavoratore la cui produttività è ora rivelata con uno che ci si aspetta essere più produttivo, viste le caratteristiche di quello assunto in precedenza e le caratteristiche osservabili dei lavoratori disponibili sul mercato del lavoro. Questo significa che l’impossibilità di licenziare riduce la produttività media del lavoro nell’economia, perché i) i lavoratori protetti non hanno interesse ad essere efficienti ex post; ii) i lavoratori non sono in generale assegnati alle imprese la cui produttività più dipende dalle loro caratteristiche; iii) le imprese inefficienti non sono sostituite da altre potenzialmente più efficienti. In altre parole, la produttività del lavoro è più bassa in un’economia ad alte protezioni. Questo è importante perché, contrattazione collettiva o meno, sindacati o non sindacati, in uno stato stazionario, se le imprese sono competitive e a parità di altre condizioni, il salario tende a essere uguale alla produttività.  Se i mercati in cui operano le imprese non sono concorrenziali allora l’effetto sul salario diventa incerto: conta non solo la produttività ma anche il potere contrattuale dei lavoratori nella contrattazione collettiva,  che è maggiore quando l’occupazione è protetta.

Un sistema duale.
Fin qui abbiamo assunto che la protezione dell’occupazione si applicasse a tutti i lavoratori. In realtà sappiamo che in molti mercati del lavoro (tra cui quello italiano) si è introdotta flessibilità creando un sistema duale in cui un gruppo di lavoratori è protetto dal licenziamento e un altro no. Questo secondo gruppo è noto come “i precari”. In questo caso, partendo da un regime di protezione per tutti, segue dall’analisi sopra che le imprese assumeranno più lavoratori attraverso il canale precario, e che questi saranno i primi ad essere licenziati a fronte di shock negativi, anche se fossero più produttivi dei protetti. In altre parole, i lavoratori precari vengono utilizzati per creare un margine di flessibilità in un sistema altrimenti rigido. Inoltre, man mano che i protetti si ritirano dalla forza lavoro le imprese tenderanno a sostituirli con precari. Anche qui è utile ragionare in termini di economia stazionaria: finiti gli aggiustamenti in un’economia osserveremo tutti lavoratori precari? È possibile. Ma è possibile (probabile, diremmo) anche che almeno ad alcuni lavoratori siano offerte protezioni, cioè che si abbiano un mix di precari e protetti in stato stazionario.

Concentriamoci sul secondo caso: qui l’eterogeneità di cui parlavamo sopra è cruciale: se tutti i lavoratori fossero uguali non osserveremmo un mix di precari e protetti, ma avremmo davvero tutti precari. Ma il punto da non dimenticare, a questo proposito, è che le imprese per alcuni tipi di lavoro e con alcuni lavoratori possono avere interesse ad investire nel capitale umano specifico all’impresa dei lavoratori stessi. Queste sono un misto di cognizioni tecnologiche e sociali (come funziona quella particolare macchina, quali sono i pregi e i difetti nascosti del prodotto dell’impresa, come parlare a quel particolare dirigente, o quel particolare cliente, chi chiamare quando si rompe un computer...). In questo caso, contratti precari non sono appropriati, perché soggetti a restrizioni varie nella durata e nel rinnovo. E quindi, per quanto la protezione del lavoratori costi, le imprese possono preferire questa a un contratto precario per un numero limitato di posti di lavoro. Ma è chiaro che questo tipo di posti “non-precari” saranno minori in stato stazionario maggiore siano le protezioni; cioè le imprese cercheranno di strutturare le proprie operazioni produttive ed amministrative il più possibile attorno a lavori che possano essere offerti a precari. A chi poi offriranno i (relativamente pochi) posti non precari, le imprese, dipende da condizioni varie ed eterogenee, ma è naturale teorizzare  che tenderanno a farlo con lavoratori maturi (di esperienza, che abbiano lavorato già magari in forma precaria nell’impresa e che abbiano quindi già rivelato la propria produttività non-osservabile nell’impresa stessa), maggiormente istruiti, e soprattutto a lavoratori che abbiano relativamente poca mobilità tra imprese e dentro e fuori dal mercato del lavoro (e qui cascano le donne). Insomma, la teoria suggersice, tagliando con l’accetta,  che siano giovani e donne a fare i precari, anche in stato stazionario.

Nel sistema duale con mix protetti/precari in equilibrio, quindi, l’occupazione è maggiore ma anche più volatile, e selettivamente tale: è il cuscinetto di precari a contrarsi ed espandersi. Per quanto riguarda l’accumulazione di capitale umano specifico all’impresa, ciò implica che per i lavoratori precari questo capitale viene continuamente distrutto e quindi viene meno l’incentivo ad accumularlo in primo luogo, come dicevamo. Questo, a sua volta, esercita una pressione verso il basso sul salario dei precari, perché questo è il “rendimento” del capitale umano. Ma cosa succede ai salari, in generale, in questo sistema duale? Difficile dirlo, perché ci sono più forze che spingono in direzioni diverse. Per esempio, l’occupazione flessibile è meno costosa per l’impresa (nel senso discusso sopra) e questo spinge nella direzione di far diminuire il rapporto tra salario protetto e salario precario. Prendiamo due lavoratori identici, uno protetto e uno precario (senza chiederci perché se sono identici sono protetto uno e precario l’altro): il salario del secondo deve essere maggiore perché per l’impresa il costo di licenziarlo in futuro è più basso. Se poi i due lavoratori sono avversi al rischio c’è un altro motivo per cui il salario del precario deve essere maggiore: questo si assume maggiore rischio accettando l’occupazione precaria. Tuttavia, lavoratori protetti e precari non sono identici: nell’economia stazionaria con mix protetti/precari i secondi hanno probabilmente più bassa produttività e/o piu’ basso capitale umano specifico all’impresa, e questo spinge in alto il rapporto tra salario protetto e salario precario. Inoltre, se i salari si determinano mediante contrattazione (ossia, le imprese operano in mercati dei prodotti non concorrenziali per cui esiste un surplus di profitti da oligopolio/monopolio da spartire tra capitale e lavoro), i lavoratori protetti hanno maggiore potere contrattuale di quelli precari, e anche questo spinge il rapporto in alto. Tutti sappiamo che in Italia i precari hanno salari più bassi dei protetti: ciò suggerisce che queste due forze prevalgono sulle prime due.

Non occupati né disoccupati.
Nelle statistiche sul mercato del lavoro i disoccupati sono coloro che non hanno lavoro ma “lo cercano” (evitiamo di entrare nella definizione di “lo cercano”). Esiste quindi in principio tutto un gruppo di persone che pur in età di lavoro, non lavorano né lo cercano. Per capire questo fenomeno, bisogna buttare a mare l’ipotesi che abbiamo mantenuto sino ad ora che chiunque nella nostra economia vuole lavorare. Alcuni preferiscono non farlo. La teoria implica quindi che questi siano maggiormente rappresentati tra i) coloro cui  il mercato del lavoro offre cattive condizioni (cioè lavori precari a basso salario) e ii) che allo stesso tempo possano guadagnarsi (o procurarsi) da vivere  altrimenti. Indovina indovinello, chi sono questi?  Ancora una volta, giovani e donne, sopratutto quelli con basso livello di istruzione, che restano o si ritirano  “in famiglia”.

Frizioni. Fin qui abbiamo assunto che posti di lavoro eterogenei e lavoratori eterogenei si incontrassero senza alcuna difficoltà sul mercato del lavoro. La dimensione temporale era quindi irrilevante. In realtà è necessario che potenziali lavoratori e potenziali datori di lavoro si cerchino (a lungo, talvolta) prima di trovarsi. Questo introduce un elemento non competitivo nell’equilibrio del mercato del lavoro.

Per capire questa variante dobbiamo pensare al mercato del lavoro come a un insieme di flussi di lavoratori e imprese tra diversi stati. Più in particolare, semplificando parecchio, il lavoratore può essere in uno di due stati:  occupato o non-occupato. Le imprese anche esse sono in uno di due stati, o hanno posti di lavoro vacanti o non ne hanno. La coesistenza di lavoratori disoccupati e posti di lavoro vacanti (un fatto empirico) sta lì a dimostrare che nel mercato del lavoro le frizioni sono importanti: ci vuole tempo perché il lavoratore giusto e l’impresa giusta si trovino a vicenda.

Nuove persone entrano continuamente nel mercato del lavoro come disoccupati (i più fortunati direttamente come occupati) e iniziano a cercare un lavoro. Quando lo trovano transitano dal gruppo dei disoccupati a quello degli occupati, e il  posto di lavoro  vacante diventa occupato. Altri lavoratori fanno il percorso inverso quando il loro posto di lavoro scompare o quando lo lasciano per cercarne un altro (nel qual caso quel posto di lavoro torna nel gruppo dei posti vacanti se l’impresa che lo aveva creato cerca un sostituto). Infine, nuovi posti di lavoro vengono creati e fanno parte  dei posti vacanti finché non vengono occupati da qualcuno. Ci sono poi flussi da disoccupazione e occupazione al gruppo che è fuori dalla forza lavoro (esempi: pensionamenti e lavoratori scoraggiati), e viceversa. Questi flussi per unità di tempo tra i vari gruppi ne determinano la consistenza (stock) in ogni istante. Di particolare interesse sono gli stock di occupazione e disoccupazione, la loro composizione, e la durata della permanenza in essi.

In questo mondo dinamico e con frizioni permane (è ovvio) la stessa ambiguità discussa sopra circa l’effetto della protezione del lavoratore su occupazione, disoccupazione, salari. Tuttavia possiamo concludere che in equilibrio sia occupazione sia disoccupazione avranno maggiore durata. Avremo cioè occupati di lungo periodo (carriere ininterrotte di 35 anni, per esempio) e disoccupati anch’essi di lungo periodo (persone che restano disoccupate per un anno o due dopo aver perso il lavoro, per esempio). Il motivo è lo stesso: la protezione riduce i flussi in entrata e in uscita sia tra i disoccupati sia tra gli occupati. Nella misura in cui la disoccupazione di lunga durata si conclude con una transizione dalla disoccupazione al gruppo fuori dalla forza lavoro e scoraggia l’inizio della ricerca di un lavoro, la protezione dell’occupazione genera anche maggiori flussi in entrata e minori flussi in uscita dal gruppo non forza lavoro: in altre parole, diminuisce il tasso di partecipazione. Il modello implica anche che se ci sono soggetti che più frequentemente di altri entrano ed escono dalla forza lavoro, i primi avranno tassi di disoccupazione più elevati, maggiore durata della disoccupazione e, in ultima istanza, una minor tasso di partecipazione al mercato del lavoro. Per le ragioni di cui si diceva sopra, la teoria implica che questi soggetti marginali siano soprattutto le donne e i giovani. Gli insiders al mercato del lavoro, invece (cioè gli occupati da molto tempo e che non devono uscire temporaneamente dal mercato per rientrarvi successivamente) faranno prevalentemente parte del gruppo degli occupati e quindi avranno un tasso di disoccupazione minore della media e un più alto tasso di partecipazione.

3. Conclusione

Cosa dovremmo aspettarci se quest’anno il governo riuscisse ad allentare il regime di protezione dell’occupazione attualmente vigente in Italia? La teoria economica predice che il mercato del lavoro diventerebbe più dinamico: più lavoratori perderebbero il lavoro ma più persone (incluse quelle che l’avessero perso a causa della maggiore flessibilità) ne troverebbero uno. La durata della disoccupazione si ridurrebbe e aumenterebbe la produttività dell’economia a causa della maggiore efficienza del processo di riallocazione di lavoro e capitale. L'aumento di produttività indurrebbe un aumento dei salari, almeno nei settori concorrenziali. Inoltre, i gruppi più marginali nel mercato del lavoro (giovani e donne, in particolare) avrebbero solo da guadagnare: per essi (come gruppo) la teoria predice maggiore occupazione e minore durata della disoccupazione. Infine, i contratti a tempo determinato inizierebbero ad essere sostituiti con quelli a tempo indeterminato (meno “precari”). L’evidenza empirica disponibile conferma questi fatti. Ma per questo dovete aspettare la prossima puntata.

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Commenti

Ci sono 68 commenti

 

Va bene, molto interessante, ma possible che in queste analisi (mi riferisco al sistema non-duale) non trovi mai posto la considerazione degli effetti della ri-proletarizzazione dei lavoratori dipendenti? Pensare che le imprese funzionino solo come “organismi economici” è illusorio, sono prima di tutto “organismi sociali” dove le decisioni riflettono i bias culturali e sociali individuali. Trasformando il lavoratore subordinato da individuo “collaboratore”, con cui viene stipulato un patto di fiducia anche umana, in commodity, si attua una tale trasformazione strutturale da rischiare di scardinare qualunque modello previsionale... non dimentichiamo che il fine dell’economia, non come oggetto di studio ma come oggetto di pratica, è il benessere degli individui, chissenefrega di massimizzare l’efficienza di un processo se il risultato è alternativamente un ritorno alla suddivisione della società in aristocratici e popolari ovvero (come è più probabile) un ritorno ad una bella stagione di violenza? Per cui ben venga la rimozione del dualismo, ben venga la rimozione di eccessi assurdi come l’obbligo di reintegro dei ladri, ma che il licenziamento debba rimanere un costo è socialmente consigliabile.

 

 

non trovi mai posto la considerazione degli effetti della ri-proletarizzazione dei lavoratori dipendenti?

 

E della considerazione che in un sistema duale avete già ri-proletarizzato (qualsiasi cosa tu intenda) milioni di lavoratori dipendenti che ne facciamo?

chemist, please...

Abbiamo fare uno sforzo analitico per riassumere in modo accessibile una letteratura vasta. Credo che questo post meriti una discussione migliore. La nostra analisi puo' non piacere, ma allora bisogna contribuire con altre analisi, non brandire a caso parole come "proletarizzazione", "lavoratore commodity", "aristocratici e proletari", e "stagione di violenza". Per le amene discussioni su tutto questo c'e' il bar li' sotto.

E del fatto che i lavoratori dipendenti sono già stati ri-proletarizzati da decenni di posta extra fisso, che tengo a sottolineare è un FATTO cosa mi puoi dire???

vedi risposta ad A.R.

Davvero un bel post. Parziale (nel senso di una visione secondo me solo parziale della storia), ma interessante. Ho due ordini di problemi collegati tra loro:

1) Collegate l'art 18 alla più generale "possibilitá di licenziare"; in realtá l'art 18, come voi stessi ricordate, impedisce i licenziamenti solo di alcuni "tipi", in particolare di quelli discriminatori. Ovvero, il caso che voi proponete in alcuni passaggi, ad esempio come quello della verifica ex-post degli skill dei lavoratori, dovrebbe (qui non sono un uomo di legge e quindi non posso essere sicurissimo) rientrare tra i possibili licenziamenti economici, che cadono sotto altra disciplina. L'art 18 impedisce di licenziare solo se l'imprenditore si vuole liberare del lavoratore perché magari ex-post si accorge che quel lavoratore é ad esempio "vegetariano", "comunista" (brutto e cattivo per definizione) o per altre caratteristiche individuali o collettive (appartenenza a particolari gruppi sociali); come a voler dire, immaginiamo che ex-ante ci sia qualche caratteristica individuale non osservabile che fa si che ex-post (quando l'imprenditore la realizza) induce l'imprenditore a volersi "liberare" del lavoratore. Bene, se questa caratteristica individuale é non correlata all'attivitá produttiva si chiama discriminazione ed é impedita dall'ordinamento. Il punto che ho sulla vostra storia é allora qui; ma se la caratteristica individuale "discriminatoria" (nel senso di possibile fonte di discriminazione) non é correlata con l'attivitá produttiva del lavoratore (per definizione di art 18) allora la norma in sé non dovrebbe avere alcun effetto sul mercato del lavoro. Il costo per l'imprenditore in termini di licenziamento per bassa produttivitá non dovrebbe dipendere dall'art 18.

2) Collegato al punto 1, c'é un'altra questione con cui ho un problema. Ovvero, mi sembra che nella vostra storia manchi completamente un capitolo bello corposo, che é quello relativo alla produttivitá e agli skills degli imprenditori. La domanda di skills e di capitale umano dipende infatti anche dalla qualitá dell'imprenditore. Uno "stupido" avrá difficoltá a riconoscere le potenzialitá di lavoratori skilled, e avrá meno incentivi a che la classe di lavoratori nel complesso sia più istruita, riducendo al tempo stesso e la qualità di capitale umano dell'economia e la produttività di ogni singola impresa. Ora, non sfugge a nessuno che la qualità media degli imprenditori italiani non sia esattamente quella di Silicon Valley (ma qui potrebbe esserci uno spunto per la vostra analisi empirica e vedere cosa esce fuori). In particolare, l'economia italiana da che tipi di imprenditori é composta. Qui sono un poco brutale e me ne scuso. In gran parte le famigerate piccole e medie imprese come sono evolute nel corso del tempo?. Trasmettendo le imprese all'interno della famiglia di padre in figlio. Ora capita che alcuni di questi figli siano particolarmente dotati, e possano innovare e riconoscere il valore degli skill anche senza aver studiato, ma in gran parte la maggioranza di figli che hanno ereditato le imprese dai rispettivi padri senza aver studiato abbastanza, si trovano ad aver gestito le imprese con uno stock di abilità talmente basso da avere inibito sia la domanda di capitale umano che la produttività.

In generale, quello che realmente mi provoca fastidio (non voi) nella discussione sulla produttività del mercato del lavoro è questo. Non riconoscere che parte (e io credo rilevante) del problema sia dovuto alla scarsissima qualità della classe imprenditoriale italiana che per conservare le proprie posizioni di vantaggio (rent-extraction) ha inibito per tanti anni sia l'accumulazione di capitale umano dell'economia che la mobilità occupazionale. Invece di chiedersi qual'é quella norma che potrebbe migliorare la flessibilitá (rendendola da cattiva a buona, secondo un significato che veramente non mi é chiaro), perché non ragionare come fare per indurre gli imprenditori a studiare. Vi lascio con questa citazione di uno tra i più grandi (nel senso di dimensione) imprenditori italiani, De Benedetti, che a Repubblica del 16/02/2012 dichiara:

"Fare l'imprenditore oggi significa essere preparati...".

Ecco la parola chiave é, secondo me, "OGGI". Come a dire fino ad ora forse non era cosí importante aver studiato e acquisito degli skills per fare gli imprenditori! 

 

 Non riconoscere che parte (e io credo rilevante) del problema sia dovuto alla scarsissima qualità della classe imprenditoriale italiana

 

Gli imprenditori italiani sono quello che sono perché avete costruito un sistema che li favorisce e li seleziona così come sono. Un sistema paese da 60M di abitanti è un sistema complesso, maledettamente complicato e che avrà un'inerzia mostruosa,  e se vuoi produrre imprenditori "migliori" secondo tante definizioni, devi accettare i rischi che inevitabilmente ti prendi tentando di cambiarlo. Se non vuoi prenderti questi rischi, rinunci alle conseguenti opportunità, e ti tieni quella tipologia di imprenditori, non c'è nulla da fare.

1) Il post spiega che c'è un margine di discrezionalità corposo per il giudice, per cui anche se su carta tutto funziona bene e la giustizia trionfa non è inusuale che l'impresa perda la causa anche quando il licenziamento ha motivazioni esclusivamente economiche. L'aneddottica è piena di casi. Inoltre, come faceva notare qualche commentatore nel post precedente, abbiamo tutti idee politiche, religiose, calcistiche etc. etc. quindi teoricamente possiamo tutti sostenere che siamo stati discriminati sulle base di queste - e intanto si rimane in causa N anni.

 

2) La soluzione migliore al problema che poni è che quelli che hanno skill organizzative e sanno fare innovazione si mettano a fare gli imprenditori, il che succede se fare impresa diventa piu' semplice e se i costi impliciti spiegati in questo post diminuiscono. Tu sei un imprenditore? Se la risposta è no chiediti quali sono le ragioni per cui non hai ancora aperto un'impresa... 

Ma chi lo dice che l'imprenditore è sempre quello brutto sporco e cattivo che caccia via i lavoratori perchè non lo ossequiano abbastanza???

 

Il costo per l'imprenditore in termini di licenziamento per bassa produttivitá non dovrebbe dipendere dall'art 18.

 

Il costo dipende da due cose: (1) l'intrepretazione stringente di "giusta causa": licenziare il singolo lavoratore a tempo indeterminato per bassa produttivita' e'di fatto impossibile; (2) l'incertezza circa i tempi di un procedimento e la possibilita' di arrivare a una sentenza di reintegro.

 

La domanda di skills e di capitale umano dipende infatti anche dalla qualitá dell'imprenditore. Uno "stupido" avrá difficoltá a riconoscere le potenzialitá di lavoratori skilled

 

A tali "stupidi" pensa la concorrenza: essi non possono sopravvivere in un mercato concorrenziale. La domanda diventa quindi un'altra: cos'e' che impedisce che le imprese piu' inefficienti vengano chiuse e il capitale e lavoro che impiegano riallocati verso usi piu' produttivi?

Il problema non è solo ovviamente l'articolo 18, ma soprattutto che non esiste alcuna libertà contrattuale. Con il contratto collettivo oggi il mercato del lavoro è rigido e poco flessibile, in quanto ogni lavoratore e azienda non mettersi d'accordo in base alle proprie capacità ed esigenze, i salari non possono essere corrisposti all'effettiva produttività e non c'è abbastanza libertà di licenziamento. Inoltre, il datore di lavoro non può licenziare un dipendente per un altro magari precario, ma più produttivo.

L'articolo 18 è abbastanza generico, il lavoratore con i sindacati può comunque portare in tribunale il datore di lavoro nonostante la causa del licenziamento possa essere quella di scarsa produttività e non magari di discriminazione, e questo già comporta dei costi per l'impresa in ogni caso. Oltre ad una tassazione e i costi sul lavoro già di per sé abbastanza elevati.

 

Giusto, Andrea.

La contrattazione decentrata aiuterebbe. Se i salari riflettessero la produttivita' locale sarebbero gli stessi lavoratori ad avere un incentivo a riallocarsi, tra aree, settori, e imprese diverse. Come discuteremo nel post empirico gli effetti negativi della protezione del posto di lavoro sono piu' forti in presenza di contrattazione collettiva.

Premetto che non sono economista, solo un appassionato che ultimamente, vista la situazione che c'è in giro, cerca di tenersi informato per evitare fregature.

Premetto anche che per formazione e anche per esperienza lavorativa, lavoro con soddisfazione in una grande  multinazionale americana e ne apprezzo la cultura meritocratica, sono più portato per il liberalismo che per altri sistemi economici.

Sto seguendo ultimamente essenzialmente blog liberali, come ad esempio noisefromamerika appunto (complimenti per l'ottimo livello),  ma anche, visto che bisogna ascoltare tutte le campane, neweconomicperspectives, la casa della MMT, dove ho appena avuto una accesissima discussione proprio con L.R. Wray (non voglio peccare di immodestia, ma non è stato in grado di rispondere, pur avendo una preparazione sicuramente migliore della mia, adeguatamente ad alcune osservazioni che gli ho fatto). Sebbene consideri la MMT un po' un libro dei sogni, penso però che possa fornire alcuni utili spunti di riflessione proprio sul tema del lavoro. Per chi non lfosse informato al riguardo, uno dei loro cavalli di battaglia è l'idea del programma di Job Guarantee da parte del Governo, altrimenti detto ELR (Employer of Last Resources).

Fatta questa lunga premessa, vengo al punto, anzi ai punti.

1) Da non esperto, un appunto che mi sento di muovere alla visione dell'economia che hanno gli esperti è che questi basano la teoria economica su osservazioni fatte in larghissima misura negli ultimi due secoli, un periodo in cui il mondo occidentale è passato da uno stato "arcaico"  caratterizzato da povertà diffusa (anzi diciamo che la maggior parte della gente moriva letteralmente di fame) e di pratica assenza di beni capitali, ad uno di benessere diffuso e di alta concentrazione di beni capitali e anche di beni durevoli. Due secoli fa moltissimi ancora vivevano in case che erano poco più che capanne, oggi molti vivino in confortevoli e robusti edifici.

E' quindi un fatto che negli ultimi due secoli moltissimi sonno stati impiegati nella costruzione di questi beni capitali e di questi beni durevoli come le case (anzi addirittura la ricostruzione dopo le ultime guerre).

Ugualmente moltissimi sono stati impiegati per costruire gli impianti produttivi e poi le automobili per motorizzarci tutti.

Arrivati oggisicuramente la necessità di manodopera per queste attività, che sono molto intensive, si sono ridotte notevolmente. Non c'è più bisogno di costrure molte nuove case per tutti, ma fondamentalmente di mantenere il "parco" esistente e di aggiungere un piccolo numero di nuove costruzioni per fare fronte a mutate esigenze che però non sono sicuramente di enorme impatto. Non c'è bisogno di motorizzare tutti, ma solo di rimpiazzare le macchine troppo vecchie. Non c'è bisogno di tanti nuovi capannoni industriali. Ognuno di noi ha magari cinque o sei cappotti, al massimo ne comprerà uno nuovo ogni due o tre anni e così via. Inoltre il progresso della tecnologia fa sì che laddove prima ci volevano dieci persone ora ne basta una. E' vero che nel frattempo è nata internet, la telefonia mobile e via discorrendo, ma sicuramente nessuna di queste attività può richiedere la quantità di manodopera dell'edilizia. E poi, mica ci possiamo inventare una internet ogni anno. Detto in altre parole pochi possono ormai produrre quanto basta sia per i consumi di tutti noché sia i beni capitali necessari a mantenere lo standard produttivo. Domanda: come fare sì che tutti questi beni vengano distribuiti? Forse l'idea di impiegare gente a pulire parchi, badare agli anziani, catalogare le opere d'arte, cose che in altri tempi non sarebbero state in cima alla lista delle priorità non è poi una pessima idea.

2) E' vero che se i cinesi possono fare le magliette a minor costo è meglio che le facciano loro, ma è anche vero che poi, per potere comprare delle magliette dobbiamo avere qualcosa da dare in cambio, e che i cinesi vogliano comprare. Altrimenti, visto che ci servono, meglio continuare a farcele da soli. D'altra parte se consideriamo una nazione come una grande famiglia dal punto di vista del bilancio, possiamo farci una similitudine. E' sicuramente vero che le pulizie di casa le fa in maniera più efficiente una colf professionista, ma è anche vero che bisogna pagarla. Se posso utilizzare il tempo che risparmio per fare le pulizie di casa per guadagnare più di quanto devo dare alla colf, faccio una operazione intelligente ad assumerla, altrimenti faccio una fesseria. Quindi se chiudo la fabbrica di magliette per produrre, che so, montature da occhiali che vendo ai cinesi, ben venga. Se invece devo dare un sussidio di disoccupazione agli operai che hanno perso il posto, meglio tenersi la fabbrica di magliette a casa.

 

Un'ultima osservazione, da esperienza personale seppure breve. La qualità media dei piccoli imprenditori, almeno intorno a Roma, non è molto elevata.

 

 

Nel corso del rapporto di lavoro alcune delle caratteristiche del lavoratore che non sono facilmente osservabili ex ante ma che hanno un effetto potenzialmente importante sulla sua produttività (ad esempio serietà, disponibilità al lavoro straordinario, propensioni e attitudini psicologiche varie, ecc.) vengono rivelate.

 

Credo che per questo esista il periodo di prova, durante il quale il lavoratore puo' essere licenziato senza obbligo di fornire particolari spiegazioni. E' possibile tenerne conto nel modello? Esiste qualche statistica a riguardo, ad es. % di periodi di prova non superati?


Alessandro 


 

Questo è importante perché, contrattazione collettiva o meno, sindacati o non sindacati, in uno stato stazionario, se le imprese sono competitive e a parità di altre condizioni, il salario tende a essere uguale alla produttività.

 

Ebbene forse in vece di "salario uguale alla produttività" sarebbe meglio "salario in funzione della produttività". Se la calcoliamo come Valore Aggiunto Procapite, possiamo osservare che il VAP in euro è:

 

Germania 56'863
Danimarca 69'198
Italia 30'678 (senza le micro <10)

 

Il salario lordo invece è:

Germania 32'678 57.00%
Danimarca 42'126 61.00%
Italia 26'398 86.00% (senza le micro).


la percentuale indica quanta produttività si trasforma in salario. In ITA come si nota la % è maggiore, perché se si versasse solo il 57~61% il salario sarebbe bassissimo (e poi ci sono i contratti nazionali).  Naturalmente le trattenute fanno si 0che il netto posi sia egualmente da fame.


Elaborazione mia da questa fonte dati


Francesco, parte del valore aggiunto va anche ad altri fattori produttivi. Vabbe' che i capitalisti sono unti e grassi, ma insomma devono mangiare pure loro :-)

Non vedo l'ora della prossima parte

articolo molto stimolante ,grazie(anche per le slides,tengono vivi i concetti in mente).

ci sono alcune cose su cui ho dei dubbi.

per esempio:

 

1)Questo è inefficiente, perché il costo pesa sulle imprese ma senza realmente beneficiare il lavoratore, che anzi è anch’egli sottoposto all’alea dovuta all’arbitrarietà e alla discrezionalità del giudice.

 una volta che il giudice avrà emesso la sentenza una delle 2 parti avrà massimizzato l'utilità(il lavoratore viene reintegrato e si vede corrispondere le mensilità a cui ha diritto,oppure l'impresa ha la certezza di averlo dismesso)

perchè c è inefficienza?

 2)un periodo di prova che possa essere esteso ,mi pare ,fino a 6 mesi genera ugualmente bassa produttività nell'economia?voglio dire,la protezione dell'impiego può generare più bassa produttività ,ma un periodo di prova fino a 6 mesi ,durante il quale è possibile recedere,non è sufficiente affinchè vengano rivelate tutte le caretteristiche del lavoratore?

 3°e ultima cosa.

Tutti sappiamo che in Italia i precari hanno salari più bassi dei protetti.

 Ma sempre la legge non stabilisce che i lavoratori assunti a termine debbano godere degli stessi trattamenti(TFR,13 MENSILITà,RETRIBUZONE ecc) dei lavoratori a tempo indeterminato che svolgono le stesse mansioni?se le condizioni contrattuali sono fissate dalle parti sociali e la legge tutela sotto quest'aspetto i L.T.Determinato in che modo il mercato può fissare un più basso salario verso questi ultimi?

 

grazie per le eventuali risposte

p.s.chiedo scusa qualora le conoscenze(limitate)o la scarsa memoria avessero fatto cilecca

 

...pronto agli strali!!!

1) L'inefficienza nasce dai costi (privati e collettivi) per processo, carte, avvocati che con un modello diverso non servirebbero (o, meglio, potrebbero essere meglio utilizzati per pagare il firing cost al lavoratore) E dal prezzo del rischio di perdere la causa che, con una giurisprudenza alquanto variabile, è anche di difficile valutazione anticipata, per ambo le parti.

2) Non è detto che i casi estremi (licenziato gratis o reintegro + danni) siano le soluzioni efficienti: se pensi all'utilità che cresce dallo 0 della sconfitta al 100 della vittoria per KO sull'avversario, si vede che l'ottimo complessivo  è  potrebbe anche essere da qualche parte nel mezzo.

Questo post basa la propria analisi sul modello concorrenziale, così come viene insegnato nei manuali di microeconomia.

 

Vorrei sapere anche se esistono altri modelli e quali sarebbero le previsioni che si otterrebbero a partire da modelli diversi.

 

grazie

Solo la prima parte del post si basa sul modello concorrenziale (un benchmark che e' utile fissare per valutare ognuna di quelle "imperfezioni" che caratterizzano i mercati reali).

Poi parliamo di un altro modello molto importante, non concorrenziale, che va piu' o meno sotto il nome di "search", "matching", o l'unione dei due.