Privatizzare l'università

/ Articolo / Privatizzare l'università
  • Condividi

L'universita', per distorsione professionale, e' uno dei temi ricorrenti su nFA. Questa volta rdibattono due ospiti. Nello specifico Gianni de Fraja (Leicester, UK) e Nicola Lacetera (Case Western OH). Boldrin fa, guarda caso, solo da provocatore ed editore. Il dibattito e' aperto, per l'ennesima volta. Controlliamoci e, soprattutto, non ripetiamoci.

Sommario

L'articolo di Gianni ed il commento di Nicola su LAVOCE.IT
Introduzione, di Michele Boldrin
Pagina 2: La critica di Nicola Lacetera
Pagina 3: La replica di Gianni De Fraja

Introduzione

Un commento del sottoscritto, a margine del dibattito su universita' ed omerta', ad un articolo di Nicola Lacetera e Francesco Lissoni sulla Voce, ha generato un dibattito un po' acceso sul tema privatizzazione. Lo trovate (il dibattito fra Lacetera e Boldrin) qui, nei commenti successivi alla data del 22 Febbraio. Come e' chiaro da quanto ho lì scritto, le critiche di Lacetera e Lissoni alla proposta di De Fraja - che e' in sintonia con quella fatta da Roberto Perotti e compatibile con il quadro da me suggeritoin varie istanze - non mi convincono molto. Anzi, non mi convincono proprio; comunque io la mia l'ho detta.

Ho pensato di chiedere a Nicola Lacetera di riformulare le sue critiche alla proposta di Gianni De Fraja, ed a quest'ultimo di ribattere a tali critiche. Entrambi hanno molto gentilmente risposto, ed i due articoli li trovate qui di seguito. Buona lettura.

Michele Boldrin

L'articolo di Gianni ed il commento di Nicola su LAVOCE.IT'' 'Pagina 2: La critica di Nicola Lacetera'' 'Pagina 3: La replica di Gianni De Fraja

La critica di Nicola Lacetera

'(1) Dimensione ottima minima. Quando si parla di dimensione minima efficiente di una universita', e' importante distinguere tra la funzione di teaching e quella di research. Teaching, ragionevolmente, richiede numeri di studenti contenuti per minimizzare i costi. Ma noi obiettiamo sulla ricerca, che non si misura con il numero di studenti undergraduate. Per dire: Chicago ha 5000 undergraduate e 9000 graduate, che sono gia' una proxy migliore della ricerca; la Statale 1 di Milano ha 30000 undergraduate e 4600 graduate (Case Western)... chi ha una scala di ricerca piu' grande?.

Si noti poi che le research universities americane sono, per definizione della Carnegie Commission, circa 200. Cioe' il numero max di universita' che Gianni DeFraja, nel suo articolo sul Lavoce, calcola per l'Italia. Ora, qualche rapido calcolo, giusto cosi'. Le spese complessive di R&D sul totale del GDP sono doppie negli USA rispetto all'Italia. Il GDP degli USA e' circa 7 volte quello italiano. In valore assoluto, quindi, le spese per R&D negli USA sono circa 14 volte quelle italiane, e 200 diviso per 14 fa meno di 50. Fa circa 14,2. Quindi, immaginare un "mercato della ricerca" in cui le università offrono ricerca in base a meccanismi d'asta, pare arduo in Italia, dati gli small numbers.

Alle grandi research universities americane, poi, non importa granche' avere tantissimi undergraduates, perche' i fondi che ottengono, anche per la ricerca, non sono legate al numero di studenti undergrad. Usare il numero di studenti undergrad per asserire che le universita' americane son piccole, quindi, davvero dipende da cosa stiamo discutendo: ricerca, o insegnamento?.

(2) Non confondiamo concorrenza e privatizzazione. Sono due cose diverse e, in particolare, la seconda non e' sempre necessaria per la prima.

Per quanto riguarda la concorrenza, poi, in senso "puro" (da micro 101) non ne esiste in nessuna parte del mondo accademico, in Europa o altrove. Concorrenza (di mercato) e competizione (per i fondi di ricerca) sono infatti cose diverse: la prima si fa dando valore centrale al prezzo del servizio offerto, la seconda dando enfasi alla qualità del prodotto e documentando semplicemente i costi (spesso neanche quello, perche' l'ente erogatore dei fondi stabilisce lui quali siano i costi ammissibili e in che misura). La competizione e' basata solo sul peer reviewing. Si noti che, per questo scopo, essere pubblici o privati non fa alcuna differenza.

Ricordiamoci poi che la competizione, per esempio in America, avviene anche a livello delle fonti di finanziamento. Come spiega Francesco Lissoni in un intervento su lavoce.info, una carattersitica importante del sistema americano e' proprio questa pluralita' di agenzie che a loro volta competono per attirare i ricercatori migliori.

Continuiamo a pensare, poi, che i due mercati a cui potrebbe affacciarsi l'università - insegnamento e ricerca - sono fortemente afflitti da problemi di asimmetria informativa. Nel nostro articolo su lavoce.info diciamo "afflitti piu' di altri": non escludiamo che moltri altri mercati lo siano. Ma, per venire alla analogia di Michele, mentre se compri una bottiglia di vino e non ti piace, la prossima volta ne compri un'altra, se la tua educazione non e' buona sei un po' meno flessibile, diciamo. Certo, c'e' la reputazione e ci sono le classifiche, but still. Specie se si mantiene il valore legale del titolo di studio, beh, molti studenti potrebbero essere attratti, che so, da un corso di leaurea estremeentne specifico (nel triennio), semplice e inutile, all'interno, che so, di una facolta' comune. Alla stessa Bocconi, doveplausibilmente la vrianza tra studenti e' inferiore ad altre universita' (potrei sbagliarmi), alla fine si e' tutti laureati in economia, ma tra i vari corsi di laurea (specielmente nel periodo della super proliferazione, diciamo 2000-2004 circa) le differenze erano davvero grosse. Questo per dire, c'e' ancora spazione perche', in un sistema puramente competitivo in senso tradizionale, ci siano incentivi a mandare segnali distorti. E rimandiamo di nuovo ad Acemoglu-Kremer-Mian per alcune interessanti considerazioni.

Tutto questo porta a dire che siamo contro la competizione? Non mi sembra. Piuttosto, cerchiamo di qualificare che ci sono diversi tipi di competizione nel mondo accademico, e che vanno analizzati separamente a seconda delle loro peculiarita', e di cui vanno analizzate (if any) le interazioni.

Dire semplicemente: c'e' spazio per universita' piccole che possono competere come in un tradizionale mercato, senza fare le qualificazioni di cui sopra (teoriche e empiriche), puo' essere fuorviante.

Possibilmente, infine, separiamo la questione della competizione dalla questione dell'assetto proprietario,: mesclare le due cose, di nuovo, puo' essere essere fuorviante, specie per lettore meno attento ed esperto (non tutti quelli che leggono lavoce.info scrivono di dynamic EEG...:)). Di qui il nostro modesto tentativo di riportare un po' di equilibrio nel dibattito.

(3) La parola "privatizzazione" e' diversa da "privato". Pressocche' tutte le università private degli States sono nate come tali, per iniziativa di alcuni filantropi, e tali sono rimaste tutta la vita. Nessuna o quasi e' nata come università pubblica ed e' stata poi "privatizzata". Al contrario, qualche università privata (in Georgia e Pennsylvania, ad esempio) è stata assorbita dal sistema pubblico perche' versava in difficoltà economiche. Nel suo libro di memorie del 1982 Derek Bok (allora presidente di Harvard, e di nuovo presidente ad intermi dalla caduta di Summers all'avvento della presidentessa) racconta di come Harvard e altre università private americane hanno temuto lo stesso destino negli anni '70. Tra l'altro, questo è il destino di una delle poche università private italiane, quella di Urbino.

Perche' precisiamo questo punto? Because history matters: sui libri di microeconomia 101 una impresa privata e una privatizzata sono la stessa cosa; nella vita economica reale no, perche' i comportamenti si imparano nel tempo, e non c'e' nulla che garantisca che un barone di una università "privatizzata" gestirà i soldi (sempre e comunque pubblici, in larga parte) ricevuti per l'educazione e la ricerca in modo piu' simile a un manager di una impresa privata, piuttosto che a quello che e' sempre stato, un baronazzo e basta.

Se lo scopo della "privatizzazione" e' quello di introdurre competizione nel sistema, si puo' seguire la proposta di Daniele Checchi di creare delle fondazioni, dire chiaramente agli enti locali che hanno voluto la proliferazione di sedi che hanno il dovere di entrare in queste fondazioni per sostenere le loro università locali (autonomia va insieme con responsabilita'), e far magari scegliere allo Stato centrale un numero limitato di università in cui entrare direttamente con proprie quote. Detto questo, le ammissioni in queste università, numero programmato o no (che esiste gia' in molte sedi), seguiranno criteri non strettamente di mercato, ma di offerta selettiva di un bene pubblico, qual'è l'educazione, e di un altro bene pubblico, qual'e' la ricerca fondamentale e non orientata.

(4) Nota sulla educazione e la ricerca come bene pubblico. L'educazione non e' proprio proprio un bene privato. Forse non e' un bene pubblico nel senso stretto del termine (non rivalry, non excludability...). Tuttavia, ogni persona educata genera esternalità positive, perche' entra in una rete di persone educate il cui rendimento complessivo e' superiore alla somma del rendimento che i singoli potrebbero avere da soli. E genera esternalità a livello di partecipazione alla vita pubblica, comportamenti collettivi, associazionismo. Concedo che l'evidenza empirica non e' univoca o definitiva (si veda qui, per esempio, o qui). Ma nell'ambiguita', e con almeno un po' di evidenza in questa direzione, mi sento di partire (magari non applico troppo skepticism?) da questa asserzione. La ragione fondamentale per cui l'università di massa è prevalentemente pubblica (o e' privata ma sussidiata) è questa. E' del tutto naturale, quindi, che le università in tutto il mondo siano prevalentemente pubbliche o che, quando private, siano state finanziate da filantropi e non da imprenditori (cioe', erano imprenditori quando sedevano nei CdA delle loro imprese, ma si comportavano da filantropi quando sedevano nel Board delle loro università). Addirittura, (si vedano i saggi, ad esempio, di Maryann Feldman e coautori e di David Mowery) due università private come Johns Hopkins e Stanford sono state tra le ultime ad abbracciare le pratiche di brevettazione diffusa dei propri risultati di ricerca, perche' molto restie ad abbandonare l'ethos dei fondatori per la ricerca disinteressata e non commerciale. Anche le nostre osservazioni sui fondi pubblici alla ricerca derivano da queste considerazioni. In America, le imprese private finanziano meno del 10% della ricerca universitaria. Siamo intorno al 7% dai primi anni Ottanta, la stesa percentuale, circa, degli anni Cinquanta (e piu' degli anni Sessanta-Settanta, per completezza).

Ora, questo implica che bisogna statalizzare tutto quello che e' sussidiato? Faccio davvero fatica a credere che si possa dedurre quersto da quello che scriviamo nel pezzo su lavoce.info.

Si tratta di essere consapevoli che un mercato "puro" puo' essere difficile da realizzare. Sicuramente, come per le carote, parte di questi sussidi sono il frutto di lobbying e altre inefficienze. Ma, per quanto detto subito sopra, l'educazione, e pure e forse soprattutto la ricerca (specie quella di base) hanno caratteristiche peculiari (diverse dalle carote) e il finanziamento pubblico puo' essere necessario, creando cosi' condizioni naturalmente non proprio di mercato.

(5) Insistiamo sugli esempi di Chicago GSB - Barcellona/Londra/Singapore e di JHU-Bologna. Le loro succursali/acquisizioni all'estero hanno creato delle teaching schools, e solo in alcune discipline. Sono un esempio su cui basarsi e da estendere? Non ne siamo sicuri. Vediamo cosa fanno le altre universita' impegnate in questi tentativi, magari, prima di trarre conclusioni definitive e prima di inferire cosa potrebbe succedere in Italia.

In definitiva, prima di avanzare proposte semplici e sexy, semplicemente riteniamo che sia importante chiarire di cosa stiamo parlando, e cosa volgiamo che sia l'universita' italiana. La ricerca e l'insegnamento sono cose molto diverse su molti piani, e tali vanno trattate quando si avanzano proposte di riorganizzazione di quelle instituzioni preposte a offrire l'una e l'altra funzione.

Parliamo della nature peculiare del bene ricerca e del bene educazione. Parliamo delle diverse forme e diversi livelli di competizione. Parliamo di tutti gli attori e istituzioni coinvolti. Parliamo di come misurare le dimensioni e come calcolare i costi. Partiamo dalla situazione attuale del sistema, e di come proposte semplici e sexy potrebbero davvero modificarlo (o no). Informiamoci bene su come funzionano altri sistemi, e quali davvero siano le carattersitiche peculiari che li fanno funzionare o meno. E guardiamo anche agli esempi che abbiamo, se e come hanno funzionato, e se c

" PS: Sono particolarmente curioso di leggere opinioni sul questo nostro dibattito dai colleghi che sono in Italia e che, magari, si fanno il mazzo per migliorare l'universita'. Cosa pensate delle nostre opinioni? E sono secondo voi, gli argomenti che trattiamo e portiamo, quelli davvero importanti? What are we missing? Vi riconoscete in quello che diciamo, in questi ultimi interventi e nei precedenti"

La replica di Gianni De Fraja''

(1) Gli esempi di università straniere con campus all'estero che davo (inaccuratamente as it turned out) servivano solo a suggerire che secondo me (molte tra) le università straniere vogliano espandersi, e che il mercato italiano sarebbe ghiotto, per sostenere che non vi sarebbe carenza di potenziale compratori. Il bello poi di un'asta è che se c'è poco interesse e non si vende (ad un prezzo superiore a quello minimo) si sono sprecati solo i costi organizzativi dell'asta.

(2) Per quanto riguarda i numeri: un'università mica deve insegnare e fare ricerca in ogni campo. Tra le migliori in europa, LSE è specializzata (ha quasi solo scienze sociali); Oxford e Cambridge hanno praticamente tutto. Non esiste la struttura ideale per un ateneo (mi pare anche che gli esempi americani di Michele chiariscano questo fatto). Il numero di dipartimenti (possible e/o ottimo) in una nazione dipende dalla tecnologia e dalla domanda: fino a Toni Blair in UK c'erano circa 10 medical schools. E le università chiudono dipartimenti di scienze con regolarità impressionante (un mio amico, biochimico, preferisce essere lecturer a Oxford, dove ha fondi, laboratory state-of the-art, phd e post doc, che professor in un'università dove deve - parole sue - lavare e ri-usare le provette: la ricerca, nel suo campo, in UK si fa solo a Oxford, Cambridge e UCL). Un dipartimento di chimica costa tanto, e gli economisti si stufano di lavorare perché i loro colleghi chimici possano comprarsi i lab all'avanguardia.

Magari lo steady-state in Italia è avere un sistema con 100 università di cui 20 di elite in ricerca e insegnamento in molte discipline, 10 specializzate per disciplina, 30 specializzate in teaching avanzato per laureandi, con poco peso per la ricerca, 30 specializzate in corsi di basso livello. Con riguardo a quest'ultime: inutile negare che ci siano studenti con scarse abilita', ci sono e ci saranno sempre: la scelta è se abbandonarli a se stessi come si fa adesso, o offrire loro una laurea che serva sul mercato del lavoro. Se ci sono poi 100 dipartimenti di economia e 50 di sociologia, 40 di biologia e solo tre di fisica sperimentale, pazienza, i fondi per la fisica se li spartiranno a turno dopo un giro di telefonate, ma almeno nelle altre discipline si compete. Magari il punto d'arrivo finale è completamente diverso, a priori chi puo' dire?

Il punto della mia frase "tra 50 e 200" che tanto ha incensato Lacetera, era semplicemente per dire che il rischio che il sistema universitario italiano privatizzato diventi, per motivi tecnologici, un monopolio privato è bassissimo (al contrario, ad esempio, della distribuzione della rete elettrica): se poi lo diventa per collusione è un'altra faccenda. Mi sembrava (e mi sembra tuttora) un punto ovvio. Non ho dati rigidi: i numeri, sia il 50 che 200 della Voce sia questi qui sono stime fatte a spanne sulla base della situazione in UK, paese simile per molti indicatori rilevanti - sviluppo, GDP, popolazione, consenso sui confini delle sfere pubbliche e private - e questa è l'unica evidenza empirica che posso addurre.

(3) Questo mi collega al punto sul quale Michele si dice in disaccordo con me, mentre io sono d'accordo con lui. La competizione è più importante della proprietà: se si riuscisse a introdurre competizione, privatizzare non sarebbe necessario. Ma è possibile secondo voi introdurre competizione nel sistema attuale? Per funzionare la competizione ha bisogno di due cose (i) animal spirits (ii) e regole che la permettano. Vardemo (guardiamo, per i non veneti):

(i) Sarò un ottimista, ma secondo me gli animal spirits ci sono: mi spiego: qualcuno c'è che ha voglia di farsi il c**o (si deve far così su nFA?) perché il loro dipartimento o facoltà diventi famoso (magari perché sperano che il dipartimento riceva il loro nome dopo che vanno in pensione o muoiono, e vogliono essere associati a qualcosa di buono). E ci sono anche quelli che pagano (in marchette non fatte) per il privilegio: alcuni sono i nostri amici, altri sono baroni vecchio stile, ma che sanno ascoltare e fidarsi dei nostri amici: un sistema che permette di mandare in cattedra amanti e zii, ha almeno il pregio di permettere anche di mandare in cattedra il capace italiano all'estero che non ha mai fatto favori e nessuno, e che non intende portar l'altrui borse.

(ii) Ma l'italiano capace dall'estero in Italia ci va? Con le regole che ci sono? Un preside di una facoltà di Carpenedo (quartiere di Venezia) che pensa "tizio, a Zelarino, è bravo, lo assumo", cosa può promettergli? Anche il trasloco deve pagarsi da solo quello da Zelarino (altro quartiere), altro che aumento di stipendio, o carico didattico ridotto. Le regole in Italia sono allucinati, e diventano sempre peggio: ero di recente a un convegno dove il vice-ministro Modica si dichiarò favorevole, favorevolissimo, ultra-favorevole all'autonomia universitaria, ma su una cosa non era disposto a compromessi. Il 3+2, declamò, deve rimanere un pilastro del sistema. M**chia che pilastri! Ma se l'università di Favaro (ennesimo quartiere di Venezia) decide che, per fornire un'offerta migliore ai suoi studenti, si specializza in corsi di base? No, il buon ministro dice no. Ma perché, ma perché? Suppongo perché sennò i favarotti non possono specializzarsi: ma paghiamogli il biglietto del 4 sbarrato (autobus che parte da Favaro e va "in centro"), che possano andare all'università in Piazza Barche (il "centro"), no? No. Modica dice no. Boh?

Le regole, ricordiamoci, le fa il ministero, e son d'accordissimo con Michele, qui, che bisognerebbe licenziare tutti gli impiegati del ministero: le loro preferenze rivelate non sono quelle di migliorare l'università italiana. Devo dare almeno un esempio, perché è bellissimo: insieme ad altri celebri colleghi fui studente del primo ciclo di dottorati (economics in Siena): un bel giorno il coordinatore chiese al ministero a chi spettava rimborsare le spese di viaggio ai docenti che venivano da fuori Siena (Pisa, Firenze, Roma) per farci lezione (gratis): se alla loro sede, consorziata con Siena, o se a Siena stessa. La risposta dal ministero giunse immediata e durissima: "Il pagamento di rimborso spese per docenza al dottorato è vietato, si configura come abuso d'ufficio, e sarà perseguito penalmente se attuato". Thank you very much for your help.

(4) Non sono, giuro, ideologicamente a favore della privatizzazione. Al contrario: ho scritto un articolo divulgativo intitolato "In praise of public firms". Quella che considero la miglior istituzione in the UK, e una fra le migliori del mondo, la BBC, è pubblica, e pubblica deve restare, in my view (e in quella di quasi tutti qui). Funziona bene perché: ha una bella competizione, ha regole sensate, logiche, mica come i pilastri di Modica, è ferocemente indipendente dal governo (e ha la capacità di rendere tali anche i Tony's cronies che Blair piazza lì). Si evolve, è un world leader, chiedetelo a chi volete. E, come Berkeley, è pubblica.

(5) In italia, però la situazione è così marcia che cambiare le regole, ma lasciare chi le fa al loro posto non ha funzionato, non funziona, e non funzionerà, con tutta la buona volontà dei ministri (?). Partiamo da un fatto: metà del personale universitario va licenziato (e questa e' una stima generosa, per i licenziandi). Chi glielo dice? Un ministro che ha elezioni fra due anni? Oppure fa prima Larry Summers? Un altro fatto: le università sorte come funghi negli ultimi dieci anni vanno tutte chiuse e gli stabili venduti al Club Mediterranee. Chi lo fa? Il governatore della regione? Mmmmm. http://www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/331

Michele Boldrin, e Nicola Rossi & Gianni Toniolo (era qui, ma non c'è più) propongono fondazioni indipendenti, (Checchi e Jappelli propongono qualcosa di simile, ma meno estremo), ma la mia proposta è essenzialmente identica alla loro. Se ho ben capito, le università-fondazioni sarebbero solo formalmente pubbliche, visto che si comporterebbero esattamente come i privati. Fatto 30, io farei anche 31, privatizzandole anche formalemte, per due motivi: primo si tirano su un po' di soldi, secondo si rende più difficile a un futuro governo di riprendersi il controllo del sistema universitario. Un'altra obiezione alle fondazioni: chi li nomina, i loro consigli? Il ministro? Gli enti locali? La camera di commercio e la coldiretti? Il rotary club, il vescovo? E quando la fondazione che gestisce l'università della Gazzera (ennesimo quartiere di gioventu') si trova senza soldi, siamo sicuri che il governo, la regione, il comune dicano "too bad" e la facciano davvero andare in mona (espressione veneziana che addolcisce il concetto di "ramengo", o "fallimento" se proprio volete essere brutali)?

(6) Vengo alle "omissioni concettuali fondamentali" che Lacetera e Lissoni individuano nel mio articolo sulla voce. Michele sintetizza così il loro argomento, "siccome ci sono asimmetrie informative, l'università deve essere pubblica". Michele dice no: perché ci sono asimmetrie informative nell'offerta di prodotti agricoli, e nessuno si sogna di nazionalizzare le carote. D'accordissimo, e aggiungo: le asimmetrie informative in ricerca e istruzione sono moderate. In breve:

(i) Ricerca: ogni giorno gli appointment e i tenure panels decidono chi fa ricerca bene e chi no, e nel complesso ci azzeccano. Sì ci sono esempi di Tizio preferito a Caio, o di Sempronio cui Marghera (indovinate, cosa potra' essere?) ha negato la tenure, ma sono le eccezioni che confermano la regola. Le eccezioni sono molto rare, confermando che il meccanismo di review e tenure in un sistema concorrenziale funziona molto bene. Le assimetrie informative qui proprio non ci sono.

(ii) Didattica (1): le mamme italiane sanno in quali scuole elementari le maestre ci sono dall'inizio, tengono la disciplina, seguono i programmi, e insegnano; sanno anche in quali licei si fa Dante per bene e in quali si leggono, in gruppo, testi "alternativi". Invece, secondo Lacetera e Lissoni, per le università vi è l'oscurità più totale. Sicuri? In inghilterra si sa che le università dove si insegna bene sono Oxbridge, Durham, Bristol, etc: in italia invece nessuno sa niente. Come mai quest'ignoranza? E perché i calabresi, i pugliesi, e i siciliani che possono mandano i loro rampolli a Pisa, Padova, Milano? E le classifiche di Repubblica? Secondo Lacetera e Lissoni le univeristà al top della lista di La Repubblica sono quelle che vendono o regalano esami e lauree? Esistono associazioni che certificano e classificano le carote boldriniane: se le carote che comprate in negozio hanno il bollino dell'associazione AIAB, allora sono "biologiche" (organic). Si fida la gente? Sì. Fa bene a fidarsi? Sì, perché l'associazione ha una funzione obiettivo tale che non ha incentivo a riportare il falso. Ci sono errori? Sì certo, ma stiamo confrontando il possibile, non l'ideale. L'associazione consumatori prova e raccomanda gli aspirapolveri. Potrà sicuramente farlo anche per i corsi universitari (o magari nFA fa il suo bollino di qualità).

Didattica (2): l'istruzione universitaria NON È, RIPETO, NON È un bene pubblico: è un bene privato, il consumo è rivale ed escludibile. C'è una piccola piccola esternalità ma va cercata con il lumicino, e io lo so, perché molti dei miei paper hanno bisogno di un'esternalità nell'istruzione universitaria, e uno standard cheap shot che ricevo dai referees è che l'esternalità non esiste. Grazie a Moretti (J Ectrics 2004, 121, p. 175), posso dire che qualcosina c'è, ma proprio qualcosina. Questo mi aiuta un po' a parare il colpo basso del referee ma non ci farei sopra la politica universitaria, anche perche' non implica nient'altro che questo: occorre sussidiare un poco l'istruzione universitaria. Invece, c'è evidenza molto meno ambigua per quanto riguarda l'istruzione primaria e secondaria, Heckman, il paper di Acemoglu and Angrist citato da Nicola, fra gli altri. L'esternalità giustifica intervento pubblico, che però non implica FORNITURA pubblica. Può essere un sussidio, o altre forme: c'è una bella esternalità nella capacità di guidare le automobili, e l'intervento pubblico ha la forma di standard obbligatori ed esami per la patente, non nazionalizzazione delle autoscuole. Un altro esempio: le strade sono beni pubblici, e le costruiscono i privati pagati dallo stato. Finanziamento e fornitura non sono necessariamente legati. Nell'utilizzo dell'istruzione universitaria sul mercato del lavoro, e nello sforzo che gli agenti ripongono in questo, ci sono asimmetrie informative fondamentali e problemi di rischio morale che impediscono il finanziamento privato dell'istruzione usando il capitale umano futuro come garanzia (in parole povere: la schiavitu' non e' una bella cosa). Quindi, personalmente, sono totalmente a favore di un sistema di prestiti pubblici (students loans), per risolvere questa incapacita' del mercato di finanziare completamente l'istruzione, oltre al sussidio che internalizzi l'esternalità e svolga una funzione redistributiva. Su questo ho anche scritto, "The Design of Optimal Education Policies", The Review of Economic Studies, 69, 2002, pp 437-466.

 

 

Indietro

Commenti

Ci sono 39 commenti

Sul calcoletto di Lacetera con numero ottimale di research universities in Italia pari a 14,2 se dobbiamo prendere come metro di paragone gli USA: nello UK il Russell Group di universita' di ricerca che si divide la maggior parte della torta delle aste di ricerca dei Research Councils e' formato da esattamente 20 universita', e funziona piuttosto bene nel mercato concorrenziale globale. Non e' un numero troppo basso per portare benefici, anzi. Per un paese come l'Italia, 15-20 universita' di ricerca mi

sembra una stima e un obiettivo ragionevole e fattibile, gia' adesso

nei fatti solo una dozzina di universita' ha un impact factor che non sia trascurabile.

 

 

Ha deciso che prima di aprire nuove universita' si devono "razionalizzare" quelle esistenti.

Questo forse mi fa tendere verso la posizione di Gianni De Fraja: rendiamo piu' difficile ai politici di riprendere il controllo del sistema universitario in futuro.

 

mussi e' veramente il peggior ministro i) di questo governo, ii) dell'universita' che ci sia stato. Hai visto l'argomentazione: le razionalizza lui le universita'; e naturalmente, come nota l'articolo, i rettori "pubblici" del piemonte gongolano.

 

Effettivamente, nel Ciapa No

Prodi ha gia' piu' punti di Berlusconi per la cattiva politica

economica. Ora Mussi, per non essere da meno, sta battendo la Moratti

alla partita di Ciapa No per i Ministri dell'Universita'. (S)Parlando

di Prodi e TPS: avete visto le dichiarazioni di oggi? Ora

all'improvviso hanno il

"surplus" virtuale di bilancio ed e' tutto merito suo/loro, ed ora

taglia(no) le tasse mentre una settimana prima della crisi di governo TPS si

affannava a dire che neanche per sogno, che lacrime e sangue ancora

dovevano venire. Grist per il mulino degli Ex-Kathedra seri sulla

politica fiscale ed il debito. Speriamo d'aver tempo nel week-end.

Vabbeh, scusate cari lettori e lettrici simpatizzanti di sinistra, ma

io proprio non so che dire. I fatti son fatti, e per quanto uno ci

provi a vederci il lato buono in questo "vostro" governo, non si riesce

proprio a trovarcelo. Non lo faccio apposta, davvero: sono molto

sensibile alle persone che trovano i nostri articoli troppo critici e

negativi. Per questo mi mordo la lingua (meglio, le dita per non usarle

sulla tastiera) piu' spesso che no, pero' la degenerazione

democristiana anni 70-80 di questo governo e' abbastanza palese.

L'unica cosa semi-buona, ossia i Dico, sembra li abbiano gettati alle

ortiche per paura di Andreotti e per comprarsi Follini! Alla faccia dei

diritti civili!

Ora si aprono i giochi sulla riforma elettorale. Sandrooooo ... e' il tuo turno!

 

 

Permettetemi una domanda ingenua e un po' provocatoria: cosa è che impedisce a, diciamo, un imprenditore italiano di nome Silvio di creare un centro di ricerca (che non si chiama università, per motivi legali, lo chiameremo fattoria della scienza) di prestigio dove gli eccellenti michele, alberto, giorgio, sandro e  giovani di belle speranze come antonio e andrea possano fare ricerca ed essere retribuiti on a competitive base, dove possano insegnare a  selezionati gruppi di studenti che a loro volta potranno essere assunti da imprese affamate di lavoratori con skill superiori alla media, oppure potranno  essere inseriti nel mondo della ricerca, e andare a fare il PhD nella fattoria della scienza 2, creata dal competitor di Silvio, tale Franco, che a quel punto avrà assunto gli eccellenti francesco, marco, andrea e il giovane  pierangelo?

Veramente chi è favorevole alla privatizzazione del sistema universitario italiano pensa che le fattorie della scienza non vengono create perché esiste la pubblica università di Pollena Trocchia dove si insegnano microeconomia e macroeconomia su un bignami delle superiori? Perché il mercato non è ancora intervenuto a spazzare via la storica università del centro in provincia di Napoli?

p.s. la scelta dei nomi è frutto del puro caso :) 

 

 

D'accordo; nulla impedisce di creare centri di ricerca privati d'avanguardia. Pero': i giovani bravi preferiscono andare all'estero, e ottenere fondi di ricerca dal governo italiano sarebbe difficile in presenza dell'univerista' di Pollena Trocchia (bel nome, esiste davvero? non sara' mica un nuovo quartiere di mestre?), i cui baroncelli e baroncini riescono a ottenere fondi anche in assenza di qualita'. I due mercati potenziali (ricerca e insegnamento avanzati) sono, in modo diverso, altamente competitivi. La fattoria della scienza non sarebbe una proposta imprenditoriale preferibile a, say, una software house, e, se fossi imprenditore con talento e capitali, preferirei questa a quella.

Per dirla a' la Cantona: Il sottobosco deve bruciare via del tutto perche' possano nascere nuovi alberi.

 

 

Confesso di saperne poco ma mi pare che l'Istituto Universitario Europeo di Firenze possa essere assimilato al modello da te proposto. Una struttura di qualità molto alta, che, credo, vive sostanzialmente al di fuori del sistema universitario italiano sia per quanto riguarda i finanziamenti sia per quanto concerne l'organizzazione. Produce ricerca di buon livello e gestisce un programma di dottorato assai quotato in Europa.

Restringere l'attenzione ai soli corsi di laurea mi sembra invece una battaglia persa: quanti credete possano essere gli studenti disposti a mettersi in gioco in questo modo? A me vengono in mente numeri molto piccoli...

 

Qualcuno ti dira' che dipende dal valore legale del titolo di studio. Io non ne sono sicuro (ho scritto un articolo mesi fa a riguardo), ma sicuramente senza valore legale tale impresa sarebbe alquanto rischiosa data la difficolta' di attrarre studenti

 

 

La Fattoria della Scienza puo' certamente nascere, ma ci vorra molto tempo perche si sviluppi e diventi nota. E il problema dell' asimmetria dell'informazione citato da Nicola Lacetera e un po' sottovalutato dai redattori di nFA. Sia nella ricerca che nell'insegnamento i risultati si vedono 10 o 15 anni dopo. Nel frattempo e difficile giudicare la qualita dell'istituto.


Quando chiedo a parenti o amici italiani se hanno sentito parlare del MIT mi rispondono "Si! il famoso istituto amerikano dove ha preso il master nel 1970 il ministro Padoa-Schioppa". ;-) Anche la Fattoria della Scienza produrra ministri, dirigenti d'azienda, professori che scrivono editoriali sul Corriere della Sera a favore di una liberalizzazione dell'economia, e allora la Fattoria godra di un'ottima fama e attirera finanziamenti e studenti. Ma nei 10 o 20 anni intermedi sara dura.

Per gli studenti che si iscrivono il primo anno ci sarebbe un grosso rischio e nessuna garanzia.

 

 

 

Gli argomenti del tipo "If you are so smart, why aren't you rich?" fanno sempre un certo effetto, e lo stesso vale per la domanda "ingenua e un po' provocatoria" di Luigi. La risposta, ovviamente, e' che nulla glielo impedisce. Allo stesso tempo, nulla gli da' l'incetivo per farlo, quindi non lo fa.

Non e' che tutto cio' che non e' esplicitamente proibito sia economicamente conveniente, e fare la Fattoria della Scienza in Itali, privatamente, ovviamente conveniente non e'! Per una valanga di ragioni, alcune delle quali sono gia' state menzionate, ed altre. Riassumendo

- Per far soldi privatamente producendo scienza non si fanno universita' ma centri di ricerca privati. Che infatti ci sono, ed a palate. Piu' all'estero che in Italia, e per le ragioni che siamo andati ripetendo da tempo, ma comunque anche in Italia. Di venture capitalists che finanziano fattorie di scienza ve ne sono migliaia, no?

- Se penso che vi siano grandi soldi da fare in un'universita' privata, di sicuro non la faccio in Italia dove le restrizioni legali e politiche sono enormi. Vedasi l'opposizione recente del signor Ministro Mussi al progetto del San Paolo di Torino, ultimo di una serie di tentativi privati di entrare nel settore che sono stati castrati dal potere politico. Con buona pace di chi crede che il valore legale non sia un'enorme barriera all'entrata, in un paese dove (stima nasometrica) il 70% dei nuovi laureati finisce nel settore pubblico occorre essere proprio suicidi per saltarsi questa restrizione. Infatti, la restrizione restringe, e lo fa brutalmente. I fatti son quelli, poi possiamo ignorarli e continuare a teorizzare cose strane: la liberta' di parola e' una cosa sacra. Se voglio fare un'universita' privata nuova ed ho soldi e know-how, vado in Cina, o in India (Enzo, tu che ne dici?) o persino a Buenos Aires (vedasi Torquato di Tella) o Mexico (ITAM e' vecchia ma cresce, il Politecnico de Monterey e' giovane, e pure cresce) ... 

- La proposta di De Fraja, e prima ancora quelle di Perotti e, parzialmente, la mia, non hanno mai sostenuto che la "privatizzazione" dovesse funzionare perche' qualcuno investiva cento o cinquencento milioni di euro per fare grandi profitti nell'educazione universitaria. Tutti abbiamo parlato di fondazioni: le grandi universita' private americane non sono organizzazioni "for profit". Per privatizzare l'universita' italiana occorre fare entrare le grandi universita' private (e pubbliche, perche' no? Scommetto che se si apre il mercato qualcuno a Sacramento ci pensa ad un UC-Campus a Milano o Firenze o Venezia) americane, oltre che le grandi fondazioni, italiane e non. Il punto e' che se non entrano delle istituzioni straniere che, attraverso l'aggancio al mercato internazionale importino la concorrenza ed abbiano l'incentivo per evitare collusione, tutto finisce a tarallucci e vino come al solito.

- Similmente, De Fraja sottolinea la centralita' del grande ricco che vuole, attraverso l'universita' con il suo nome, lasciare una traccia nella "storia del paese" oltre che fare un investimento decente. Gli esempi USA sono tutti di questo tipo, idem per quelli latino-americani che conosco - vedi sopra, oppure anche San Andres in Buenos Aires, Getulio Vargas in Rio, U de los Andes in Bogota', ... la lista e' lunga - Spagna, eccetera.   

- Costruire un'universita' ex-novo e' MOLTO piu' costoso che comprarne una che gia' esiste e la qualita' del cui prodotto e' nota sia al venditore che al compratore. Qui la assimetria informativa c'entra come i cavoli a merenda: fra incertezza ed assimetria informativa c'e' una sostanziale differenza. Non e' che l'investitore "sa" che la sua nuova universita' e' "buona" ed i consumatori-studenti non lo sanno e fanno confusione. No, nessuno dei due lo sa! Lui non sa se ha scelto il modello giusto, i corsi giusti, i professori giusti, la collocazione geografica giusta, il direttore di dipartimento giusto, il placement officer giusto, eccetera, eccetera. E' una ditta nuova con un prodotto nuovo, quindi vi e' incertezza sulla qualita' del prodotto. Da ENTRAMBI i lati vi e' incertezza, esattamente come quando arriva un nuovo disegnatore di moda, o un nuovo produttore di mobili o un nuovo gruppo musicale o un nuovo ristorante! Ci vuole tempo per affinare prodotto e metodi di produzione da un lato, e per scoprirne la qualita' dall'altro. Si chiama incertezza sulla qualita' del prodotto, punto. E non ci sono ne' stati ne' ministri che, divinamente, questa incertezza sanno eliminare: si elimina con il tempo, producendo e verificando. Cio' che questo implica, pero', e' che in un paese in cui si sono gia' fin troppe universita' (di per se) e' molto, ma molto piu' conveniente comprare una struttura che gia' c'e', che sai come funziona, di cui hai verificato pregi e difetti e che sai che puoi migliorare, che non partire ex-novo. Non che non si possa, solo che costa molto di piu' proprio perche' ci vogliono molti anni per risolvere l'incertezza sulla qualita' del prodotto. Ed il tempo, anche in questo caso, e' denaro. 

 

 

 

Scusate l'intromissione, sono, tanto epr intenderci il MICHELE di qualche settimana fa. L'argomento mi interessa alquanto, per cui la voglia di dire qualcosa e' irrefrenabile...Domanda: siete poi cosi' sicuri che il modello americano/privato funzioni poi cosi' bene? Sapete nelle banche d'investimento (boldrin, mi raccomando, non innervosirti...) chi sono i laureati piu' ambiti? Direi senza ombra di dubbio laureati grand ecoles francesi, al limite anche politecnici italiani, quindi scuole pubbliche europee...io che ho fatto il des alla bocconi, ho dovuto studiare tanta di quella finanza, accounting e statistica seria per cui per entrare ho fatto la mia fatica (e dire che avevo preso quasi tutti 30, giavazzi, cifarelli inclusi etc)...su tutto il floor di ML laureati inglesi si contano sulle dita di una mano,pochissimi della blasonata LSE. In effetti, se andiamo a vedere la parte non di mercati ma di puro investment banking (consulenza, m&a, corporate finance), li' i master/phd americani ci sono, ma li', ne converrete, il bullshit abbonda...

DOmanda: siamo cosi' sicuri che il modello europeo sia da sopprimere? non e' che avete un punto di vista troppo "interno" per cosi' dire al vostro ruolo/lavoro? E' vero che  avere un degree/master/phd americano conta, ma conta se vuoi fare l'economista o poco piu'. Peccato che gli economisti non se li fila nessuno (intendetemi, parlo di imprese che massimizzano i profitti)...

Con affetto

 

 

Sapete nelle banche d'investimento (boldrin, mi raccomando, non

innervosirti...) chi sono i laureati piu' ambiti? Direi senza ombra di

dubbio laureati grand ecoles francesi, al limite anche politecnici

italiani, quindi scuole pubbliche europee...io che ho fatto il des alla

bocconi, ho dovuto studiare tanta di quella finanza, accounting e

statistica seria per cui per entrare ho fatto la mia fatica (e dire

che avevo preso quasi tutti 30, giavazzi, cifarelli inclusi etc)...su

tutto il floor di ML laureati inglesi si contano sulle dita di una

mano,pochissimi della blasonata LSE.

 

Non saranno a Londra (o Dublino), dove sono anche pagati molto meglio che nel Belpaese?

 

Toh, chi si rivede! Comunque, farei un po' di chiarezza. Un phd lo prendi solo se poi vuoi fare ricerca. Se vuoi fare investment banking, il phd magari anche ti prepara (anche se lo dubito), sicuramente e' una grossa perdita di tempo. Questo perche' in un corso phd di, putacaso, "corporate finance", non si insegna "corporate finance". Nelle migliori scuole il docente presenta e spiega un elenco di studi recenti per far capire come si fa a fare ricerca in quel settore. Se lo scopo e' quello di imparare tutto cio' che c'e' da sapere in "corporate finance" meglio comprarsi un buon libro o fare un master. Nessun corso di phd serve a trasmettere tutto lo scibile di un certo "field". Poi, per finire il phd perdi minimo un anno per fare una tesi, che, se poi ti vuoi prestare alla "praxis", non ti serve.

In teoria, un master puo' essere piu' utile; in pratica sono d'accordo con te: soprattutto negli MBA il "bullshit abbonda", fenomeno che non riesco a spiegare completamente. Comunque, il fatto che ci siano piu' europei attorno a te che americani lo spiegherei semplicemente con un fattore geografico. Il fatto che ci siano piu' francesi e italiani che britannici mi stupisce: ma e' proprio vero? E nel riportare questi dati stai considerando la laurea undergraduate o i  post-graduate degree (ricorda che in italia MBA o diplomi simili sono interamente gestiti "privatamente" e in regime concorrenziale da universita' private - tipo bocconi SDA-  o consorzi di universita' pubbliche - p. es. il CUOA)?

 

 

per avere un'idea della inferiorita' della ricerca italiana e superiorita' inglese e americana, non solo in economia,  basta guardare ai dati di andrea ichino e amici, qui

il resto sono aneddoti che si raccontano al bar sport (o a ML apparentemente).

 

beh non rappresento ancora la ML! quello che dico io, lo racconto io...in genere, quello che pensano alla ML e in altre banche d'affari e' molto simile a quello che dicono gli economisti americani...e non c'e' da stupirsi, le banche d'affari finanziano i phd americani, ma da chi si fanno gestire i soldi? Da gente formata nelle scuople pubbliche, neanche inglesi, ma francesi, greche, italiane...questa e' la realta', curioso, no?

 

ChomskY e' il suo cognome, e per tutto il disprezzo che chiunque possa avere per le sue posizioni politiche, dagli anni trenta del secolo scorso ad oggi, esse hanno nulla a che fare con il suo lavoro scientifico.

Un programma, quasi "folle" per chi sa leggerlo (sostiene che, forse, il linguaggio e' perfetto) detto minimalismo, da solo ha generato piu' ricerca linguistica di sette milioni di scemenze scritte da Ricoeur, Wittgenstein, e compagnia.

Attaccate Noam sull'anarchismo quanto vi pare, lasciate perdere il suo lavoro scientifico. E' il bersaglio sbagliato della polemica.

 

 

sul Chomsky linguista sono perfettamente d'accordo con te.

Solo che non chiamerei quelle scritte da Wittgenstein "scemenze" visto che sono la base di tutto quello che e' stato scritto sul linguaggio in seguito (un po' l'Adam Smith della situazione).

 

 

com'era abbastanza evidente nel mio post precedente, nessuna critica per il chomskY (mi scuso per il typo) linguista. anzi.

mi pare pero' che negli ultimi tempi si stia dedicando alla sociologia a buon mercato piu' che alla linguistica. come e' abbastanza evidente dando anche solo un'occhiata alla sua webpage.

 

Uno dei temi che qui si dibattevano e' quello di quante universita' americane, pubbliche o private, stiano investendo all'estero e quante siano interessate a farlo. Poiche' da varie parti si dubita che il fenomeno sia rilevante, credo valga la pena mettere qualche dato, anche se del tutto episodico ed ovviamente non completo (ossia, non son stato li' a controllare quante fra le prime cinquanta lo stanno facendo, suppongo vi siano molti piu' esempi di quelli che qui riporto).

La cosa mi e' venuta in mente leggendo un articolo sul NYTimes di oggi che riporta grande attivita' in India. L'altro giorno un collega mi menzionava investimenti (il collega era da Princeton, ma non credo l'universita' forse Princeton, ed ora non ricordo) in Dubai con l'apertura prossima di un mega campus. Washington University in Saint Louis (dove lavoro) si sta dando da fare in vari posti asiatici, abbiamo rapporti di "consulenza-compartecipazione" con 14 istituzioni dalla Thailandia alla Korea. So che NY University sta investendo in un "joint project" in Argentina, e che si sta dando da fare nell'Europa dell'Est. Ovviamente tutti conosciamo le dozzine di vere e proprie filiali di quasi tutte le grandi business schools USA presenti sia in Europa che in Asia.

Sia Harvard Medical School che Washington University Saint Louis School of Medicine (due fra le tre o quattro migliori del paese) hanno presenze svariate, investimenti e consulenze ai quattro angoli del mondo. Sospetto che lo stesso valga per molte altre. Insomma, il fenomeno c'e', e' gia' forte, ed in grande crescita, altro che scarso interesse. In Italia, ovviamente, neanche l'ombra ...

 

Non è completamente così: Bocconi ha un joint program, un Master of Science in Management, con Fudan University a Shangai (vedi il ink http://www.unibocconi.it/index.php?frcnav=@65%2C2097%2C47140). Il programma è biennale, gli studenti sono metà cinesi e metà italiani (ma ci sono alcuni anche di altre nazionalità), gli studenti fanno il primo anno a a Fudan ed il secondo in Bocconi, la Faculty è joint. Mi si dice inoltre che Bocconi stessa si sta attrezzando per partire presto con joint programs in India, in particolare con l'Indian Institute of Management di

Ahmedabad, che è considerata la B-School numero 1 in India.