L'università italiana: svolta o declino?

/ Articolo / L'università italiana: svolta o declino?
  • Condividi

Nessuno, oggi, nega lo stato di crisi dell’università italiana. Differenze corpose esistono, invece, nelle valutazioni della gravità di questo stato, delle sue cause, antiche e recenti, delle responsabilità e delle vie di uscita. Ripropongo qui la mia lettura del declino e alcune indicazioni per una svolta.

Lo stato attuale è il risultato di un cocktail esplosivo di elementi. I principali:

 

1. Le riforme della fine degli anni ‘90, ossia la riforma dei concorsi e l’introduzione delle lauree in successione: il 3+2. Considero entrambe le riforme sbagliate. Senza appello.

I concorsi locali, con la moltiplicazione delle commissioni e le triple e doppie idoneità, hanno fornito un incentivo perverso ad accordi di scambio tra sedi o gruppi di professori: votarsi a vicenda per la composizione delle commissioni di concorso ed appoggiare a vicenda i rispettivi candidati è divenuta pratica pressoché costante, qualunque fosse il valore dei candidati designati. Di fatto, una sostanziale ope legis per avanzamenti di carriera si è realizzata negli anni 1999-2005.

Sovente il dibattito su questo tema si è concentrato in un banalizzante confronto tra i precedenti concorsi nazionali e i concorsi locali del 1999-2005, senza cogliere le trasformazioni che si sono prodotte in questo periodo. In sei anni il numero di professori ordinari è cresciuto del 51.4%. Questa crescita è stata espressione di una trasformazione profonda del modello di selezione. La crescita precedente, su cui non ho dati, è stata comunque incomparabilmente più piccola. Ciò non è dipeso solo dalla infinita lungaggine dei concorsi nazionali: trovare un accordo era indubbiamente complicato e i professori di allora non potevano inchinarsi a scadenze per i lavori concorsuali!! Ma, aspetto più rilevante: i professori universitari erano oligarchie, alquanto restie ad ampliare i propri ranghi. I bandi erano richiesti con parsimonia, in numero sicuramente inferiore a quanto oggettive esigenze di crescita delle università avrebbero consigliato. Questo modello è crollato alla fine degli anni ’90. Il guaio, però, è che non è crollato per un modello migliore. Con i concorsi locali, le precedenti oligarchie si sono frantumate in una infinità di cordate concorsuali. Nuovi, tanti, tantissimi piccoli poteri si sono costituiti e affermati. Al di là di ogni altra considerazione critica, mentre il concorso nazionale coinvolgeva interesse e controllo di tutti i membri di una comunità scientifica e gli esiti erano, nel bene e nel male, lo specchio del valore di ciascuna comunità, i singoli concorsi locali non sono stati controllati in alcun modo dalla comunità scientifica e l’assenza di selezione (oltre che, di nuovo, di legami con oggettive esigenze di crescita) li ha pesantemente caratterizzati. La selezione, chi e come farla, rimane oggi un problema completamente aperto.

Il 3+2, d’altro lato, ha modificato in profondità la struttura degli ordinamenti didattici, conducendo a una rapida, abnorme moltiplicazione dei corsi di laurea e frammentazione degli insegnamenti. Mentre il nuovo schema non ha di fatto fornito alcuna efficace risposta all’esigenza di una formazione universitaria articolata e adeguata alla stratificazione delle competenze e delle professionalità di una società moderna, la duplicazione delle lauree e la natura incerta della prima (triennio professionalizzante o propedeutico al biennio?) hanno prodotto quasi ovunque un indebolimento delle basi metodologiche. Forse nessun dato statistico può dimostrarlo (e in effetti è l'esperienza diretta e la messe di testiminianze che spingono a questa conclusione), ma quale base metodologica può coltivare un corso di laurea triennale con 30-35 esami?

2. La particolarità della autonomia universitaria italiana. Nel 1989, la legge istitutiva del Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica attribuiva agli atenei “autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile”.Alla affermazione dell’autonomia non si è unita però, né allora né poi, la predisposizione di alcuna forma di controllo dell’operato degli atenei. Fino ad oggi, gli atenei hanno di fatto usufruito di un’autonomia senza verifiche, senza valutazione dei risultati, senza premi e penalizzazioni, insomma senza alcuno schema di incentivo che ne sollecitasse l’uso virtuoso. Un esercizio di valutazione della ricerca è stato varato solo nel 2003, per il triennio 2001-03. L’esperienza è stata senz’altro positiva. Di fatto, però, non la si è fatta proseguire e i suoi risultati non hanno avuto alcuna significativa incidenza sui finanziamenti dei singoli atenei.

Il risultato di una autonomia senza valutazioni e senza incentivi è stata una quantità enorme di scelte degli atenei lontane anni-luce da criteri di merito, di valore scientifico, di reali progetti di crescita. L’aneddotica dei parenti messi in cattedra è stata ed è solo una piccola parte del malcostume e delle discutibili scelte di questi anni. Il punto da sottolineare è che queste scelte emergono da problemi strutturali e da una connessa, perdurante tranquillità che nessuno chiederà davvero conto degli errori e delle scelte discutibili.

3. La composizione per corporazioni del tessuto universitario. Nella copiosa, recente letteratura sul tema università, nessun lavoro (tranne il mio pamphlet “L’università italiana: un irrimediabile declino?”, Editore Rubbettino) ha sottolineato la struttura per corporazioni del nostro tessuto universitario. In Italia, 370 settori scientifico-disciplinari presidiano, letteralmente, i concorsi e gli ordinamenti didattici. E’ una quantità assurda di centri di potere che, in un regime di autonomia, competono in ogni snodo della vita universitaria per affermare e ampliare la propria influenza. Negli anni più recenti, i concorsi locali e l’autonomia didattica hanno consentito alle corporazioni di affermarsi come mai prima. Gli ordinamenti didattici, i posti messi a concorso, la crescita di facoltà e atenei sono nati dal confronto e dai rapporti di forza tra questa miriade di settori. La connessione con veri progetti formativi o con veri progetti di crescita degli atenei è debole, e verosimilmente talora del tutto assente.

4. Il livello infimo della competizione politica in Italia. Un confronto politico incapace di superare gli immediati interessi di parte ha troppo spesso condotto a una sorta di gioco al ribasso sui temi dell’università, un gioco che ha fatto leva sulla quantità di interessi alla conservazione e al mantenimento dello status quo esistenti in università e che ha di fatto reso impossibile un progresso. Per un paio di esempi, basti citare il ripristino delle doppie idoneità con il decreto mille proroghe del dicembre 2007 o l’affossamento del progetto Moratti di mettere a esaurimento il ruolo di ricercatore, progetto che avrebbe offerto una spinta notevole al rilancio e alla velocizzazione della carriera universitaria.

I risultati di questo cocktail sono deprimenti. Che fare?

Nella improbabilità di riforme totali, la assoluta priorità nell’agenda del che fare è sollecitare un uso virtuoso dell’autonomia. Efficienza e competizione sono i valori che vanno oggi riaffermati, attraverso una serie di obiettivi specifici – collegamenti tra valutazione della ricerca e finanziamenti, superamento della struttura per corporazioni, abolizione del valore legale dei titoli - diretti, appunto, a forzare le strutture universitarie verso un uso virtuoso dell’autonomia.

L’intervento più urgente è la prosecuzione e il rafforzamento della valutazione della ricerca, finalizzati – è evidente - a finanziamenti ai singoli atenei pesantemente rapportati ai risultati della valutazione. E’ singolare che gli omaggi verbali alla valutazione, così presenti nei dibattiti di questi mesi, non si siano uniti al richiamo all'assoluta urgenza di continuare l’esercizio avviato né abbiano posto sul tappeto la questione del come e con quali risorse proseguire nella valutazione. Su questo terreno – come valutare la ricerca e quante risorse impegnarvi – il dibattito è stato, quanto meno, scarno.

Un secondo, cruciale intervento è una ridefinizione dei settori scientifico-disciplinari, attuata nella direzione di un superamento della struttura per corporazioni dell’università. Superare questa struttura significherebbe superare uno degli aspetti più radicati nella tradizione universitaria, significherebbe togliere alimento alla cultura dell'appartenenza, fortissima nel nostro paese, a favore della cultura del confronto aperto e della concorrenza.

Un terzo intervento è l’abolizione del valore legale dei titoli di studio. Sono convinta che il vantaggio principale di una tale abolizione si realizzerebbe proprio all’interno dell’università. Da tempo il settore pubblico, il settore più esposto al problema del valore legale dei titoli, si è attrezzato, peraltro non sempre nel bene, per aggirare in qualche modo il problema. L’abolizione darebbe un aiuto formidabile proprio agli attori dell’università: ai giovani, nel porsi in modo più serio il problemi della scelta delle competenze da acquisire e nell’affrontare in modo più serio l’università; ai docenti: nell’affrontare in modo assai meno corporativo il disegno dei corsi di studio.

Certamente molto resterebbe da fare. Ma, insieme, queste tre linee di intervento darebbero una svolta e renderebbero assai più semplice affrontare i tanti altri nodi della questione universitaria.

Indietro

Commenti

Ci sono 108 commenti

Continuo a pensare che il 3+2 sia stata una buona idea e che le università siano ancora in tempo per migliorare i programmi e ricavare il meglio dalla "nuova" struttura dei corsi di laurea. Basti solo pensare che il 3+2 decuplica le opportunità ed i possibili percorsi: io ho amici in tutta Europa, per dire, e alcuni fra i più bravi sono riusciti ad accedere a dipartimenti eccellenti come Yale (Stat) o Northwestern (Econ) direttamente dopo il triennio. In un Paese nel quale l'età di ingresso nel mondo del lavoro è molto alta, una riforma come questa poteva costituire una ventata di aria fresca.

La riforma, finora, è stata implementata male. Per prima cosa, il governo si è largamente disinteressato del passaggio al nuovo ordinamento (il governo di centro sx fu sostituito dal governo di centro dx pochi mesi dopo l'introduzione della riforma, e la Moratti cominciò subito a parlare di una "sua" riforma senza nemmeno emanare molti dei decreti attuativi necessari, se ben mi ricordo). Per seconda cosa, la reazione dell'establishment accademico è stata molto negativa: mi pare che l'unica preoccupazione, all'inizio, sia stata quella di salvare le cattedre: da qui i corsi di laurea da 30-35 esami. Ancora, il consueto snobismo ha impedito a priori ogni discussione seria sulla struttura ed "il senso"  dei nuovi corsi di laurea, da subito considerati "diplomi spazzatura" (non sto nemmeno parlando degli albi!!).  Infine: In un mondo nel quale lo stage costituisce l'unico canale per accedere a professioni di un certo livello, penso che l'iniziale resistenza delle imprese sarebbe stata facilmente superata. (Faccio ricorso ancora alla mia esperienza personale: amici che lavorano come broker assicurativi a Londra con solo il triennio in tasca io ne ho diversi. Hanno cominciato con uno stage e sono stati confermati.)

Insomma, non si dia la colpa "alla riforma" se abbiamo assistito ad una eccessiva frammentazione degli esami o alla moltiplicazione dei corsi di studio. I corsi di laurea di Oxford ed LSE, per dire, durano 3 anni, e non mi pare che la gente si lamenti.

 

mi pare che l'unica preoccupazione, all'inizio, sia stata quella di salvare le cattedre: da qui i corsi di laurea da 30-35 esami. Ancora, il consueto snobismo ha impedito a priori ogni discussione seria sulla struttura ed "il senso"  dei nuovi corsi di laurea, da subito considerati "diplomi spazzatura" (non sto nemmeno parlando degli albi!!).

 

Anche adesso la principale preoccupazione e' quella di salvare le cattedre, non di chiedersi cosa serve allo studente per trovare lavoro piu' in fretta e meglio retribuito.

Sono anche io d'accordo che la riforma 3+2 fosse una idea buona e necessaria, ma che sia stata snaturata completamente dalla sua applicazione nella realta'.

D'altra parte l'equazione: maggiori ore di corso (magari frequentati da uno studente)=maggiori titoli per chiedere posti (e quindi fare carriera) non lasciava molte speranze che potesse andare in modo diverso.

I "diplomi spazzatura" sono stati resi tali, in Italia, perche' si e' voluto scimmiottare i corsi di cinque anni concentrandoli in tre, cosi' da fare diplomare persone che sapevano poco di tutto e tutto di niente. Per fortuna in molti si sono poi formati dentro le aziende e, alla fine, riescono comunque bene nel lavoro.

 

Non posso che concordare con Luigi sia nel dire che la riforma è stata buona cosa sia nel dire che è stata implementata male, soprattutto per il menefreghismo del governo che ha svalutato le lauree triennali non dandone il valore che meritano, nella mia esperienza di studio all'estero in Svezia ho sempre ricevuto complimenti dai docenti svedesi per la preparazione datami dall'università italiana.

La svalutazione del titolo nell'economia italica è impressionante, faccio il mio paragone con  la Svezia essendo l'unico stato estero dove ho risieduto, un laureato triennale Svedese è considerato dal mercato molto molto bene, molto meglio di quanto sia considerato in Italia, con un Master che è ne più ne meno la specialistica Italiana (forse un po' meno) viene considerato moltissimo sia a livello Accademico che Lavorativo, per non parlare poi del dottorato che in italia è valutato come carta straccia dalle aziende.

 

Beh, che l'Università italiana alla fine prepari è abbastanza risaputo, d'altro canto, tutti i vari ricercatori italiani in giro per il mondo avranno ben acquisito ddelle basi da qualche parte, no?

Con la quadriennale era even more so. 

La mia esperienza personale, visto che i commenti precedenti hanno dato attenzione a questo aspetto, è abbastanza chiara in questo senso: lo dico perchè ho visto di persona la preparazione degli studenti undergraduate americani. Al mio master avevo la creme de la creme. E mi sono convinto che se mai dovessi avere un figlio nonn gli infliggerò la punizione di studiare in un college americano, dove si scrivono tanti paper ma si impara ben poco. Voglio dire: tra i miei compagni di corso, c'era gente che aveva il BA da MIT in economia alla quale io (laureato in scienze politiche) davo ripetizioni di economia. Gente con il BA in Government da Harvard a cui mancavano le basi (dico: le basi) di scienza politica. Stessa esperienza con alcuni da Princeton. Gente con laurea in relazioni internazionali da UChicago che non aveva la minima idea delle letture di base in materia... E poi potrei continuare con quelli laureati in storia che non sapevano nulla del periodo tra le due guerre mondiali; gente laureata in filosofia che non sapeva chi fosse Grozio. Alcuni professori, in via informale, dissero a me e ad altri studenti europei che "noi europei siamo generalmente più preparati degli americani". Roba da far sobbalzare sulla sedia qualcuno. Cosa è interessante è che gli studenti del mio master non erano quelli usciti con la media di C dal college. Era tutta gente abituata a primeggiare. 

Detto questo, non so dire se la laurea triennale sia stata, di per sè, una buona invenzione. Ho vissuto la transizione personalmente. E non posso non concordare con quanto scritto da Paola Potestio: l'attenzione per le basi metodologiche è stata messa in soffitta. Forse una laurea triennale con soli 15-18 corsi potrebbe essere presa seriamente. Non saprei dire...

L'unico aspetto dell'articolo sul quale non concordo è l'abolizione del valore del titolo di studio. Capisco che questa sia ormai una bandiera, ma francamente oltre alla portata "ideologica" (non accuso nessuno di essere ideologico, voglio dire che per molti ormai è una bandiera dietro alla quale posizionarsi), mi sfugge l'effettica portata che potrebbe avere. 

Risolverebbe probabilmente il problema di molti lavoratori della PA che si iscrivono all'università solo per poter essere promossi/salire di grado. Ma poi, nella realtà, quali effetti concreti immediati (ma anche di lungo periodo) porterebbe? Certamente non ci darebbe un sistema in cui le università competono tra di loro. Nè sarebbe sufficiente per far sviluppare la "reputazione" dei diversi istituti... 

 

Un paio di punti molto semplici a commento del post di Mauro.

- Selection. Gli studenti stranieri che approdano negli Stati Uniti (o altri paesi) per continuare gli studi sono spesso il risultato di un processo di selezione severo - non mi riferisco solo alla selezione puramente accademica. Si tratta di individui ambiziosi e ostinati, che ritengono ottimale sobbarcarsi il grande costo dell'emigrazione, sia essa temporanea o definitiva. A mio parere tale processo e' molto piu' severo di quello cui gli studenti Americani sono sottoposti - anche quelli che approdano alle migliori universita'.

- Il sistema scolastico italiano ha sempre posto il 100% dell'enfasi sulla parte accademica della preparazione. Il sistema americano e' diverso, nel senso che la scuola viene vista come occasione formativa piu' in generale. Lo sport, e altri attivita' che a noi paiono banali (come il debate team), sono orientate alla produzione di invidui equilibrati che possano essere produttivi, soprattutto quando si lavora in team.

Queste due semplici considerazioni possono in parte spiegare perche' Mauro si trovo' a che fare con studenti molto meno preparati, nonostante si fossero laureati in college famosi. Per me l'alta qualita' dell'istruzione universitaria Italiana e' un mito. Sono invece convinto che le scuole medie superiori (almeno ai miei tempi, non so ora) siano anni luce avanti a quelle di molti altri Paesi.

Mi sembra  di riscontrare nuovamente gli stessi errori che ha commesso Perotti.

L'inferenza "siccome ad economia o scipol hanno fatto 30-35 esami per dare a tutti un contentino (perche' non si puo' affermare che una materia sia piu' importante dell'altra) allora deve esser successo cosi' ovunque" è sbagliata. Full stop.

A fisica si sono fatte delle scelte (sicuramente migliorabili) e si è utilizzato l'opportunita' del 3+2 per cercare di razionalizzare i corsi anche nell'interesse degli studenti.

D'altra parte la 270 e' stata scritta proprio per rimediare a questi particolarismi. Mi domando pero' quante ore uomo sono state sprecate per rifare nuovamente tutto e che avrebbero potuto esser megli usate nella ricerca.

 

 

 

 

Il 3+2 viene considerato sbagliato (senza appello): allora perchè tra le cose da fare subito non viene proposto il ritorno pari pari al vecchio ordinamento?

Mi viene da pensare che invece la struttura e gli obiettivi fossero (e siano) giusti, mentre i danni si siano verificati nell'applicazione della stessa, che è servita alle Università ed ai loro sistemi interni piuttosto che agli studenti e ai cittadini tutti.

PS: uno degli obiettivi era la riduzione dei tempi di laurea, ma basta leggersi i dati Almalaurea per rendersi conto che la riduzione, dove presente, è ridicola ed ancora abnorme rispetto agli altri paesi occidentali. Allora, cui prodest?

Io ho vissuto il passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento, e sto seguendo da vicino il passaggio dal nuovo al nuovissimo.

Il 3 + 2 non mi pareva una idea malvagia posto che la laurea triennale servisse a formare effettivamente per il mondo del lavoro: a meno di casi particolari, la laurea magistrale sarebbe dovuta servire per carriere accademiche o per specializzazione ulteriore. Non mi pare sia stato cosi', sia per la inerzia del mercato itlaiano che ha visto la laurea triennale come laurea di serie B, sia per la entropia che si e' diffusa nell'universita' (motliplicazione delle cattedre e dei corsi di laurea), anzi molto probabilmente i due elementi si sono alimentati a vicenda.

Idem dicasi per il sistema dei crediti formativi: buona idea, visto che cerca di creare un "ponte" tra il lavoro che si svolge durante i corsi universitari (o anche fuori) e i risultati, ma pessima attuazione.

E' chiaro che ci sono interessi corporativi che impediscono l'utilizzo corretto di queste leve, perche' l'Italia e' repubblica centralista, dirigista e corporativa: nessuno che abbia un interesse e il potere di perseguirlo si esime dal farlo, visto che non ci sono ne' controlli ne' incentivi a non farlo.

Sono d'accordo con l'abolizione del valore legale del titolo di studio: secondo me e' una rendita di posizione resa (ancora piu') iniqua dal fatto che la laurea nella stessa facolta' in due universita' diverse puo' essere piu' o meno difficile. Piu' o meno lo stesso di quello che succede per l'iscrizione agli albi professionali, che secondo me andrebbero aboliti. Ma anche qui, siamo in una repubblica corporativa: entri in una corporazione e sei ok, quindi e' difficile che chiunque ci sia entrato (penando) e possa impedirlo lasci decadere queste formazioni.

La ridefinizione dei settori scientifico disciplinari non e' detto che risolva i problemi: adesso ce ne sono troppi e sovrapposti, ma non c'e' evidenza pratica che una riorganizzazione vada in un senso di semplificazione e separazione. Oltretutto, bisognerebbe vedere come verrebbe accolto dal mercato, qualunque sia il risultato.

In definitiva: dopo anni di immobilismo, di svolte ce ne sono state fin troppe. In ogni caso, secondo me, erano tutte verso il declino. Le persone che escono e hanno successo all'estero lo fanno perche' hanno raggiunto gli obiettivi *nonostante* il sistema non sia premiante, ovvio che in un sistema premiante spicchino.

Sempre e solo IMHO.

L'università Italiana si trova, a mio avviso, in una condizione simile alla politica prima di Mani Pulite:

Ritengo che una svolta vera si potrebbe avere solo in presenza di una necessita' palesemente espressa dalla Società italiana ed Europea

A cosa mi riferisco? Ad iniziative come questa. Se questa è la gioventù promettente, bene stiamo. Cercano posto nella PA ed hanno creato la lobby dei dottorandi!

Sono molto, ma molto pessimista. Mi sto convincendo che è tutto un gioco delle parti e che le corporazioni di mediocri che controllano l'università italiana non verranno mai smosse. Si parla molto, ma di concreto non si vede nulla.

Per quanto mi riguarda, è tutto molto semplice: una fetta sostanziale della coda superiore della distribuzione dei talenti italiani oramai è all'estero in modo permanente. Fra i giovani la tendenza continua e si accentua. Questo implica che nell'università italiana predominano (in senso statistico, ossia hanno una frequenza inusuale) i mediocri, i quali ivi sono rimasti o vi sono ritornati perché all'estero loro andò pessimamente. Il resto segue logicamente dall'applicazione al professore universitario italiano della logica cesariana, come resa da Plutarco: meglio primo in un posto che fa schifo che terzo in un posto eccellente. Che così sia lo si verifica, giorno dopo giorno, negli atti che costoro compiono. Che da tanta mediocrita' possa venire un colpo d'ala lo dubito alquanto.

Mi dispiace, Paola, ma non vedo rimedio. I fatti ora dicono che anche a questo Ministro, dichiarazioni roboanti not-withstanding, non importa assolutamente nulla dell'università e della ricerca. Cerca solo voti a buon mercato, come tutti i suoi predecessori peraltro.

Non solo nella pubblica amministrazione. La petizione chiede anche

 

- predisporre consistenti incentivi all'assunzione di dottori di ricerca nel mondo delle imprese.

 

Anche il settore privato va bene ... purché sia sussidiato.

Tristemente vero. Accanto ad un piccolo numero di giovani dottorandi e ricercatori precari che si battono per una università di qualità e meritocratica (dove, magari, si possa fare una ricerca di qualità) la maggioranza è semplicemente arrabbiata perché qualcun altro ha diritti e privilegi e loro no.

Partiamo dal fatto che ci sono dei dottorati che produco persone che sono in grado di competere con gli altri per borse postdoc all'estero.

Mi sembra che cio' voglia dire che una parte dell'universita' produce dottarandi di qualita'.

Non cercare di utilizzare queste persone mi sembra uno spreco del denaro usato per la loro formazione.

Non riconoscere che il mondo funziona sui rapporti di forza piu' che sulla lettera della legge o sulla teoria dell'agente razionale è stupido, quindi non vedo perche' non provare a farsi pubblicita'.

Per qaunto riguarda

 

predisporre consistenti incentivi all'assunzione di dottori di ricerca nel mondo delle imprese

 

 si deve riconoscere che molte imprese italiane preferiscono avere forza lavoro a basso costo piuttosto che lavoratori con piu' ampie vedute e che quindi non vedo perche' non cercare di migliorare la situazione.

Tanto per fare due esempi, a Grenoble ed a Heidelberg hanno almeno il doppio di dottorandi di fisica che abbiamo noi sia perche' hanno piu' borse sia perche' i dottorando vengno assorbiti dall'industria (p.e. Sneider e SAP).

E non mi risulta che i loro PhD siano meglio dei nostri.

 

 

 

Vorrei proporre un esempio concreto - e, a mio modo di vedere, illuminante - di che cosa si intenda in Italia per valorizzazione del dottorato di ricerca.

 

La proposta relativa al nuovo modello di formazione iniziale/abilitazione degli insegnanti della Primaria e della Secondaria, elaborata dal gruppo di lavoro presieduto dal professor Giorgio Israel, prevede che ai candidati al Tirocinio Formativo Abilitante (il futuro canale abilitante, secondo l’ipotesi al vaglio del MIUR) si assegnino punti nel seguente modo: sono assegnati fino a due punti al curriculum di studi e alla media degli esami di profitto e fino a due punti alla votazione della tesi magistrale (è irrisoria l’escursione tra chi si è laureato con il massimo e chi si è laureato con il minimo), mentre al dottorato di ricerca ne sono assegnati fino a dieci.

 

Per le classi di abilitazione nelle quali il numero di cattedre è esiguo (in certi casi è fisiologico) l’abnorme dote di punti che il concorrente-dottore di ricerca porterebbe con sé, qualora la bozza fosse tradotta in legge così com’è, inevitabilmente svuoterebbe di significato il concorso stesso. Il candidato che non avesse conseguito il titolo dottorale, per spuntarla sul dottore di ricerca, dovrebbe essere davvero molto più bravo nel test preliminare e nella prova orale.

 

Il dottore di ricerca, che magari ha già fruito di una borsa di studio gravando sulla collettività, è a priori considerato così bravo da non dover essere chiamato a dimostrarlo come gli altri.

Motivo la precisazione circa la borsa di studio, sulla cui entità capita di leggere querule - e inopportune - considerazioni: in Italia la laurea è da tempo nella quasi totalità dei casi titolo insufficiente; pertanto il laureato si trova nella necessità di completare la propria formazione, naturalmente a proprie spese, attingendo alle proprie risorse, cioè arraggiandosi e arrabattandosi come può; non  mi lascio sfuggire l’occasione di ricordare che fino allo scorso anno l’abilitazione all’insegnamento nella Secondaria - delicata professione d’innegabile rilevanza sociale -  si conseguiva accedendo a scuole di specializzazione post lauream a pagamento, biennali, ad accesso programmato, a frequenza quotidiana obbligatoria (forse anche queste scuole possono considerarsi una valvola di sfogo del precariato universitario e un’occasione di foraggiamento per le università ?).

 

La commissione sopra citata, tradendo l’estrazione accademica di gran parte dei suoi membri, ha forse ritenuto con la definizione dei criteri già ricordati di trovare una possibile valvola di sfogo al precariato accademico? Discriminando, pur meritevolissimi, aspiranti all’insegnamento nella secondaria di altra provenienza?

 

Un eventuale dottore di ricerca in realtà mediocre (assicuro che ce ne sono, sorvolo qui sulle ipotesi esplicative), ma di apodittica bravura, in virtù del solo titolo accademico, percorrendo una corsia preferenziale (è questa la valorizzazione del dottorato di ricerca?), liquiderà un candidato più meritevole, reo di non essersi addottorato, e di aver abbracciato l’insegnamento a scuola come scelta primaria, e non come ripiego.

 

Non riesco a non domandarmi per quale motivo, dopo aver conseguito "il titolo più elevato della formazione universitaria", il dottore di ricerca debba essere considerato incapace di misurarsi con i comuni mortali in una sana e leale competizione in cui possano rifulgere tutte le mirabolanti competenze acquisite nel livello più alto dell'istruzione universitaria. Perché il dottore di ricerca rifugge dal confronto ad armi pari, avvantaggiandosi con un ossimorico sì corposo “aiutino”? Si teme forse che il titolo sia vacuo?

 

La proposta dell’abolizione del valore legale del titolo di studio ha sempre suscitato in me qualche perplessità, ma  l’arroccamento da parte dell’Accademia sulla difesa di odiosi privilegi di casta induce a prenderla in serie considerazione.

Abolito il valore legale del titolo di studio, ogni candidato, nudo e crudo, dovrebbe dimostrarne la concreta consistenza, perché si paia davvero la sua nobilitate.

 

disponete di dati sul numero di dottori di ricerca italiani che vincono borse di post dottorato all'estero o meglio ancora lecturship o assistant professorship (con tenure) possibilmente divisi per settore disciplinare?

Forse è già così, in tal caso, scusate l'ingenua domanda, ma perchè invece di creare illusioni o dare adito a così accorati appelli non si affronta il problema alla radice e si finanziano i dottorati partendo dalla loro capacità di "piazzare", almeno in parte e tenendo ovviamente conto delle specificità disciplinari del mercato del lavoro, i loro frutti a livello internazionale? 

Per quel che mi riguarda, sono un po' scettica sul fatto che il dottorato italiano dia una formazione così d'eccellenza e sia poi così spendibile all'estero, quanto meno nelle scienze umane con l'eccezione di alcuni ambiti specifici. 

Sono anche un po' stanca di sentire lodare i meriti della formazione italiana. Personalmente la prima volta che ho avuto l'impressione che a qualcuno interessasse davvero formarmi o meglio che qualcuno avesse organizzato un corso di studi destinato alla mia formazione è stato a livello post-dottorale in un'istituzione più o meno straniera . E forse durante un Erasmus in Inghilterra, nonostante mi sia laureata in un'università pubblica e dottorata in una privata (scusate la cripticità ma tengo famiglia e spero ancora che un giorno qualcosa cambierà).

Nell'università italiana ho conosciuto docenti individualmente validi e con un'individuale passione per l'insegnamento. Per il resto, però ho fatto una gran fatica e mi sono arrangiata, ho anche sbagliato molto. E se oggi sono riuscita a ottenere un posto di ricercatrice all'estero, se permettete, è merito prevalentemente mio (o al limite della fortuna!) e di qualche maestro che non si è forse neppure accorto di essere tale. E non certo del "sistema" accademico e scolastico italiano che mi ha dato tanti stimoli ma pochi strumenti e che non mi è sembrato particolarmente propenso a incentivare e tanto meno premiare la mia voglia di approfondire e arrangiarmi.

Mi chiedo se forse non sia il caso di considerare i ricercatori italiani all'estero non come il frutto del nostro sistema ma della loro passione e voglia individuale di lavorare (spero non della famiglia di provenienza). Ricercatori che non avendo neppure più voice hanno scelto una dolorosa exit.

Per quel che mi riguarda l'unica alternativa all'emigrazione era una felice ma non scelta esistenza di mamma e moglie. 

 

 

Forse è già così, in tal caso, scusate l'ingenua domanda, ma perchè invece di creare illusioni o dare adito a così accorati appelli non si affronta il problema alla radice e si finanziano i dottorati partendo dalla loro capacità di "piazzare", almeno in parte e tenendo ovviamente conto delle specificità disciplinari del mercato del lavoro, i loro frutti a livello internazionale?

 

Sarebbe opportuno fare quanto scrivi o almeno al minimo controntare i risultati dei dottori in ricerca laureati dalle diverse sedi allo scopo di finanziare in maggior misura le strutture di migliore qualita'.

 

Sono anche un po' stanca di sentire lodare i meriti della formazione italiana. Personalmente la prima volta che ho avuto l'impressione che a qualcuno interessasse davvero formarmi o meglio che qualcuno avesse organizzato un corso di studi destinato alla mia formazione è stato a livello post-dottorale in un'istituzione più o meno straniera .

 

Questo coincide con la mia esperienza. In Italia l'universita' appare soffrire dei difetti generali del pubblico impiego: i dipendenti pubblici mostrano complessivamente disinteresse ad offrire servizi validi al pubblico, nonostante debbano il loro posto di lavoro a quello scopo, almeno formalmente. Cio' dipende oltre che dallo scarso senso civico dei dipendenti pubblici, in primo luogo di chi occupa le posizioni di vertice, anche dall'assenza di valutazione decente e di conseguenti incentivi e disincentivi da parte del datore di lavoro, lo Stato.

 

Nell'università italiana ho conosciuto docenti individualmente validi e con un'individuale passione per l'insegnamento. [...] Mi chiedo se forse non sia il caso di considerare i ricercatori italiani all'estero non come il frutto del nostro sistema ma della loro passione e voglia individuale di lavorare [...]

 

Sono d'accordo.  In Italia esistono individui molto validi, ma manca l'organizzazione, il "sistema".  O meglio nel sistema prevale la cosca, l'associazione a delinquere, l'idea di sfruttare il servizio pubblico per i propri comodi e non per provvedere validi servizi pubblici.

Avendo potuto leggere per intero il libro della Potestio - chè tornando per Pasqua in Italia ho fatto incetta di tomi - posso dire con una qualche sicumera che, se il volume di Perotti era sballato per un terzo, quello della Potestio lo è per due terzi.

Difficile ora scrivere nel breve perimetro di un commento-blog tutto quello che mi suona male - mi ci vorrebbe almeno una Nota (doppia rispetto a quella che mi venne originata, ovviamente sempre "di getto", dalla lettura dei ragionamenti dei vari Perotti&Giavazzi).

Colgo comunque l'occasione per dire due parole su ciò che la Potestio chiama "lauree in successione" e cha a casa nostra - intendo nel resto d'Europa - si chiama "Bachelor e Master".

Un Baccellierato ha degli obiettivi formativi che l'Università dovrà definire ed analizzare - non stava scritto da nessuna parte che si dovevano "fare 30 o 35 esami" o che si dovevano "comprimere le basi metodologiche". E vi sarebbero dovute essere scelte di Baccellierati con profilo accademico marcato, ed altri con profilo professionalizzante (dubito comunque che la Potestio sappia cosa significhi in termini didattico-curriculari questa cosa, da come scrive).

Poi, non è compito delle "inchieste" giornalistiche stabilire se i corsi erano "proliferati" o se le scelte erano di qualità: solo una valutazione puntuale e uno studio dettagliato delle singoli sedi lo potrebbe mettere in luce. Ma se una istituzione vuole offrire più corsi con le risorse che ha a disposizione non vi è un impedimento "a priori" o "perchè non sta bene al Ministro": nel resto d'Europa a simili ragionamenti (così come ai veri e propri insulti rivolti agli studenti di certi corsi di Laurea come Scienze Equine) risponderebbe per le rime una opinione pubblica indignata e inviperita. Naturalmente la stesa opinione pubblica sarebbe indignata verso comportamenti corporativo-referenziali del corpo docente, ma in Itaglia si pensa sempre ai tassisti non a chi ha bisogno di un trasporto, ai farmacisti non a chi ha bisogno delle medicine.

D'altra parte, per chi mi ripete la solita filastrocca del "valore legale" sono comunque prevenuto... con costoro è ormai palesemente impossibile ragionare perchè il tasso di ideologia da agit prop è sopra il livello di una convivenza pacifica...

RR

 

A Paola Potestio il piacere di replicare ulteriormente se ne ha voglia. Fossi lei, io non ne avrei.

Scrivo qui da osservatore esterno al dibattito per notare che l'unica parola appropriata, nel commento, è "sicumera", correttamente usata in senso auto-referenziale.

Il commento non dice NULLA né scalfisce di un millimetro le osservazioni che PP fa nel suo articolo. Non so se ha ragione PP o meno, so che alle affermazioni che lei fa si può controbattere solo con fatti che dismostrino che ha torto, non con arroganti prediche sulla grande Europa che fa tutto bene verso l'TtaGlia che non sa fare le riforme genialmente pensate a Bruxelles. (Questo aspetto della questione andrebbe poi chiarito: se in Italia l'università degenera, nel resto di Europa sono le eccezioni i posti dove migliora, mentre la tendenza generale è al peggioramento. Il cosidetto "modello Bologna" è, in realtà, una contro-riforma dannosa ...)

Ad ogni buon conto, questo non è il tema dell'articolo, quindi lascio stare.

PP ha fatto affermazioni ben precise, critiche documentate (specialmente nel libro) e proposte di riforma semplici ma ben definite. Ha RR qualcosa di cogente ed intelligente da dire a questo proposito, o no? Dal commento sembra di no. Dal commento traspare solo la voglia d'insultare gratuitamente sulla base di non si capisce quali titoli, conoscenze, esperienze e capacità dimostrate sul campo.

Qualcosa si sta muovendo, anche se la situazione è ancora molto confusa.

a)Da un lato il CUN ha lanciato l'idea dei requisiti minimi per poter accedere ai concorsi universitari (non vincerli!). La definizione è affidata alle società scientifiche. Come prevedibile, gli scienziati (ed anche i medici) sembrano orientarsi verso requisiti "veri" (un certo numero di articoli in riviste ISI etc.), mentre economisti (ahime) ed avvocati sembrano molto meno severi. Segnalo un interessante sforzo dei letterati (aree 10 ed 11) per definire criteri "oggettivi" ed addirittura ranking di riviste di storia contemporanea

b) dall'altro gira un progetto di decreto legislativo sull'ANVUR (la futura agenzia per la valutazione) veramente agghiacciante. Si prevede un comitato di sette membri di nomina ministeriale (cinque su elenchi preparati dal ministero !) che dovrebbero valutare tutto (letteralmente tutto ed in particolare la qualità delle università per la famosa quota di finanziamenti per premiare il merito) con "i criteri, i metodi e gli indicatori più appropriati per ogni ambito disciplinare".

E' possibile che i due approcci convergano e l'ANVUR usi i requisiti minimi. Questa, nonostante tutto, è l'ipotesi migliora. L'alternativa è che il ministro nomini sette amici suoi (magari ex-politici senza posto) e questi valutino a seconda di "sani" criteri clientelari

Una cosa non mi è chiara: il numero di ordinari deve essere aumentato perché sono aumentati i fondi destinati ad assumere ordinari o promuovere associati... quindi il numero sarebbe aumentato anche se i concorsi fossero stati nazionali... o sbaglio?

 

Una cosa non mi è chiara: il numero di ordinari deve essere aumentato perché sono aumentati i fondi destinati ad assumere ordinari o promuovere associati... quindi il numero sarebbe aumentato anche se i concorsi fossero stati nazionali... o sbaglio?

 

Il numero di ordinari e' aumentato credo prevalentemente perche' sono stati banditi relativamente al passato piu' concorsi di ordinario e meno di associato e soprattutto meno di ricercatore. I rapporti numerici tra ordinari, associati e ricercatori sono mutati a favore degli ordinari. L'aumento complessivo del personale universitario e' stato molto piu' modesto percentualmente rispetto all'aumento degli ordinari.

Da quello che ho visto, con la curiosa contabilita' dei "punti budget" un ricercatore "costava" "mezzo punto", mentre lo scorrimento di un associato a ordinario "costava" molto meno, circa un "quarto di punto". Con lo stesso "mezzo punto" (circa) si poteva creare un ricercatore nuovo o creare due posti da ordinario per scorrimento interno. Siccome la logica (?) era comunque che i "punti" (o le loro frazioni) spettavano comunque ad un determinato SSD in funzione di criteri che venivano aggiornati di volta in volta per accontentare i SSD piu' potenti (o che facevano la voce piu' grossa, o che si sapevano muovere meglio nei giochi delle alleanze), se le frazioni di punti da distribuire non coprivano quelli necessari per fare un ricercatore, allora per non doverli restituire alla sede centrale, si utilizzavano negli scorrimenti.

Poi dice che all'universita' dettano legge gli economisti...

 

A quanto pare, i laureati hanno già deciso:

"In un rapporto le cifre sulla competizione per la manodopera altamente qualificata.
I laureati stranieri snobbano l’Italia. Ne arrivano di più in Turchia
Sono lo 0,7% dei paesi Ocse. Molti di più i nostri «cervelli» andati all’estero"

Ma magari qua si snobbano perchè hanno il bachelor e non il master (ops, laurea magistrale)?

PS (nota di lavoro): Periti e geometri, stanno lavorando tra Ministeri e Parlamento, all'unificazione in un unico albo chiamato "Albo degli Ingegneri Tecnici" in cui inglobare anche gli ingegneri con Bachelor e potersi così fregiare gratis del titolo di ingegnere.

E' un modo intelligente per facilitare ulteriormente l'ingresso di ingegneri dall'estero (che in maggior parte hanno un Bachelor) o solo un modo per poterli pagare da diplomati da High School?

 

 

 

È un modo intelligente per facilitare ulteriormente l'ingresso di ingegneri dall'estero (che in maggior parte hanno un Bachelor) o solo un modo per poterli pagare da diplomati da High School?

 

Ciò che rende questa domanda "scary" è che, a ben pensarci, è perfettamente legittima!

A dire, in Italia il salario e lo stipendio sono determinati più da meccanismi formalistici di attribuzioni di titoli (con valore più o meno legale) che non da ciò che si sa fare e produrre.

Poi qualcuno sostiene che abolire il valore legale sarebbe riforma inutile e dalle nulle conseguenze!

Seguendo il link fornito dell' articolo di G.A.Stella sui laureati stranieri in Italia e nel mondo" sul Corriere di oggi, segnalo il convegno "Brain Drain and Brain Gain" della fondazione R.De Benedetti che si tiene a Pisa presso la Scuola S.Anna questo sabato 23 maggio 2009: La partecipazione credo sia gratuita ma occorre registrarsi. In fondo alla pagina web trovate c'e' il riassunto di un rapporto sui flussi di studenti universitari
e laureati nel mondo, che mostra la pessima condizione dell'Italia, tipicamente peggiore di Spagna, Grecia e anche Turchia.

 

A quanto ne so, gli ingegneri "junior" non sono per nulla entusiasti della cosa, mentre gli ingeneri quinquennali spingono parecchio perche' cio' accada. C'e' un fortissimo disprezzo da parte degli ordini nei confronti degli ingegneri "junior" (perfino il nome e' infelice) anche perche' nessuno riesce a capire cosa possono e cosa non possono firmare.

Infilare tutti gli "junior" assieme ai geometri vuol dire limitare le loro competenze e togliere dei concorrenti dal mercato.

Il titolo di "Ingegnere", a torto o a ragione, viene molto apprezzato dagli studenti, al punto che il corso di laurea in "tecnico del territorio" e' morto per mancanza di studenti, ma da quando e' diventato un indirizzo del corso di laurea in Ingeneria Edile, praticamente con gli stessi esami, ma con in piu' il nome "Ingegneria", ha visto aumentare di nuovo il numero di chi lo sceglie (ovviamente sto parlando di corsi che si tengono non solo nella stessa universita', ma presso la stessa sede).

 

 

 

GruppoA è il nome e la forma che abbiamo deciso di dare ad un gruppo di lavoro formato da diverse personalità con specializzazioni e background differenti, tra cui anche professori e studenti. Svolta o declino, noi cerchiamo di portare qualcosa di positivo, con la prima di una -speriamo lunga- serie di iniziative, progetti, interventi artistici, come Porta Celeste, un'opera d'arte situata all'ingresso del Parco Nord di Milano, che è anche cantiere virtuale. Per saperne di più visitate il sito

www.gruppoa.org

Un breve commento su alcuni punti  emersi dal dibattito.

1. “Il 3+2 è stata una buona idea, ma la riforma è stata implementata male.”

Io non ho sollevato obiezioni  a una riduzione del tempo di laurea a 3 anni. Ho obiezioni a una articolazione degli studi universitari nei seguenti gradini, nelle parole di legge: “laurea”; “laurea specialistica” (successivamente denominata “laurea magistrale” ma identificata allo stesso modo nel decreto 1999 e nel decreto 2004, ossia attraverso “… l’obiettivo di fornire allo studente una formazione di livello avanzato per l’esercizio di attività di elevata qualificazione in ambiti specifici.”); “master universitario” di primo e di secondo livello, dunque successivo, rispettivamente, alla laurea e alla laurea magistrale. Questa articolazione non è sostenuta nella legge da nessuna specifica sul rapporto tra laurea e laurea magistrale né da alcun meccanismo che preveda un percorso diretto, ed eventualmente abbreviato, per chi punti da subito ad “attività di elevata qualificazione”. Pur prescindendo da durate effettive che rimangono ancora largamente superiori alle durate teoriche e dai frequentissimi tempi morti che si creano per motivi tecnici nella iscrizione al biennio magistrale, 5 anni di università più 5 anni di liceo sono l’organizzazione migliore per approdare a professionalità di elevata qualificazione?

Il forte indebolimento delle basi metodologiche è stato favorito sia dalla natura incerta del triennio sia da una serie di disposizioni (il numero abnorme di classi di corsi laurea, gli schemi dei crediti minimi di legge) che hanno dato libero sfogo alle attività delle corporazioni.  Le regole non hanno aiutato comportamenti virtuosi. Il risultato è che l’occupazione di posti ha troppo spesso guidato i comportamenti di quanti dovevano progettare la nuova offerta formativa, interferendo pesantemente nella costruzione dei corsi di laurea.

Naturalmente, non tutti hanno applicato male la riforma. Tanto per dare un dato interessante: da una ricognizione, per conto della Società Italiana degli Economisti, sulla prima applicazione della riforma nell’area di Economia è emerso che la numerosità delle prove di esame nel triennio andava da 19 a 39!!

Il 3+2, proprio come i concorsi locali, non ha fatto null’altro, in sintesi, che accentuare drasticamente l’eterogeneità del nostro tessuto universitario, a seguito di una evidente preponderanza di esperienze negative.

 

2. I Dottorati. Qui voglio offrire qualche dato. Nel 2003-04 erano attivi in Italia 2124 dottorati. Il 21.7% di questi non prevedeva alcuna attività didattica. Circa il 16% del restante 78.3% prevedeva una attività didattica non obbligatoria. Nella area Scienze di base e Ingegneria, dottorati senza alcuna attività didattica costituivano, rispettivamente, il 10.1 e il 12.% dei dottorati dell’area. Nelle Scienze Umane e nelle Scienze economico-giuridico-sociali la percentuale sale al 31.3 e al 30.2.  Ancora: nelle Scienze di base e in Ingegneria i dottorati che non mutuano nessun insegnamento dai corsi di laurea sono il 51.5% e il 49.1%. Nelle Scienze umane e nelle Scienze economico-giuridico-sociali la percentuale scende al 20.4 e al 18%.

Da questi soli dati è evidente che si tratta di un universo assolutamente eterogeneo. Il formale possesso del titolo, di per sé, indica ben poco. Una valutazione di questo universo, e una conseguente diversificazione dei finanziamenti, è quanto mai necessaria.

 

3. “Perché è aumentato il numero di ordinari?” Perché, di fronte alla quantità di idoneità attribuite con i nuovi concorsi, l’autonomia finanziaria ha consentito ai singoli atenei di avviare e proseguire una massiccia politica di avanzamenti di carriera del proprio personale docente. Si è trattato dunque di una scelta dei singoli atenei,  favorita dalle triple e doppie idoneità dei nuovi concorsi e dai tanti, piccoli poteri e cordate concorsuali che si sonno creati. Tutto questo, naturalmente, ha avuto pesanti riflessi sugli equilibri finanziari di molti atenei. Ma questo meriterebbe un nota apposita, una cui efficace sintesi mi sembra comunque possa essere letta nel commento di Michel Boldrin  del 15 maggio, ore 22:02.

Commenti sparsi sui vari punti:

Sul punto 1: l'idea del 3+2 può anche avere una sua logica ma esistono corsi di laurea che hanno oggettive difficoltà a creare lauree triennali autoconsistenti da dove si possa uscire con delle competenze sensate. Nel mio piccolo ad esempio vedo che è molto difficile condensare in 3 anni abbastanza fisica da fare in modo che un "laureato triennale" possa ragionevolmente farci qualcosa. L'unica possibilità che si ha di far fare un po' di fisica contemporanea (senza fermarsi a Fermi, Einstein e Dirac) nei 3 anni è di sorvolare allegramente sulle basi. Procedura francamente sconsigliabile. Per fare un altro esempio: in 3 anni è perfettamente possibile formare una persona con profonde conoscenze di teoria delle probabilità e statistica, ma per formare un matematico vero e proprio 4-5 anni sono un limite minimo.

Io non ho idea se in altri ambiti si possa dare una formazione sensata in 3 anni. Immagino di sì. Ma pensare di applicare un modello del genere a tappeto mi è sempre sembrato poco sensato.

Sul punto 2: sempre per rimanere nell'unico ambito di cui ho esperienza diretta (la fisica) posso testimoniare che c'è una guerra continua fra teorici (che vorrebbero una formazione continua tramite corsi per tutta la durata del dottorato) e gli sperimentali (che invece considerano lo "stare in laboratorio" molto più formativo di un corso seguito in classe). Essendo io uno sperimentale posso testimoniare di aver appreso infinitamente di più dalla pratica di laboratorio che dai (molti) corsi che mi hanno fatto fare durante il dottorato. Non mi è quindi chiarissimo come la presenza di didattica possa essere usata come uno strumento per valutare la bontà di un dottorato.

De Rita ci spiega che, ok, troppa gente non appartenente all'elite del paese si è presa questa benedetta laurea, ma adesso il sistema (sistema?) ha capito che si è andati troppo oltre.

Lo capiranno o no sti figli di poveracci e sotto-acculturati che possono tranquillamente fare i disoccupati anche senza laurea?

Si può dire che si vuole, ma in questo paese una sola cosa interessa: che la mobilità sociale sia definitivamente sotterrata e che siano i piezz'e core a mantenere il casato.

download.repubblica.it/pdf/2009/r2-170609.pdf