L'Italia ha tradito le nuove generazioni?

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Tito Boeri e Vincenzo Galasso pensano di sì. Il loro libro, Contro i giovani, Mondadori 2007, lo argomenta con dovizia di particolari. È un libro ambizioso e importante. Ambizioso perché aspira a una diagnosi coerente dei mali del paese. Importante perché Tito e Vincenzo rappresentano le nuove teste pensanti della sinistra nel paese.

In questo articolo recensisco brevemente il libro ma soprattutto colgo l'occasione per dire la mia sulla questione della diagnosi dei mali del paese. [Disclaimer (così fa il New York Times, che fa aristocrazia del giornalismo): Tito e Vincenzo sono due amici - Tito lo conosco addirittura dal liceo, anche se lui è più vecchio :)]

Il libro ha una struttura originale e complessa. Inizia citando Nietzsche il quale dichiara che solo 34 generazioni lo separano da Catone, così dimostrando

di pensare in termini di generazioni successive e non sovrapposte. Una

generazione deve cessare di esistere prima che un'altra le succeda: metafora

di un mondo in cui i vecchi accentrano potere fino alla propria morte. Continua

con storie di vita "da mediano"; mediano nel senso

statistico (che ha metà della popolazione sopra e metà sotto), mediano nel

senso della scienza politica (l'elettore mediano è quello che, proprio a causa

della sua posizione nel senso statistico del

termine, è centrale nella determinazione dein risultati elettorali), e mediano

nel senso della cultura pop (da Ligabue - Fausto ha corretto un mio orribile errore di attribuzione). Queste storie di vita, sei

storie, sei generazioni, dai nati all'ombra del Giro d'Italia del '32 fino ai nati negli anni '80, gli anni

della Coppa del Mondo

ZoffBergomiCabriniCollovatiGentileScirea - respiro

-OrialiTardelliContiGrazianiRossi, occupano una trentina di pagine e

introducono la discussione sulla struttura economica e sociale che si è venuta

a creare nel paese negli ultimi 70 anni. Forse questa parte è troppo lunga. O

forse sono io che non riesco a leggere trenta pagine di storie, per quanto paradigmatiche,

senza una sostanziale dose di analisi. Aggiungo una nota stilistica: le

metafore sportive, specie calcistiche e ciclistiche, si sprecano qui come nel

resto del

libro; può piacere o meno; a me non dispiace.

Il cuore del

libro è il Capitolo II, Una generazione di perdenti? È il cuore

perché i) documenta il declino del

paese, ii) ne analizza le cause e le manifestazioni; in altri termini, dai

disturbi alla diagnosi della malattia. Il Capitolo III presenta una diagnosi

ulteriore, non alternativa, ma in certo senso più profonda, in termini di

caratteristiche culturali dell'identità nazionale. Il Capitolo IV

indica le cure per fermare il declino. Infine il Capitolo V contiene raccomandazioni sul sistema politico, incapace di selezionare una appropriata classe dirigente.

In questa recensione cercherò di essere il più schematico e analitico

possibile. Questo perché la mia ambizione qui è di

scoprire "il modello", il modello economico degli autori che funziona

da supporto logico e analitico dell'analisi. Non è cosa facile. Il libro non

è scritto per un economista e l'operazione di de-costruzione ècomplessa assai. Comunque ci provo.

Il declino dell'economia italiana è facilmente documentato. Nel Capitolo II si citano un po' di indici aggregati (si potrebbe essere più sistematici, ma tutto sommato l'immagine un po' impressionistica che si deriva da questi indici è abbastanza corretta, forse un po' generosa..... ma non siamo troppo pignoli): i) il tasso di crescita medio tra il 1990 e il 2004, dell'1.4%, meno della

metà di quello spagnolo, meno di un quarto di quello dell'Irlanda, e comunque

di alcuni decimi inferiore al tasso di crescita di Francia e Germania ; ii) la produttività del

lavoro, che addirittura decresce ultimamente in Italia, unica in Europa; iii) il tasso di occupazione (il rapporto tra occupati e abitanti in età

lavorativa) è strutturalmente basso, oggi al 57%, contro il 65% della media

OCSE; iv) il capitale umano, misurato dalla percentuale della popolazione con educazione universitaria, è anch'esso

strutturalmente inferiore rispetto al resto d'Europa.

Quali sono le cause del declino

italiano? (Bèh, tutto quello che seguenel libro c’è, ma c’è anche un po’ di mio

specie nella analisi dei canali attraverso cui operano le varie cause del declino.)

1) Prima fra tutte il mercato del lavoro inflessibile e la

contrattazione salariale centralizzata che: i) riduce la produttività perché

non permette il turn-over che seleziona le combinazioni più produttive di

lavoro e capitale, ii) è causa della scarsa partecipazione, specie delle donne, al mercato del lavoro, perché le donne in età fertile abbisognano di entrare

e uscire dal mercato con facilità, iii) riduce il rendimento dell'educazione

universitaria, perché favorendo la redistribuzione comprime i salari, iv)

induce una redistribuzione a favore delle generazioni in età avanzata,

attraverso il sistema pensionistico.

2) E poi i mercati finanziari inefficienti perché non

concorrenziali, che rendono difficili strutture proprietarie di dimensione

efficiente e strutture di governance delle imprese a proprietà diffusa (ed

ecco che abbiamo la lunga lista di imprese gestite da "figli di"

senza particolare merito, a pagina 69).

3) Ma anche le restrizioni alla concorrenza specie nelle

professioni, che abbinate a dinamiche dei salari compresse e distorte a favore

delle generazioni in età avanzata, limitano i rendimenti dello studio.

4) Infine, un sistemauniversitario

di bassa qualità e un pessimo sistema politico e istituzionale che genera

la casta.

Nel libro si fa poi notare che, per quanto il declino del paese sia essenzialmente per definizione un fenomeno aggregato, le cause del declino che abbiamo identificato tendono ad agire soprattutto sui giovani. Si argomenta che sono i giovani a pagare i costi maggiori del declino del paese. In effetti, la rigidità del mercato del lavoro ha effetti soprattutto sui lavoratori non protetti dai sindacati, cioé i giovani. La recente difesa sindacale della pensione a 58 anni è esempio calzante. Allo stesso modo, le inefficienze dei mercati finanziari, le rendite nelle professioni, non facilitano il ricambio generazionale e quindi anch'esse colpiscono i giovani in maniera particolarmente accentuata. Infine, l'università allo sbaraglio,....., bèh, è ovvio. È quindi corretto, io credo, notare ed evidenziare che c'è una generazione nel paese che sta pagando cari gli errori di politica economica di questi passati decenni. In effetti questa generazione, i quarantenni e i cinquantenni, siamo noi (Tito, Vincenzo, io,...). Si suggerisce che, il fatto che i quarantenni ed i cinquantenni siano quelli che più sembrano perdere dalle politiche economiche passati e presenti, e il fatto che i quarantenni e i cinquantenni siano anche minimamente rappresentati nelle posizioni di potere della classe dirigente, privata e soprattutto pubblica, non è forse un caso.

Qual è la diagnosi profonda dei mali

del paese?

Il Capitolo III contiene un'analisi a questo proposito. Questa analisi è

difficile da riassumere in breve. È un misto di riferimenti a una sorta di

inconsapevole accettazione della situazione da parte della cittadinanza, che

non capisce né si interessa molto a cosa avviene, e al "familismo

amorale," inteso come caratteristica peculiare della cultura italiana, che

giustifica la mancanza di interesse per la situazione economica del paese. Il “familismo

amorale” inoltre induce le famiglie a operare trasferimenti a favore delle

nuove generazioni opposti e contrari a quelli che avvengono a livello di

politica economica del

paese. In questo modo quindi il “familismo amorale” fa sì che la politica

economica del

paese sia accettata nonostante essa "stia tradendo le nuove

generazioni". Insomma, ognuno si occupa dei propri figli, ma non dei figli degli altri, ripetono gli autori. Ci sarebbe moltissimo da discutere su questa analisi; specie da uno come me che su queste cose ci ha costruito una, seppur minima, carriera. Ma tralascio, perché la recensione sta diventando più lunga del libro, e perché tutto sommato, queste sono questioni di lungo periodo (forse anche lunghissimo -il libro di Banfield che per primo usa l'espressione "familismo amorale" si riferisce alla provincia di Potenza non molto dopo la guerra). Il declino del paese non si ferma cambiando la cultura dei cittadini, semplicemente perché non sappiamo come farlo. Bisogna agire su cause meno profonde, operando poi perché (o lasciando che) la cultura si aggiusti.

Quali sono le cure quindi per i mali

del paese?

Per fermarne il declino? Lasciamo stare cose tipo: fermare il familismo e il conseguente consociativismo, che proiettano i

giovani all'interno della famiglia invece che "fuori", in società. In pratica, il familismo e tutte le altre terribili caratteristiche della cultura italiana si manifestano nella struttura del mercato del lavoro, dei mercati finanziari, eccetera, come abbiamo visto sopra. È lì che dobbiamo agire. Allora, in pratica, che fare?

Il libro, ci fa piacere notare, non si limita ad analisi vaghe sulla cultura degli italiani, ma contiene una lista di proposte concrete. Riporto la lista:

i) "Pagare di più gli insegnanti migliori, quelli più capaci, più

preparati"; sottomettere gli studenti "periodicamente a test

oggettivi", e favorire altre forme di meritocrazia nella scuola

secondaria; favorire la meritocrazia nell'attribuzione dei fondi per la ricerca

all'università, e in generale introdurre competizione nelle università.

ii) Riformare la struttura contrattuale del mercato del lavoro per istituire

un contratto unico, a tempo indeterminato, con le seguenti

caratteristiche: sei mesi di prova (alla fine del quale il

licenziamento è possibile senza particolari costi), un periodo di

inserimento, fino ai tre anni dall'assunzione (in cui il lavoratore è

tutelato contro il licenziamento disciplinare e discriminatorio e riceve una

indennità in caso di licenziamento per ragioni economiche), un periodo di

stabilità (in cui la tutela contro il licenziamento si estende anche a

quello per ragioni economiche, suppongo secondo le linee di quello che succede

oggi ai contratti a tempo indeterminato).

iii) Assicurare un reddito minimo garantito a tutte le famiglie, come rete

di assicurazione sociale generalizzata.

iv) Varie forme di sussidio alla natalità, dalla costruzione di asili nido

al credito d'imposta per le donne, che copra alcune categorie di spesa, previa

documentazione, per i figli.

v) Deregolamentazione delle libere professioni, con una ristrutturazione a

favore della trasparenza delle tariffe dei professionisti.

vi) Riforma pensionistica a favore del

metodo contributivo, cioé a favore di pensioni a capitalizzazione, e con

abolizione delle pensioni di reversibilità.

vii) Liberalizzare taxi e trasporti pubblici, contenere il traffico urbano

mediante misure tipo il ticket d'ingresso.

E poi, più in generale, si ritiene che sia fondamentale dare spazio ai giovani nella economia e nella società. Argomentazioni a questo proposito sono sparse un po' per tutto il libro, e sono poi anche concentrate nell'ultimo capitolo, che discute di come garantire più rappresentatività e qualità della classe dirigente politica.

Chi avesse iniziato la lettura cercando di farsi un'idea del libro evitandosi le sue 158 pagine, si può fermare qui. Io però continuo con le mie opinioni, sulla questione delle cause del declino del paese e soprattutto sulle cure. Provo a coordinare il tutto in una serie di commenti.

Commento 1: Peccato di moderazione. Partiamo dale cause del declino: mercato del

lavoro inflessibile, mercati finanziari inefficienti e non competitivi,

generalizzate restrizioni alla concorrenza, mercato universitario inefficiente.

Tutte queste sono cause importanti del declino

del paese, a

mio parere; concordo pienamente con gli autori. (Il lettore può guardare alla nuvola di parole di NFA per vedere quanto abbiamo scritto su questi temi, tutti, a prova che non solo io sono d'accordo, ma, essenzialmente, lo siamo tutti).

Il libro però, riguardo al mercato del lavoro, mette in

evidenza più l’inefficienza della contrattazione centralizzata che non la

mancanza di flessibilità. Dopo tutto gli autori sono consci che “precarietà”

e’ una brutta parola. Io e gli amici di NFA abbiamo argomentato altrove, che è

proprio molta ma molta più precarietà che serve al mercato del lavoro italiano.

(Certo, la chiamiamo flessibilità che suona meno peggio di precarietà). È necessario per i lavoratori

e per le imprese che entrare e uscire dal mercato del lavoro sia facile e rapido. Il lavoro

nero, la scarsa occupazione delle donne, l’eccessiva disoccupazione giovanile,

specie al sud, i bassisalari per i

giovani, sono tutti fenomeni causati in parte rilevante dalla mancanza di flessibilità. Confrontiamo la nostra situazione con quella del Regno Unito, dove il mercato del lavoro è molto più flessibile (riprendo da un vecchio articolo a firma di tutta la redazione).

 

Nel Regno Unito il tasso di occupazione medio è di circa 17

punti percentuali superiore all'italiano: 74% verso il 57%! Questo

significa che il cittadino inglese medio ha molte più opportunità di

lavoro di quello italiano. Ma le cose in Inghilterra sono

particolarmente migliori per i settori più a rischiò del mercato del

lavoro, quelli particolarmente esposti al rischio di

inoccupazione. Il tasso di attività delle donne da 20 a 24 anni è quasi

del 70%, in Italia è appena sopra il 30%. Il tassi di attività per le donne è, per ogni gruppo di età, almeno di 10 punti percentuali più alto nel Regno Unito. La situazione delle donne è la stessa di quella dei giovani. Da

30 a 55 anni il tasso di attività in Italia e Regno Unito è pressoché

lo stesso. Il divario grande è nel mercato del lavoro dei giovani, le

vere vittime del sistema italiano. La differenza è di 25 punti

percentuali per il gruppo da 20 a 25 anni di età: nel

Regno Unito oltre il 70% lavora, mentre in Italia solo

il 45%. Il nostro problema è tutto qui. Questa è la differenza tra un

mercato del lavoro (e quindi una società) dinamico e vivo e uno

ingessato e necrotico! Se guardassimo a questi dati per il Sud del

paese, dove la rigidità, la contrattazione collettiva nazionale ed il

posto pubblico fisso la fanno da padroni, le cose sarebbero ancora più

drammatiche.

 

A mio avviso questo non è detto in modo abbastanza chiaro e

forte, nel libro. Un confronto tra il mercato del lavoro italiano e quello del Regno Unito o dell'Irlanda (che sta

attraendo i giovani migliori dalla Francia - 20 mila immigrati francesi in Irlanda, negli

ultimi anni - e dal resto dell’Europa a causa

della vitalità della sua economia e delle sue politiche liberiste nel mercato del lavoro) sarebbe stato molto utile ad argomentare a favore della flessibilità.

Commento 2: Peccati di omissione.

Ma a parte la questione del mercato del lavoro, ci

sono due peccati di omissione nella diagnosi del declino contenuta nel libro. A mio

avviso sono due peccati di omissione gravi: non si parla di tasse né di mezzogiorno.

Il paese è tassato a livelli altissimi. Una idea delle tasse in percentuale del PIL, in media, per diversi paesi viene dal rapporto di Citizens for Tax Justice, ed è contenuta qui. È vero, alcuni paesi del Nord Europa e la Francia hanno tasse più elevate, ma in Italia nel 2005 le tasse in percentuale del PIL erano sopra al 40%; circa il 5% in più che in Spagna, 10% in più che in Irlanda, e 15% in più che negli Stati Uniti.

Le tasse

sulle imprese– non compensate da efficienti

servizi pubblici- le rendono meno

competitive sui mercati internazionali. I dati sul cuneo fiscale, la differenza fra quanto un lavoratore costa

all'impresa e quanto il medesimo lavoratore guadagna dall'essere

impiegato, fanno impressione: il 38% in Italia, il 35% in Spagna, il 25% nel Regno Unito, il 19% negli Stati Uniti, l'11% in Irlanda. E la situazione peggiora drammaticamente. L'articolo di Andrea e Thomas Manfredi sulla oppressione fiscale documenta con chiarezza la mancata crescita del reddito disponibile delle famiglie dovuta all'aumento dell'imposizione fiscale.

E non è tutto qui. i) La spesa pubblica, come sappiamo, è spaventosamente inefficiente: questo significa che il cittadino e le imprese ricevono poco, relativamente ad esempio alla Francia, in cambio delle tasse; e ii) l'evasione è elevatissima e concentrata per professioni (sappiamo bene che i lavoratori dipendenti contribuiscono in misura sproporzionata al gettito fiscale): questo significa che i costi di inefficienza e distorsione del sistema fiscale sono enormi.

Inoltre il mezzogiorno riceve da cinque decenni trasferimenti e risorse nette. Le pensioni di invalidità, la sovra-rappresentazione delle popolazioni meridionali negli impieghi pubblici, gli immensi trasferimenti per la sanità al Sud sono gli esempi più ovvii. Un solo esempio: la spesa sanitaria rispetto al PIL ha il suo valore massimo in

Campania – dati 2004 – pari al 9,89% più che doppio del valore minimo,

registrato in Lombardia, pari a 4,46% (i dati provengono dal Rapporto Osservasalute 2007 pubblicato dall'Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni

Italiane che ha sede presso l'Università Cattolica di Roma). Sorprendentemente, al Sud è anche concentrata una frazione molto elevata della evasione fiscale. Ad esempio abbiamo qui notato come dai dati della Agenzia delle

Entrate sulle stime dell'evasione fiscale IRAP risulti che l'intensità dell'evasione (Media 1998-2002 base imponibile evasa / dichiarata) sia ad esempio del 13% in Lombardia, del 22% in Emilia Romagna, cioé al livello per esempio della Francia; mentre sia superiore al 50% in buona parte del Sud, ad esempio

del 60% in Campania e in Puglia, del 65% in Sicilia, e addirittura del 93% in Calabria.


Una parte sostanziale (difficile da quantificare per ovvie ragioni, ma non credo di sbagliarmi nel definirla sostanziale) delle risorse distribuite al Sud sono distribuite attraverso la criminalità organizzata e

una classe politica ad essa funzionale. Tali trasferimenti e risorse hanno reso

il mezzogiorno completamente dipendente dal resto del paese, senza riuscire affatto – anzi – a

chiudere la distanza tra il Nord e il Sud in termini di reddito e di ogni

variabile socio-economica che si voglia utilizzare come indice di qualita’

della vita. La questione meridionale è viva e vegeta come ai tempi di Sidney Sonnino e poi di Gramsci.


Il declino italiano deriva in modo fondamentale, a mio avviso, dalla combinazione tra la eccessiva e distorta pressione fiscale e la questione meridionale. Un'analisi del declino che omette tasse e mezzogiorno è necessariamente parziale, a mio avviso, per una ragione fondamentale: il

paese non ha più margini di manovra per alcuna politica economica di sostanza. Ad esempio, una vera flessibilità del mercato del lavoro richiede seri (e costosi) ammortizzatori sociali, per ammortizzare appunto gli effetti di breve periodo di un mercato del lavoro flessibile. Ma non c'è spazio per nulla di simile, nel bilancio. Le tasse sono troppo elevate, non si possono alzare per finanziare gli ammortizzatori sociali. Non resta che tagliare la spesa altrove. Ma nessun sistema democratico taglia agilmente la spesa. E in Italia significherebbe tagliare soprattutto al mezzogiorno, dove la spesa è maggiore e più improduttiva. E quindi siamo bloccati.

Eppure tagliare le tasse è fondamentale, come abbiamo sostenuto altrove. (Qui non siamo in Amerika, dove c'è un dibattito serio tra coloro che pensano che le tasse vadano tagliate e coloro che pensano di no; il dibattito è serio in Amerika perché lì la pressione fiscale è al 30%; ai nostri livelli, oltre il 45%, non c'è storia, il paese è imbalsamato e le tasse vanno tagliate). Le tasse sul reddito individuale limitano l’offerta di lavoro. Chi fa

straordinari è solo chi può evadere la tassa marginale, che per redditi

tipici da professionista, è ben superiore al 50%. Ancora una volta,

guardiamo all’Irlanda, ma anche al Regno Unito. Il mezzogiorno potrebbe essere

l’Irlanda, crescere a ritmi 4 voltre superiori al resto dell'Italia per recuperare la

stagnazione dei decenni (secoli) passati. Certamente la criminalità organizzata non

aiuta nel confronto, ma i trasferimenti assistenziali passano ben da lì: non

aiutano il mezzogiorno, soffocano il Nord,

e in compenso aiutano la criminalità organizzata che li controlla.

Non c’è via d’uscita, a mio parere. Queste sono cause primarie del declino del paese. Il declino del

paese è legato in modo fondamentale all’eccessiva tassazione che soffoca le imprese produttive e

l’offerta di lavoro, all’evasione che concentra la tassazione tra i lavoratori

dipendenti e al Nord, alla spesa pubblica onnivora, inefficiente, che produce

assistenzialismo al Sud e arricchisce di denaro e potere la criminalità

organizzata. E quindi, se si parla di cure, non si può fare a meno di mettere in evidenza, meno spesa, meno tasse, più responsabilità fiscale al mezzogiorno (ebbene sì, federalismo fiscale, Michele e Aldo Rustichini ne hanno parlato da tempo). E poi certo, la rigidità del

mercato del

lavoro che penalizza i giovani specie al Sud, e le donne dappertutto, i mercati

finanziari che falliscono nell’obiettivo di finanziare e sostenere

l’imprenditorialità e la produttività; e la mancanza di concorrenza e

l’università in fallimento, certo, anch'esse non aiutano il paese.

Commento 3: Peccato di retorica. Il libro mette molto in evidenza quanto della situazione economica del paese i giovani paghino un costo elevato e soprattutto relativamente superiore ai cinquantenni e ai sessantenni. È chiaro che in un mercato del lavoro come il nostro i giovani faticano a trovare lavoro a tempo indeterminato. Costringere l'impresa ad assumere o a breve o a tempo indterminato (come in effetti oggi è il caso in Italia) significa trasformare quelle posizioni a medio termine in contratti a breve possibilmente rinnovati fino al raggiungimento del "medio termine" (con ogni sorta di inefficienze nel frattempo, comprese tante delle lamentate forme di precariato). È chiaro che in un mercato finanziario inefficiente e in mancanza di forme di concorrenza un po' dappertutto, le imprese non crescono, sono passate di padre in figlio, e i giovani non "figli di" fanno fatica a intraprendere qualunque cosa. È chiaro che in un mercato delle professioni molto poco concorrenziale, i giovani spendono anni in inefficienti forme di praticantato.

Ma la risposta a questi problemi deve essere strutturale, nel senso che deve agire sulle cause strutturali di questa situazione, non sugli effetti superficiali. Presentare la crisi economica del paese come una questione distributiva, i giovani perdono e i vecchi vincono, è forse retoricamente utile ma analiticamente controproducente. Si finisce per argomentare a favore di "quote per i giovani" o a favore di un "ricambio della classe dirigente", mentre deve essere chiaro che non di questo c'è bisogno, ma di una liberalizzazione del mercato del lavoro, così come di molti (quasi tutti) gli altri mercati (ne abbiamo discusso anche qui). Gli autori del libro, quando producono analisi, non cadono affatto nella tentazione di propugnare posizioni tipo "quote per i giovani" o "ricambio della classe dirigente"; ma la retorica è presente, fin dal titolo e questo ha motivato il mio commento.

Infine, anche se la questione fosse puramente re-distributiva, e cioé anche le la questione fosse che le politiche economiche favoriscono i vecchi, la questione non sarebbe così grave come spesso si pensa. I vecchi muoiono e lasciano di solito molto ai figli, e spesso lo fanno anche prima di morire. Molti dei giovani italiani se le sono già spese le pensioni dei propri genitori, da cui si sono fatti comprare la casa in cui vivono, da cui si fanno finanziare gli anni di praticantato e precariato, con le cui tasse si pagano la scuola che frequentano, e così via. Con questo non voglio certo sostenere che non fa differenza se si distribuisce a favore dei vecchi o dei giovani, la differenza c'è eccome. Ma non è così grave come distribuire a favore dei ricchi: i ricchi non hanno l'abitudine di dare i soldi ai poveri, né in vita, né in morte. I vecchi invece sì, danno soldi ai giovani, in forma di figli. (Gli economisti hanno anche un nome per questo tipo di argomentazione, Ricardian equivalence, che ci ricorda che l'argomento è vecchio come la teoria economica).

Commento 4: Peccato di omeopatia. Il lettore si sarà già chiesto, guardando alla lista delle politiche praticamente suggerite dagli autori, che relazione abbiano con la diagnosi del declino, come possano curare il declino. A mio avviso questo è il punto più debole del libro. Le cure nella lista sono minimali, cure omeopatiche per malattie mortali, e nemmeno poi tanto appropriate rispetto alla diagnosi.

Il reddito minimo garantito è politica discutibilissima da un milione di diversi punti di vista, soprattutto in termini degli incentivi perversi che potenzialmente genera (si pensi alle pensioni di invalidità così ampiamente distribuite specie al Sud). Ma soprattutto non se ne vede la funzione di cura delle cause del declino; anzi! Lo stesso vale per la proposta del contratto unico, strutturato per legge nei tempi e nei modi. Pare, ed è, misura opposta all'aumento della flessibilità del mercato del lavoro. Lo stesso argomento si può fare per i sussidi alla natalità. Onestamente non capisco. Sembrano politiche indipendenti. Certo, coi sussidi alla natalità forse nascerebbero più bambini, ma non si ovvierebbe in alcun modo ai disincentivi strutturali alla fertilità, disincentivi che ad esempio stanno nel mercato del lavoro, come abbiamo argomentato. Mi pare che queste politiche siano un modo di gettare soldi/finanziamenti ai problemi, senza utilizzare l'analisi delle cause dei problemi, che pure appare nei capitoli precedenti. Sulle altre politiche, deregolamentazione delle libere professioni, riforma pensionistica a favore del

metodo contributivo, liberalizzazioni varie, naturalmente sono d'accordo (anche se, nel caso delle pensioni, non vedo cosa c'entri la specifica questione delle pensioni di reversibilità: il metodo contributivo risolve la questione di per sé). Ma comunque sono proposte di cura minimali.

Tito e Vincenzo, io credo, hanno elaborato queste proposte, che io ho definito minimali, nella convinzione che nulla di più possa essere approvato oggi in Italia. Hanno probabilmente ragione: loro conoscono i vincoli politici del paese infinitamente meglio di me. Ma Tito e Vincenzo sono economisti e io credo che avrebbero fatto un ancora miglior servizio al paese propugnando le politiche economiche più efficaci, necessarie a fermare il declino, senza internalizzare i vincoli politici.

In conclusione, la mia risposta all domanda del titolo:

 

L'Italia ha tradito le nuove generazioni? Sì, ma non è questo il punto.

 

 

 

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Commenti

Ci sono 47 commenti

Confondere Vasco Rossi e Ligabue (il vero autore di "una vita da mediano") rivela che tu, Alberto, appartieni ormai alla generazione dei vecchietti. 

 

 

che errore!  lo correggo, troppo brutto.

 

 

"Pagare di più gli insegnanti migliori, quelli più capaci, più

preparati"; sottomettere gli studenti "periodicamente a test

oggettivi", e favorire altre forme di meritocrazia nella scuola

secondaria; favorire la meritocrazia nell'attribuzione dei fondi per la ricerca

all'università, e in generale introdurre competizione nelle università.

 

Come si fa a introdurre la meritocrazia senza privatizzare scuole e università?

 

Riformare la struttura contrattuale del mercato del lavoro per istituire

un contratto unico, a tempo indeterminato, con le seguenti

caratteristiche: sei mesi di prova (alla fine del quale il

licenziamento è possibile senza particolari costi), un periodo di

inserimento, fino ai tre anni dall'assunzione (in cui il lavoratore è

tutelato contro il licenziamento disciplinare e discriminatorio e riceve una

indennità in caso di licenziamento per ragioni economiche), periodo di

stabilità (in cui la tutela contro il licenziamento si estende anche a

quello per ragioni economiche, suppongo secondo le linee di quello che succede

oggi ai contratti a tempo indeterminato).

 

Il "periodo di inserimento" e il "periodo di stabilità" sono assurdi. Se lo stato mi impedisce di liberarmi di un dipendente in caso di abusi, manifesta incompetenza, o di crisi economica, io continuerò ad assumere dipendenti a contratto. Perché poi non lasciare i datori liberi di decidere come regolarsi per il periodo di prova, invece di fissare sei mesi per tutti?

 

Assicurare un reddito minimo garantito a tutte le famiglie, come rete

di assicurazione sociale generalizzata.

 

Altri sussidi statali: proprio quello di cui l'Italia ha bisogno.

 

Un confronto tra il mercato del lavoro italiano e

quello del Regno Unito o dell'Irlanda [...] sarebbe stato molto utile ad argomentare a favore

della flessibilità.

 

Probabilmente è un'omissione intenzionale. Se avessero fatto un confronto avrebbero dovuto spiegare che qua in Gran Bretagna non ci sono "periodi di stabilità", articoli 18, TFR, che si può essere licenziati in qualsiasi momento per incompetenza o se la ditta è in cattive acque, che bisogna aspettare fino a 68 anni per prendere la pensione statale, ecc. Questo risulterebbe inaccettabile in Italia, anche a molti giovani che non trovano lavoro.

 

 

Dopo aver letto questa recensione (veramente bella), mi deprimo alla lettura, nel comunicato stampa del Consiglio dei Ministri (http://www.governo.it/Governo/ConsiglioMinistri/dettaglio.asp) della nomina di ben SETTE nuovi Ambasciatori.

Se il Governo Prodi fosse risultato tanto attivo nel corso

della sua legislatura chissà quanti discorsi avremmo potuto concludere.

Invece, nomine così importanti (con risvolti strategici all'estero) realizzate in questa maniera così arida (si direbbe " firmate sulla

scaletta dell'aereo"), mi sembrano un furto.

Da un importante botta e risposta tra la Farnesina e

Il Velino si possono trarre le molte contraddizioni alla

base di queste nomine (http://www.ilvelino.it/articolo.php?Id=497052#news_id_497052)

Perché adesso? Come sarà vista questa nomina così nascosta dalle nuove generazioni di diplomatici, di imprenditori, ma soprattutto come sarà giudicato il gesto dall'opinione pubblica?

 

 

 

il tasso di occupazione (il rapporto tra occupati e abitanti in età lavorativa) è strutturalmente basso, oggi al 57%, contro il 65% della media OCSE;

 

Con un tasso di disoccupazione quasi "fisiologico" del 5,6% (e 4 milioni di immigrati che lavorano), l'8% di minor occupazione rispetto alla media europea  (dovrebbero essere 2,5 / 3,0 milioni di persone) è un dato veramente allarmante. Mi piacerebbe sapere se ci sono degli studi che ne spiegano le cause. Assumendo che per la maggior parte si tratti di donne meridionali, mi domando se deriva da questioni culturali, se non c'è lavoro per cui hanno rinunciato a cercare occupazione, lavorano tutte in nero, hanno un marito che guadagna bene e dunque non c'è bisogno di lavorare ....  

Relativamente alle cause dei mali italici, mi pare che non si insista sufficientemente sulla necessità di allungare consistentemente, visto l'allungamento di 7 anni della vita media negli ultimi 25 anni,  il periodo di occupazione (o, che è lo stesso, ridurre drasticamente il periodo di pensione). Potremmo lavorare fino a 70 anni (a parte i lavori usuranti) riducendo sostanzialmente gli oneri contributivi e dunque il costo del lavoro. Si potrebbe anche evitare che l'ultima retribuzione mensile corrisponda alla più alta della intera vita lavorativa, cosa assurda dal punto di vista di quella che presumo essere una ragionevole "curva di  efficienza del lavoratore" ed anche socialmente poco logica, considerando che a 60-65 anni i figli si saranno sistemati, la casa pagata, ecc. Si potrebbe calibrare una riduzione della retribuzione (ad esempio partendo da 60 anni) con una proporzionale riduzione delle ore lavorate. 

 

Hey, Mario, ti sei svegliato liberale stamattina! Siamo tutti d'accordo, t'immagini. Anzi, invece di "calibrare" per contratto nazionale le ore da lavorare e lo stipendio, perché non lasciamo che la gente faccia quel che vuole, e lavori quanto vuole? L'unica cosa da fare è togliere la pensione a 58 anni (evito polemiche su scalini e scaloni ...), metterla a 65 e poi creare incentivi/disincentivi monetari (basati su vita attesa, piuttosto facile) per chi ci va un po' prima (diciamo dai 63 in avanti) o dopo. E togliere i regali pensionistici assurdi alle donne.

Perché il tasso di occupazione continua ad essere così basso? In parte hai già risposto tu: pensioni a go-go. Le donne, e soprattutto le meridionali, certamente. E qui, mancanza di servizi a parte, la cultura certamente gioca un ruolo. Ma anche la mancanza di lavori ad orario flessibile e parziale. La scarsa mobilità territoriale è senz'altro un altro fattore. Una parte poi è lavoro nero: anche se non implica farsi "beccare" dall'Agenzia delle Entrate, molta gente dichiara di non lavorare anche quando, magari, hanno il lavoro nero saltuario o a tempo parziale, o cose del genere. Nei dati, comunque, i fattori più grossi sono le pensioni e la partecipazione delle donne, molto anomali rispetto al resto d'Europa.

 

 

Con un tasso di disoccupazione quasi "fisiologico" del 5,6% (e 4

milioni di immigrati che lavorano), l'8% di minor occupazione rispetto

alla media europea (dovrebbero essere 2,5 / 3,0 milioni di persone) è

un dato veramente allarmante. Mi piacerebbe sapere se ci sono degli

studi che ne spiegano le cause.

 

Ho assistito ad un seminario di F.Giavazzi dove mostrava che c'e' correlazione nelle economie occidentali tra regolamentazione del mercato del lavoro e minore occupazione, un fattore aggiuntivo rispetto ai fattori culturali e' sicuramente quello.

Personalmente ritengo che in Italia il lavoro sia non solo iper-regolamentato ma anche iper-regolato complessivamente male. Ritengo che in presenza di nociva iper-regolamentazione risulti sub-ottimale l'allocazione dei lavoratori in base alle loro capacita' e produttivita' e al costo della vita di dove sono localizzate le imprese, e questo produce sia occupazione in nero sia disoccupazione localizzata territorialmente, fenomene entrambi in cui l'Italia eccelle tra le economie di mercato.

Forse il maggior elemento di iper-regolamentazione e' il contratto nazionale per i dipendenti delle grandi imprese e per gli statali, evidentemente insensato in presenza di una produttivita' media il 20% inferiore nel Sud, e di costi della vita e livelli di PIL pro-capite che sono al Sud la meta' circa rispetto al centro-nord (60-65% del reddito medio nazionale contro 110-120%). (Ulteriormente insensato dare uno stipendio reale molto superiore agli statali meridionali inpresenza di enormi esuberi a Sud e carenze nel centro-nord). Questa nociva iper-regolamentazione rende non conveniente per le grandi imprese creare lavoro al Sud, nonostante costosi e cospicui sussidi statali, e crea un insano incentivo in mancanza di lavoro legale in grandi imprese perche' i giovani meridionali cerchino lavoro nel settore statale improduttivo e denso di esuberi, oppure nell'economia sommersa e/o criminale. Ovviamente tutto questo mantiene il Sud sia piu' povero che meno produttivo per cui il circolo si chiude e tutto si tiene. Infatti piu' il Sud e' povero e con meno spesa si acquista consenso politico distribuendo i posti di lavoro statale, e piu' efficace e' la propaganda che giustifica l'insensata azione di governo dello Stato italiano, in realta' tra le cause prime del sottosviluppo meridionale, oltre che della minore occupazione complessiva a livello nazionale medio.

Un secondo fattore nocivo di regolamentazione del mercato di lavoro e' la struttura dei contratti nazionali concordati da imprenditori e sindacati, sempre nello Stato e nelle grandi imprese, con aumenti retributivi pattuiti prevalentemente per anzianita' e indipendenti dal merito. Questi contratti producono salari da fame ad inizio carriera, ed un incentivo innaturalmente elevato per i lavoratori alla fissita' dei posto di lavoro (altrimenti si perde l'anzianita' retributiva e/o non si trova piu' posto), con le note assurde posizioni dei sindacati sull'art. 18 considerato elemento minimo di "dignita". Allo stesso tempo producono un insano incentivo alle imprese ad assumere giovani e licenziare i lavoratori maturi, con conseguente periodica processione di imprenditori come De Benedetti e Agnelli a piatire dallo Stato pre-pensionamenti, scivoli e ogni altro espediente per liberarsi dei lavoratori maturi (con ipocrita promessa di assunzione di giovani). E' un funzionamento malato del sistema italiano, coperto con cura dalla disinformazione dei mezzi di comunicazione, che ovviamente produce disastri per quei lavoratori maturi, anche con elevate qualifiche, che perdono il posto di lavoro per il fallimento di industrie medio-piccole senza la protezione delle cosche politico-sindacali: come si legge nelle lettere sui giornali dopo 45-50 anni non c'e' piu' lavoro per nessuno.

 

 

 

Bellissima recensione. Per quanto riguarda il contratto unico lo si potrebbe parafrasare con la metafora del matrimonio: palpatina-fidanzamento-matrimonio (senza divorzio ovviamente altrimenti chi le sente le sante gerarchie). Alla prima palpatina (sei mesi di prova) segue il fidanzamento (inserimento, ogni refierimento lessicale a cose sporche è puramente casuale), che finalmente culmina nel matrimonio (periodo di stabilità !??). Ora dato che in questo modo è praticamente certo che una volta raggiunta l' agognata meta, ed in assenza di possibilità di tradimento, il lavoratore ha zero incentivi ad essere produttivo, mi domando in cosa consiste effettivamente la differenza con il sistema attuale. Si dissimula con una sola forma contrattuale quello che ora è ottenuto con una pluralità. Il vero problema sono gli altissimi firing cost impliciti nel nostro mercato del lavoro, che limitano la creazione di posti di lavoro Questa proposta non sembra incidere là dove sarebbe opportuno. D' accordo con un solo contratto (formalmente a tempo indeterminato non fa differenza, as US suggests), ma con possibilità di essere mandato a casa se non si produce e o se le cose andassero male. Chiamasi meritocrazia. O no?

 

Tito Boeri era venuto da noi in facoltà (Economia a Venezia, ndr) per presentare questo libro. In quella occasione,ì la discussione si era sviluppata in parte sul contratto unico di lavoro, tema presumo a lui molto caro, per poi spostarsi sulle (in)efficienze del sistema scolastico, soprattutto universitario, attuale. Essendo in un contesto accademico, presumo non abbia voluto sbilanciarsi molto sulle cause di malattia del sistema universitario, ma si è soffermato solo sulle conseguenze. Ad essere sincero, mi ha un po' deluso quel giorno. Un po' troppo sindacalista e poco liberista. 

Mi ha comunque particolarmente impressionato tutta la parte sull'eredità che i "vecchi" daranno ai giovani. Alcune cose non le avevo considerate. Tipo: ora vivo  a casa dei miei (bamboccione); mio padre, col suo stipendio da impiegato, l'ha costruita senza contrarre alcun mutuo, 25 anni fa. Io, oggettivamente, non potrei mai farcela.

Non sono un economista di professione ma mi interesso alla materia da appassionato. Mi sono sempre meravigliato di non trovare mai negli articoli il riscontro di quanto a me appariva lampante e marchiano: che un'Italia con una palla al piede come quella data dalla questione meridionale non poteva essere piu' competitiva a livello euopeo e mondiale. Finalmente Bisin ha dato voce, in modo chiaro e ben organizzato, a cio' che intuivo. Purtroppo il recupero del meridione passerebbe dalla lotta alla criminalita' organizzata. E' questo gia' e' una impresa non facile. Ma soprattutto passerebbe da un cambio radicale di mentalita', per la quale ogni impresa, attivita' ecc. e' inquinata da logiche mafiose. Parlo di logica, di mentalita'. Forse l'idea di un federalismo, non solo fiscale, potrebbe cambiare progressivamente tale stato. Invece per quanto riguarda il problema del basso tasso di occupazione nazionale sono meno convinto: l'aumento dell'impegno lavorativo delle donne con conseguente riduzione del loro spazio per se' stesse e per la famiglia ha poi tutta una serie di costi, emotivi e personali, che credo sia difficile quantificare ma che emerge facilemente quando si parla con le lavoratrici.

Mi rendo conto, rileggendolo, che il mio intervento possa risultare parecchio reazionario ma tant'e', questo e' quanto mi son trovato a pensare. Un vecchio e saggio avvocato diceva sempre: Chi a vent'anni non e' comunista e' senza cuore, chi a cinquant'anni lo e' ancora e' senza cervello. Potrebbe aver avuto ragione. Io i 20 anni li ho passati da un pezzo...

A proposito di avvocati: faccio fatica  anche a capire come un aumento della concorrenza tra di loro potrebbe far aumentare in modo significativo la competitivita' del sistema Italia. Al piu' farebbe calare un poco le loro parcelle. Meglio di niente, certo. Ma sempre molto poco. Una omeopatia. appunto. 

Un caloro grazie al dott. Bisin per la recensione/articolo estremamente ineressante.  

  

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  

 

Non credo che qui nessuno si aspetti grandi aumenti di competitività dalla sola concorrenza tra avvocati; se però estendiamo il discorso a tutte le categorie che godono di rendite protette (notai, tassisti, farmacisti i più noti, ma ce ne sono dozzine) a qualcosa serve.Ed ha l' effetto collaterale di dare più occasioni ai giovani senza santi in paradiso.

Quello che invece potrebbe davvero dare un' impulso all' economia (ma soprattutto alla vita civile del paese) è un rivoluzionamento del sistema giudiziario, soprattutto riguardo ai tempi di risposta. Io sospetto che la palude giudiziaria e quella forense si alimentino a vicenda.

 

A quel che sembra le regioni dell'Italia settentrionale hanno goduto negli ultimi cinquanta anni di un vigoroso sviluppo. Questo sviluppo sociale ed economico (spettacolare per il Nordest che partiva da condizioni di indigenza) è testimoniato dai livelli raggiunti dalle "competenze" (misurate dai test PISA-OCSE) dei quindicenni, dalla piena occupazione, dal reddito, dalla bassa evasione fiscale, dal basso tasso di criminalità, ecc. ecc. Non sembra che su questo sviluppo abbia pesato il sottosviluppo del mezzogiorno, che forse, invece, può aver contribuito fornendo manodopera qualificata che fuggiva da una società arretrata. In queste condizioni sembrerebbe che possa valere, per la "questione meridionale", il suggerimento offerto a Nixon da Moynihan per il problema, allora drammatico, delle condizioni di sottosviluppo della minoranza afroamericana: "benign neglect".

 

 

A quel che sembra le regioni dell'Italia settentrionale hanno goduto negli ultimi cinquanta anni di un vigoroso sviluppo. Questo sviluppo sociale ed economico (spettacolare per il Nordest che partiva da condizioni di indigenza) è testimoniato dai livelli raggiunti dalle "competenze" (misurate dai test PISA-OCSE) dei quindicenni, dalla piena occupazione, dal reddito, dalla bassa evasione fiscale, dal basso tasso di criminalità, ecc. ecc.

 

Io direi che le regioni settentrionali hanno goduto di vigoroso sviluppo dal 1950 al 1985, e il Nord-Est probabilmente con un picco tra il 1970 e il 1985.  Dopo il 1985 il peso dello Stato e della corruzione politica e' diventato insostenibile, e c'e' stato declino (rispetto ai paesi comparabili a noi, come Francia, Germania, UK, Spagna). Il declino e' stato interrotto solo da una significativa ripresa dopo la svalutazione del 30% della lira nel 1992, ripresa comunque poco sana.

 

Non sembra che su questo sviluppo abbia pesato il sottosviluppo del mezzogiorno, che forse, invece, può aver contribuito fornendo manodopera qualificata che fuggiva da una società arretrata.

 

Numericamente, in rapporto alla popolazione locale, credo l'emigrazione meridionale sia stata massima nel Piemonte specie nella provincia di Torino (dove ci sono stati i primi comuni settentrionali sciolti per infiltrazione mafiosa). Rispetto alle altre aree del Nord, ritengo che l'immigrazione meridionale abbia alimentato piu' il portafoglio degli Agnelli, e della grande industria italiana, assistita e perdente internazionalmente, piuttosto che lo sviluppo economico vero e proprio. Infatti c'e' stato comparativamente molto maggiore sviluppo economico nel nord-est (inclusa Lombardia orientale ed Emilia Romagna), regioni meno soggette ad immigrazione meridionale.

Ritengo che lo sviluppo del Nord-Est si spieghi abbastanza bene come convergenza economica "naturale" col Nord-Ovest in presenza di capitale sociale comparabile e di democrazia, come documentato nei decennali studi di R.Putnam ("Making democracy work").


Riguardo l'effetto del mezzogiorno sullo sviluppo economico del Centro-Nord, secondo me l'effetto prevalente del Sud povero sull'economia settentrionale e' una diminuzione dei salari dei dipendenti settentrionali, specie delle grandi imprese, a causa dell'immigrazione e dei contratti nazionali che mediano tra aree ricche e produttive ed aree povere e meno produttive. Questo significa che mentre a Sud diventa non conveniente investire, a Nord la produttivita' (prodotto diviso salari innaturalmente bassi) si alza. Questo comporta maggiore occupazione nel Nord Italia (rispetto a paesi statalisti comparabili come Francia e Germania), e maggiore competitivita'. Purtroppo i grandi imprenditori del Nord (di qualita' inferiore rispetto a quelli d'Oltralpe) hanno sfruttato in maniera sbagliata questo innaturale vantaggio, incassando extra-profitti e specializzandosi in produzioni di bassa qualita' a basso prezzo (cosi' sono viste tradizionalmente le auto Fiat in Francia e Germania), o comunque di basso contenuto tecnologico (piastrelle, rubinetti, abbigliamento).


Va aggiunto per completezza che un secondo fattore ha alimentato la produttivita' delle imprese settentrionali (anzi, in realta' di tutte le imprese italiane): la debolezza, svalutazione

e sottovalutazione della Lira, consequenza  della scarsa credibilita' dello Stato italiano, del deficit e debito statali, e dell'elevata inflazione. Qui il ruolo del Sud e' indiretto, e si tratta semmai di problemi dello Stato italiano nel suo complesso.

 

 

In queste condizioni sembrerebbe che possa valere, per la "questione meridionale", il suggerimento offerto a Nixon da Moynihan per il problema, allora drammatico, delle condizioni di sottosviluppo della minoranza afroamericana: "benign neglect".


 

Probabilmente il problema del Sud e' proprio l'eccessiva attenzione cui e' soggetto, peraltro consensualmente, da parte dallo Stato italiano con "aiuti" che ne mantengono il sottosviluppo ma in cambio ne ottengono voti clientelari. Dopo aver visto lo sviluppo di Irlanda, Spagna e Grecia, ritengo che proprio l'azione dello Stato italiano sia il maggior problema del Sud, che ormai e' l'area economica piu' povera di tutta l'Europa occidentale (vedi Newsweek).

 

"Io e gli amici di NFA abbiamo argomentato altrove, che è

proprio molta ma molta più precarietà che serve al mercato del lavoro italiano.

(Certo, la chiamiamo flessibilità che suona meno peggio di precarietà). "

Le due parole non sono affatto la stessa cosa...

Con un mercato del lavoro duale, tipici contro atipici, giovani contro anziani, in un paese dove il welfare è tutto per pensioni e sanità ( SOD e CIG non riguardano di certo i giovani atipici), dove il mercato delle professioni è bloccato, dove accedere ad un mutuo senza la firma paterna è impossibile, la flessibilità diventa precarietà, per molti giovani italiani.

Il problema per loro non è certamente la più alta incidenza di contratti a tempo determinato o atipici rispetto alle altre generazioni, cosa comune a tutta Europa, ma un mix letale composto da assenza di welfare, da una società bloccata dai vari

interessi di categoria, università non all'altezza e una struttura produttiva

non adeguata alle sfide della globalizzazione.

Ma pensare di introdurre altra flessibilità senza agire sulla radice dei problemi, finisce solamente per creare emarginazione sociale, perpetuando le caste contro la mobilità sociale.

Un analisi più approfondita di quanto esposto (certamente in maniera superficiale) la trovate in:

www.theye.it/index.php

 

 

 

Completo disaccordo. Il mercato del lavoro flessibile e' quello che oggi e' definito precarieta'. L'affermazione che la societa' e l'economia italiana sia illiberale e che un mercato del lavoro flessibile funziona meglio in una societa' e specie in una economialiberale, mi trova d'accordo.Il suggerimento che prima di liberalizzare il lavoro bisogna cambiare tutto il resto, cosi' che sia impossibile  a farsi e' figura retorica trita e abusata per giustificare lo status quo.

Liberalizzare una professione alla volta e' inapprpriato, ma liberalizzare tutto il mercato del lavoro (anche senza il resto) darebbe un mucchio di respiro ai giovani e alle donne, nel nostro paese. E poi il resto, "siamo realisti, sogniamo l'impossibile".  

 

Domanda: potresti definire i due termini, ossia flessibilita' e precarieta', cosicche se ne possa apprezzare la differenza. Ne' il tuo commento ne' il posto a cui rinvii, nel cui merito magari entriamo dopo aver definito i termini, sono chiari a questo proposito, il che rende la diatriba alquanto fumosa. Una volta che abbiamo un linguaggio comune, magari si riesce a discutere.

 

Prima di tutto, la parola precarietà è utilizzata nel mio articolo 5 volte di cui una nel titolo e quando la utilizzo, la uso per parlarne nell'accezione generale, secondo la visione comune tipo:  "c'è chi...critica tali riforme perchè hanno introdotto un elevato livello di precarietà, soprattutto giovanile." oppure "perchè si parla tanto del fenomeno "precarietà?".

Parlo invece, di flessibilità parlando specificatamente di forme contrattuali.

La tesi del mio articolo, che si può condividere o no, senza scimmiottare l'interlocutore con cui si parla, è che l'elevato livello di precarietà presente in Italia non deriva in sè dalla flessibilità contrattuale, ma dall'assenza di welfare (dedicato), dualità nel mercato del lavoro, e più in generale  da un equilibrio tra domanda e offerta di lavoro caratterizzato da bassi salari e bassa produttività  sui cui agiscono sia fattori dovuti all'offerta (sistema universitario per esempio), sia della domanda (posizionamento competivo dell'economia italiana) oltre che, ovviamente, fattori istituzionali.

Da questo punto di vista modelli teorici come quelli di Acemoglu, possono aiutare a spiegare come un sistema economico possa trovarsi su equilibri così caratterizzati.

Infine, affermo che in Italia si è pensato di poter risolvere il problema della bassa occupazione, solo con la flessibilità contrattuale (quasi solo verso giovani e donne), in una strategia "working poor", piuttosto che pensare di riformare il sistema in toto, cosa che avrebbe portato ovviamente a scontrarsi con vari interessi di "categoria" (credo che su questa linea sia anche il libro di Giavazzi e Alesina).

 

 

 

 

 

Insomma, "precarietà" vuol dire, se capisco bene, che in Italia si creano molti lavori a bassa produttività e quindi a basso salario. Concordo. Non la chiamerei precarietà, ma bassa produttività; comunque basta capirsi. Che la scarsa qualità del sistema scolastico sia una delle cause, non dubito. Che l'altra sia il fatto che in Italia aziende innovative e ad alta produttività non se ne creano o non vengono, concordo pure. Quale sia la causa di questo secondo fenomeno, sarebbe interessante capirlo.

A mio avviso, quattro delle ragioni per cui aziende high-tech con alta produttività del lavoro in Italia non vengono, e non verranno, sono: 1) la scarsa qualità del sistema educativo ed universitario in particolare, 2) l'orrenda qualità dei serivizi pubblici produttivi e dei trasporti in particolare, 3) l'altissima e bizantina tassazione del reddito da lavoro qualificato, 4) le rigidità contrattuali e l'invadente presenza del monopolio sindacale nella "grande" industria ed in tutto ciò che è "avanzato", come tali aziende dovrebbero per definizione essere.  

La dualità del mercato del lavoro italiano (protetti vs non protetti) mi sembra anche il naturale prodotto d'equilibrio dello strapotere sindacale nel settore "ufficiale" o protetto. In Italia lo stato sociale per i lavoratori "ufficiali" o "protetti" esiste: si chiama statuto dei lavoratori, illicenziabilità per ragioni economiche e cassa integrazione infinita. Ovviamente, con uno stato sociale così costoso per una parte della forza lavoro, l'altra deve accontentarsi del niente più assoluto. Le due metà, messe assieme, fanno uno stato sociale "medio" in termini di costi per il sistema produttivo, ma ovviamente molto ma molto più inefficiente per il complesso del paese. Follia? Concordo assai: follia totale.

Ora che ci siamo capiti eviterei di chiamare tutto questo "precarietà" ed userei invece le parole adeguate: scarsa produttività, monopolio sindacale, inefficienza dei servizi, alta tassazione, eccetera. 

P.S. Cosa c'entra Acemoglu in tutto questo? L'uomo scrive tanto, e si fa fatica a seguirlo. M'incuriosisce che una delle tante cose che ha scritto aiuti a capire l'Italia degli ultimi trent'anni. Quale?

 

 

1) Citavo Acemoglu parlando di equilibri a bassa produttività e bassi salari ( Bad job vs Good job, 2001 mi pare), ma può essere citato per i paper che parlano di complementarietà tra capitale fisico e capitale umano, che in mercati di lavoro imperfetti possono generare esternalità positive (skill bias technology) nell'investimento in istruzione o più in generale in capitale umano.

2) Io parlo di precarietà perchè tale è lo status di coloro che vivono nella più totale precarietà e incertezza socio economica, spesso in contesti familiari inadeguati. Spesso costretti dalle esigenze ad accettare qualsiasi condizione contrattuale con rinnovi infiniti di contratti, magari "a progetto", che in alcuni casi mascherano contratti di lavoro di tipo subordinato.

Senza parlare del problema della contribuzione ai fini pensionistici.

Poi che ci siano molti "ma non solo" dei fattori che lei cita, concordo, ma quelle sono le cause, la precarietà è la loro conseguenza.

D'altronde fare riferimento per l'Italia, ad ottimi lavori come quello

di Flinn (2001), da lei non citato ma sulla cui tesi immagino concordi, che giustificano la compressione salariale, con la

rigidità del lavoro e la mancanza di flessibilità, alla luce delle recenti

riforme del mercat del lavoro, rischia di essere incompleto e inesatto.

Quell'analisi faceva

riferimento al periodo "pre-Treu". Ora invece, una dose massicia di

flessibilità e deregulation nel mercato del lavoro, mi pare sia stata

inserita, e i risultati in termini di dispersione salariale mi pare

siano andati nella direzione opposta a quella prevista, o meglio la

compressione è rimasta.

Il problema, quindi, non può essere scaricato solo sui sindacati (che hanno sicuramente le loro colpe). Dal lato della domanda di lavoro, inoltre, non si può giustificare solo con un eccesso di tassazione e regolazione, una classe dirigente "produttiva" che negli ultimi 20-30 anni, almeno, ha sempre preferito i patti di sindacato e il lobbying all'investimento produttivo.

Perchè, poi, non parlare di una tassazione sul lavoro "flessibile" più bassa di quella sul lavoro a tempo indeterminato?

Più in generale, se un lavoratore assicura flessibilità all'azienda, dovrebbe essere premiato e non penalizzato e dovrebbe costare di più e non meno, dovrebbe funzionare così  il mercato (il modello base di un auto costa meno di quella con gli optional...)

Infine, incentivare una azienda ad utilizzare contratti flessibili con alti turn over dei suoi dipendenti, non favorisce certamente la formazione di capitale umano e la produttività.

Mi scuso per la lunghezza, il tema è ampio e la trattazione rischia sempre di essere imcompleta.

 

Andiamo per ordine, perché cercando di parlare di tutto si parla di nulla e di dicono cose a caso, da entrambe le parti. Ritorniamo al tema di partenza, flessibilità del mercato del lavoro = precarietà?

Dici tu

 

Citavo Acemoglu parlando di equilibri a bassa produttività e bassi

salari ( Bad job vs Good job, 2001 mi pare), ma può essere citato per i

paper che parlano di complementarietà tra capitale fisico e capitale

umano, che in mercati di lavoro imperfetti possono generare esternalità

positive (skill bias technology) nell'investimento in istruzione o più

in generale in capitale umano.

 

Mi potresti spiegare in che senso questi temi a cui fanno cenno servono a capire l'Italia? Io il nesso non lo vedo, non vedo le esternalità e tutto il resto. Ma con un po' di pazienza forse ci si capisce. 

Certo, la complementarietà fra (qualità tecnologica del) capitale fisico e (livello del) capitale umano è un dato di fatto. Non mi pare un contributo saliente di DA ... Ma tralasciando i crediti accademici, anche questo ovvio fatto, in che senso aiuta a capire la dualità (che poi a me sembra una "quadralità": sommersi, indifesi emersi o atipici o come volete chiarmali voi, protetti dal sindacato, professionisti ed autonomi)  del mercato del lavoro italiano?

Parto da qui perché è il primo tema nel tuo commento. Se vuoi provare a partire da un altro partiamo da un altro. Vorrei solo capire il ragionamento che lega una cosa all'altra, ed alla prec/flex in particolare.  

 

 

Sono d'accordo con Boldrin quando si concentra su 4 aspetti del problema poca produttività e assenze di settori ad alta produttività:

"..1)

la scarsa qualità del sistema educativo ed universitario in

particolare, 2) l'orrenda qualità dei serivizi pubblici produttivi e

dei trasporti in particolare, 3) l'altissima e bizantina tassazione del

reddito da lavoro qualificato, 4) le rigidità contrattuali e

l'invadente presenza del monopolio sindacale nella "grande" industria

ed in tutto ciò che è "avanzato", come tali aziende dovrebbero per

definizione essere. "

 Credo che il motivo 1) sia quello che importa nel lungo periodo (infatti 30 anni di poche eccellenze universitarie nei settori più tecnologici hanno avuto l'attuale risultato) mentre i motivi 2) e 3) spiegano le difficoltà di breve periodo per instaurare imprese di questo settore. Sul punto 4) non saprei. Mi sembra che altri paesi, anche con sindacati fortemente invasivi nella contrattazione (paesi del Nord Europa, Francia, Germania), abbiano settori fortemente produttivi. Insomma non so se esista evidenza teorica ed empirica della relazione forte Sindacato = pochi incentivo nei settori produttivi.

 Mi pongo quest'altra questione: come si spezza il ciclo virtuoso di giovani che si laureano in materie umanistiche (non scientifiche), cercano professioni attinenti il loro studio, una vasta offerta di questi lavori perché il Paese ci punta molto anche se non sono altamente produttivi, sempre più forte lobby nel mantenere questi lavori... e nuovi figli che avendo genitori che si sono laureati in queste materie tendenzialmente sceglieranno queste materie e rinizierà il circolo?

Non so se è chiaro il circolo virtuoso, (sono le 2 a.m.) magari il prossimo post sarò più chiaro ma al momento mi sembra che in Italia difficilmente i figli di laureati in materie umanistiche si laureano in materie scientifiche e che questo aumenta la domanda di lavori a bassa produttività. Certo molte cose sono date scontate, ma il discorso regge? 

 

 

Credo che il motivo 1) sia quello che importa nel lungo periodo

(infatti 30 anni di poche eccellenze universitarie nei settori più

tecnologici hanno avuto l'attuale risultato) mentre i motivi 2) e 3)

spiegano le difficoltà di breve periodo per instaurare imprese di

questo settore. Sul punto 4) non saprei. Mi sembra che altri paesi,

anche con sindacati fortemente invasivi nella contrattazione (paesi del

Nord Europa, Francia, Germania), abbiano settori fortemente produttivi.

Insomma non so se esista evidenza teorica ed empirica della relazione

forte Sindacato = pochi incentivo nei settori produttivi.

 

Ragiono a naso, ovviamente, ma l'osservazione di altri paesi europei suggerisce che tutti giocano un ruolo, anche se forse quantitativamente distinto. Ecco, questo sarebbe argomento per un'ottima tesi di PhD, o anche due o tre.  Butto lì delle osservazioni a caso, visto che credo si nasconda un economista in erba dietro al nomignolo "format".

- Non contano solo le eccellenze universitarie, conta anche l'ingegnere medio e l'economista medio. Se sono preparati le aziende funzionano meglio. Certo che ovviamente contano anche le eccellenze, soprattutto per l'innovazione di punta. Ma ho il sospetto che se uno prova ad usare il tasso di scolarizzazione universitaria media moltiplicato per misure obiettive di conoscenza (purtroppo una cosa ben fatta come PISA esiste solo per le superiori, ma qualcosa dev'esserci per le univesità) già si cattura molta parte della differenza fra Italia ed altri paesi EU.

- Non condivido che 2) e 3) contino solo nel breve. Mi spiego: quando un alto dirigente o un ricercatore di punta in Italia ti costa il 70% di più che in Irlanda o in USA, o anche Olanda, per un po' resisti, poi te ne vai. Se costui poi è incazzato nero tutti i giorni perché i trasporti pubblici non funzionano, la spazzatura la raccolgono quando vogliono, la polizia fuma nei bar bevendo il caffé, e la causa civile che ha fatto al vicino che gli ha distrutto la macchina non va in porto, allora anche l'azienda molla, e se ne va. Questi mi sembrano purtroppo fattori orrendamente difficili da quantificare, ma se parli con gente di 30-40 che fa lavori altamente qualificati, le horror stories di questo tipo con riferimento all'Italia sono frequentissime. Anche qui, credo occorra usare proxy, però qualche case-study ben fatto su figure professionali tipiche di aziende altamente innovative servirebbero per capire le differenze.

- Il sindacato italiano è una bestia particolare, anche rispetto a quello spagnolo o a quello francese. È sia conflittivo che onnipresente. Ammetto che su questo tema, però, non sono un esperto. Posso solo fare confronti basati sulla mia esperienza spagnola, dove il sindacato è presente ma ha infinitamente meno potere che da noi. La finanziaria in Spagna non la scrive il sindacato. Non si blocca il paese ogni volta che qualche azienda medio-grande licenzia. L'occupazione parassitica nella compagnia aerea "di stato" non viene difesa bloccando il sistema dei trasporti nazionali ad ogni annuncio di mezzo licenziamento. La legislazione pensionistica non la scrive il sindacato, né il sindacato amministra tutti gli enti pubblici previdenziali ... Di nuovo, sarebbe interessante che qualcuno quantificasse questo, andando aldilà di quanto fatto da Scarpetta e coautori, nei vari studi OECD.

 

Mi pongo quest'altra questione: come si spezza il ciclo virtuoso di

giovani che si laureano in materie umanistiche (non scientifiche),

cercano professioni attinenti il loro studio, una vasta offerta di

questi lavori perché il Paese ci punta molto anche se non sono

altamente produttivi, sempre più forte lobby nel mantenere questi

lavori... e nuovi figli che avendo genitori che si sono laureati in

queste materie tendenzialmente sceglieranno queste materie e rinizierà

il circolo?

 

Non lo chiamerei "virtuoso" ma "infernale" questo circolo! Però condivido, c'è, ed ognuno di noi l'ha visto in azione. Specialmete nel Sud del paese. Come si spezzi non lo so. Credo si spezzi solo martellando le nuove generazioni con il messaggio "mobilità sociale", "individualismo", "fai da te", eccetera. E distruggendo le lobby, togliendo loro i privilegi che danno la garanzia di potersi passare ereditariamente lo studio e la professione da padre a figlio, o figlia negli ultimi anni. Ma son d'accordo, il circolo culturale c'è, eccome che c'è.

 

Ciao Alberto, grazie della lunga e dettagliata recensione. Sono abbastanza d'accordo su diversi punti. Nel libro non parliamo del meridione, anche se da napoletano mi sta molto a cuore. Mi verrebbe da dire che se l'Italia è contro i giovani il sud lo è molto di più. Anche il discorso della pressione fiscale è importante se vuoi parlare dei "mali dell'Italia", in realtà noi volevamo parlare soprattutto di rapporti intergenerazionali, ed evitare un bigino su "come risolvere i problemi dell'Italia". forse ci siamo lasciati prendere la mano. Sono invece in disaccordo sul fatto di essere "di sinistra", da elettore mi considero abbastanza uno "swing voter", anche se mi sembra che ci sia poco da swingare. Se mi consenti, l'unica vera "ideologia", ma alcuni la chiamano fede, è il Napoli! ciao Vincenzo

ps: dopo la partita di domenica non potevo non ricordartelo....e anche a Michele

 

Maledetto, la pugnalata.... Me la ricordero'. Ma risorgeremo, eccome se risorgeremo. 

Me lo diceva anche Tito che voi avevate in mente principalmente la questione intergenerazionale. Mi spiace, io leggendo il libro ho interpretato il vostro riferimento alla questione intergenerazionele come un "port of entry" della questione piu' generale del declino. 

 

 

Questa discussione rischia di diventare più bizantina della tassazione dei redditi...

Questa è l'ultima precisazione che faccio sull'argomento.

1)

non citavo a caso Acemoglu, perchè parlavo di un circolo virtuoso di

investimenti in istruzione e capitale umano che portando ad aumento

dell'offerta di "lavoratori qualificati", non vede diminuire i loro

salari (per un normale effetto prezzo), ma anzi per effetto delle

esternalità ne vede aumentare lo skill premium.

Proprio l'esatto opposto di quanto accaduto in Italia. Capire perchè

ciò sia avvenuto potrebbe aiutarci a risolvere parte dei problemi

legati alla precarietà, quelli del salario e della professionalità.

2) Ovviamente

non potendo pretendere una popolazione di laureati in discipline

scientifiche (in tal caso l'effetto prezzo potrebbe prevalere...) bisogna pensare anche ad un riequilibrio del welfare, in linea con i sistemi

già presenti in altri paesi occidentali (in particolare anglossassoni e

scandinavi).

Parlo di una armonizzazione degli ammortizzatori

sociali, che preveda unemployment benefit per "tutti" (ovviamente

vincolati e limitati nel tempo), e una poltica del lavoro efficacie, che permetta il ricollocamento del lavoratore, invece di "buttare" i soldi in CIG, CIGS e sussidi ad imprese ormai morenti. In realtà nel libro di Boeri e Galassi questo argomento credo sia meglio e più detagliatamente discusso.

Queste sono le cose che fanno la differenza, che possono trasformare un licenziamento, o la fine di un contratto, da un dramma personale ad un normale cambio di lavoro nella fornazione della propria professionalità.

 

 

 

 

Parlo di una armonizzazione degli ammortizzatori

sociali, che preveda unemployment benefit per "tutti" (ovviamente

vincolati e limitati nel tempo), e una poltica del lavoro efficacie,

che permetta il ricollocamento del lavoratore, invece di "buttare" i

soldi in CIG, CIGS e sussidi ad imprese ormai morenti. In realtà nel

libro di Boeri e Galassi questo argomento credo sia meglio e più

detagliatamente discusso.

 

In realta', non cosi' come ti aspetteresti. Tito e' certamente in Italia uno dei piu' attenti e vivaci sostenitori della necessita' di avere ammortizzatori sociali, ma nel libro, a mio modo di vedere, il contratto unico fa piu' la parte del leone tra i suggerimenti di policy. A meno che tu non conti il reddito minimo come un ammortizzatore sociale. Io non lo faccio, perche' e' troppo "incondizionato". 

 

 

 

1)

non citavo a caso Acemoglu, perchè parlavo di un circolo virtuoso di

investimenti in istruzione e capitale umano che portando ad aumento

dell'offerta di "lavoratori qualificati", non vede diminuire i loro

salari (per un normale effetto prezzo), ma anzi per effetto delle

esternalità ne vede aumentare lo skill premium.

Proprio l'esatto opposto di quanto accaduto in Italia. Capire perchè

ciò sia avvenuto potrebbe aiutarci a risolvere parte dei problemi

legati alla precarietà, quelli del salario e della professionalità.

 

Traduco per le persone non familiari con il jargon: la teoria di

"neokeyn" dice che la

precarietà è dovuta ad una (non ben definita) "esternalità" che

funziona (evidentemente) negli altri paesi europei (e negli USA?), ma

non in Italia. Tale "esternalità" fa sì che la domanda di lavoro

"qualificato" sia una funzione crescente del salario reale: più

lavoratori di tipo "qualificato" ci sono, più le imprese son disposte a

pagarli, perché il fatto di essere tanti li rende più produttivi.

Questa è la teoria di base che viene qui suggerita, se ben capisco.

Cosa c'entri tutto questo con flessibilità, precarietà, assicurazione

contro la disoccupazione, ed altre cose menzionate all'inizio di questo

dibattito non mi è chiaro, né neokeyn ce lo vuole spiegare.


Un vero

peccato: se neokeyn avesse voluto discutere seriamente e seriamente

cercare di capire, e magari farci capire, avrebbe provato a spiegarci

cosa intende esattamente con i suoi termini ed in quale senso le varie

cose che ha scritto si collegano tra di loro. Provo a riassumere, non

per vis polemica ma perché non sopporto discutere con bersagli mobili

che cambiano continuamente di argomento ed alla fine, quando

esauriscono le giravolte, escono di scena di tutta fretta, protetti da

quell'anonimato che permette di "parlare più liberamente",

ossia di parlare senza riflettere molto e senza dover

mai render conto delle proprie incongruenze. Siccome vi sono altri lettori, e siccome io il blog

lo faccio per ragionare e capire, non per sparare sentenze a caso, il

ragionamento me lo faccio da solo, seguendo quanto neokeyn ci ha

scritto.

Nel primo commento

neokeyn asserisce che precarietà e flessibilità (prec and flex, d'ora in poi)

non sono la stessa cosa. Dice poi che in Italia i giovani stanno male e

sono maltrattati dal sistema perché non godono delle protezioni che

questo offre ai protetti e poi rinvia a questo articolo

dove le cose sono spiegate in dettaglio. Insiste, soprattutto, sul

fatto che introdurre maggior flessibilità non risolve il problema.

Asserzione curiosa, visto che il problema, a suo avviso, è che alcuni

sono molto flex (i prec) mentre altri (i protetti o "tipici" come li

chiama lui) non sono per nulla flex ed hanno tutti i tipi di assistenza

e protezione. Se così è, la riforma giusta è rendere flex anche i

tipici e la dualità del mercato sparisce. A quel punto, forse, le

risorse del sistema di welfare che sono ora riservate, in quantità

esagerata, ai tipici potrebbero essere distribuite a tutti, tutti

sarebbero flex, tutti avrebbero un po' di stato sociale che li protegge

e nessuno sarebbe più prec. Questo il ragionamento di Alberto, e quello

di tutta la redazione di nFA, svolto in svariatissimi articoli ma

soprattutto in questo.

A neokeyn, evidentemente, questa proposta non va bene, perché ci ripete

che la flex non è la soluzione alla prec, s'incazza perché gli viene fatto osservare che il suo ragionamento è internamente contradittorio, non accoglie l'invito a riflettere sulle ragioni strutturali per la bassa produttività che sta alle radici della "prec", anzi propone un cocktail piuttosto confuso di argomenti fra i quali mi perdo, ed all'improvviso estrae "Acemoglu" (che poi scopriamo voler dire le esternalità illustrate nell'incipit) come fattore che renderebbe coerente il suo ragionamento. Così non è, e se non altro per chiarire le idee a me stesso ed ai pochi lettori a cui interessa ragionare seriamente, mi sforzerò a spiegare in dettaglio perché.

La ragione pratico-politica l'ha chiarita Alberto nel commento che ho appena linkato, e non la ripeto. Per esser certi che sappiamo di cosa parlamo, definisco io la prec in modo coerente con le asserzioni di neokeyn: Prec = flex + niente assicurazione di disoccupazione + tipici che non sono per nulla flex e sono super-assicurati.

Esaminiamo l'articolo in questione,

nella speranza che aiuti a capire perché la ricetta di Alberto&nFA

non funziona. L'articolo comincia con il dire che le riforme

Treu&Biagi si sono certamente accompagnate ad una riduzione del

tasso di disoccupazione [nota tecnica: la riduzione deve molto anche a

fattori demografici, ma lasciamo stare] ma che il tasso di occupazione

rimane inferiore a quello europeo. Fatto quest'ultimo vero, ma si

tratta di un non-sequitur: il grafico riportato nell'articolo medesimo

mostra un miglioramento sostanziale del tasso di occupazione in Italia,

miglioramento inferiore solo a quello della miracolosa Spagna, dove

infatti si è liberalizzato il mercato del lavoro prima e più

sostanzialmente. Nonostante questo, ossia nonostante i propri dati,

l'autore dell'articolo asserisce, senza alcuna prova, che la

diminuzione della disoccupazione è dovuta all'aumento dei lavoratori

"scoraggiati", specialmente nel Mezzogiorno. Vero, falso? Non sappiamo,

perché non ci sono dati e gli unici dati che l'autore riporta dicono

l'opposto. Segue poi un volo pindarico secondo cui tale aumento dei

lavoratori scoraggiati non è casuale ma è dovuto alla protezione del

lavoro dei capi famiglia e la mancanza di ammortizzatori sociali per

gli altri. Dico io: perché mai l'assenza di sussidio di disoccupazione

scoraggia i giovani e le donne che vivono in famiglia (dove il

capofamiglia è un tipico protetto) dal lavorare? Non capisco proprio!

Se stai a casa e non lavori sei disoccupato e non prendi niente, né

sussidio né salario. Se lavori, anche poco, un salario lo prendi finché

il lavoro ce l'hai e se ti licenziano sei a casa tanto quanto prima.

Questo ragionamento a me fila, non so a voi. Fila anche con i dati che

l'autore riporta: da quando le riforme T&B hanno introdotto un po'

di flex il tasso d'occupazione fra i giovani e le donne (gli

scoraggiati, secondo lui) è aumentato, non diminuito. L'autore forse

non s'accorge di essersi contradetto, ma così è. Sarebbe stato

sufficiente dire: in Italia si è introdotta un po' di flex, ma solo per

i nuovi assunti del settore privato. Questo ha fatto aumentare

sostanzialmente l'occupazione fra donne e giovani, che prima rimanevano

esclusi dal mercato del lavoro a causa delle grandi rigidità imposte

dalla legislazione e dalla contrattazione sindacale. Questi lavoratori però non godono ora di alcuna protezione sociale ... [conclusioni più sotto].

Nella seconda parte dell'articolo si documentano due fatti veri: (1) i

tipici sono rimasti protetti e costosi mentre ai flex si è data zero

protezione sociale, (2) in Italia la produttività non è cresciuta

quindi la maggioranza dei nuovi posti di lavoro è a salari bassi (anche

perché costoro devono compensare per il continuo costo troppo alto dei

tipici protetti). D'accordissimo, l'abbiamo sostenuto anche noi.

Ora, l'autore però non sembra interessarsi alla produttività ed alla

sua relazione con i salari, ma interpreta tutto questo come una

"strategia", come se vi fosse un qualche grande agente (che non saprei

con chi identificare, forse la Confindustria? Il governo?) che ha

deciso di andare per una strada invece che per un'altra. In

particolare, scrive il nostro:

 

Da un punto di vista

più generale le vie per aumentare l’occupazione sono sostanzialmente

due: strategia della riduzione dei salari “working poor”, con la creazione e la conservazione di posti di lavoro a bassa produttività; la via dell’investimento e dell’innovazione, “working rich”,

in cui l’istruzione e il miglioramento delle qualifiche garantiscono la

creazione e la conservazione di lavori altamente produttivi.

 

L'articolo conclude documentando come l'occupazione in Italia decresca

all'aumentare del livello del titolo di studio, mentre cresce la

disoccupazione; in Europa vale l'opposto. A parte il fatto che vorrei

vedere gli stessi dati per il gruppo di età 30-35 e non solo 20-29,

ossia vorrei vedere se l'effetto perdura perché è ben noto che in

Italia (per la maniera folle in cui l'università pubblica è

organizzata) ci si laurea molto tardi. Dubito perduri, perché secondo l'OCSE anche in Italia la laurea paga,

eccome: paga più della media degli altri paesi. Ma questa è una critica

secondaria.

L'aspetto principale è che l'autore non si rende conto che

fermandosi qui e non indagando perché la produttività del lavoro in

Italia non cresca, del perché i laureati non trovino immediatamente

lavoro, del perché non esista un settore dinamico e tecnologicamente

avanzato, butta via il bambino con l'acqua sporca. Fa lo stesso errore che Alberto, giustamente, attribuisce a Tito&Vincenzo: si ferma all'apparenza del problema, all'epifenomeno dei "giovani che vivono male" e non ne indaga le cause strutturali. Non si rende conto che la dualità del mercato del lavoro è uno dei tanti effetti (la bassa produttività di tutti ne è un altro, la non mobilità socio-territoriale un terzo, l'assenza d'innovazione un quarto, l'arretratezza ed il parassitismo meridionali un quinto, eccetera) di problemi strutturali che sono sempre gli stessi. Ridurre il problema

ad una specie di "scelta collettiva nazionale" (anti-giovani, nella versione Boeri&Galasso, "working poor" invece di "working rich" nella versione neokeyn) invece d'indagare quali

politiche e quali fattori strutturali abbiano indotto milioni di

cittadini a comportarsi in maniera tale che questa brutta situazione

fosse la situazione d'equilibrio, vuol dire rinunciare a fare il

proprio lavoro di economisti.

Per questo, e ritorno ora al dibattito avvenuto nella sequenza dei commenti, non capisco perché neokeyn rifiuti di considerare la relazione fra i quattro fattori che indico qui - a cui aggiungerei, 5) la spesa pubblica enorme ed orientata a fini parassitari, e, 6) l'esistenza di vasti settori economici e professioni protette - ed il fenomeno della precarietà come definito precedentemente. Mi sembra ovvio che il canale attraverso cui 1)-6) inducono precarietà sia la bassa e stagnante produttività. Concentrarsi sulla dualità del mercato del lavoro, sulla povertà dei giovani italiani e la loro "precarietà", cercando di curare DIRETTAMENTE QUEGLI EFFETTI E NON LE LORO CAUSE è un errore analitico serio. Lo stesso, infatti, che compiono Tito&Vincenzo, e che Alberto ha giustamente colto.

Per quanto ne sappiamo sino ad ora, mi sembra segua dal ragionamento di neokeyn stesso (ed anche da quello di Vincenzo&Tito) che se vogliamo curare le cause del problema e non solo gli effetti, e' NECESSARIO flessibilizzare anche il mercato dei tipici, ridurre le enormi reti di protezione sociale di cui godono e redistribuire quella spesa su tutti i lavoratori dipendenti, di ogni ordine e grado. Piu' flex e' condizione necessaria per meno prec, come lo sono meno tasse sul reddito da lavoro, piu' competizione (flex?) nella scuola e l'universita', meno stato e piu' mercato nei servizi. Sino a qui si arriva sia con i dati nostri che con quelli di neokeyn, sia con l'analisi di Vincenzo&Tito, che con la nostra, che con quella di neokeyn. Dov'e' che mi sbaglio?


Ritorniamo alla misteriosa "esternalità" che spiegherebbe il tutto. Questa esternalità dovrebbe creare un circolo virtuoso, apparentemente. Tralasciamo il fatto, non banale, che nella descrizione che se ne dà sembra quasi una strategia che un paese può scegliere collettivamente: vado a destra invece che a sinistra. Come possa succedere non mi è dato capire, ma tralasciamo. Questo virtuoso circolo non funziona, credo, per lavoratori "non

qualificati", a meno che la teoria di neokeyn non si basi ora sull'ipotesi che

la domanda aggregata di lavoro è una funzione crescente del salario

reale. Quest'ultima cosa avrebbe fatto grande piacere al mio amico

Roger Farmer che, per 15 anni, ha cercato di convincerci che forse

potrebbe essere che così sia, mentre tutti sorridevano dandosi

discretamente di gomito. Ma ora anche Roger s'è stancato dell'impresa,

ed ha deciso di dedicarsi a più plausibili argomenti oldkeyn ...

Riflettiamo dunque: l'esternalità sembra esistere solo per un sottoinsieme di lavoratori, la cui produttività aumenta semplicemente perché sono "tanti" e la domanda dei quali, da parte delle imprese, è di conseguenza crescente nel salario, invece che decrescente come tutti ci aspetteremmo. Cosa renda un lavoratore parte dei fortunati per cui l'esternalità

funziona, non si sa; suppongo che valga per gli ingegneri ma non per i

geometri, per i laureati in economia e commercio ma non per i

ragionieri, per i laureati in informatica ma non per i periti

informatici, e per i medici ma non per i fisio-terapisti. Beati loro:

qui, dove apparentemente l'esternalità funziona, non ho l'impressione

che così sia, ma fa lo stesso. In ogni caso, questo effetto

"esternalità" in Italia non si dà, per ragioni che non ci è dato sapere

(fatta esclusione l'idea del complotto) ma che veniamo invitati a studiare. Invito legittimo, che raccoglierei,

se venisse spiegato DOVE funziona, COME funziona e COME si misura

questa benedetta esternalità. Io sei cause della bassa e stagnante produttività le ho suggerite ed anche indicate con numeri e fatti. L'esternalita', come spiegazione alternativa, dove potremmo trovarla? Non si sa.

Rimarremo, dunque, eternamente nel dubbio d'aver potuto risolvere i problemi del

mercato del lavoro italiano se solo neokeyn avesse avuto la cortesia

d'indicarci dov'è la magica esternalità e come si attiva. Ma niente,

non ce lo vuole dire. Ha detto invece che

 

Questa è l'ultima precisazione che faccio sull'argomento.

 

Peccato, la cosa si faceva interessante.

 

 

Non mi convincono i dati dell'OCSE sulla differenza di salari tra laureati e diplomati. Come credere alla seguente affermazione: "... the wage premium of possessing tertiary qualifications compared to earnings of individuals who ended their education at the upper-secondary or post-secondary non-tertiary education increased dramatically over a fairly short period: from a 27% to a 53% wage premium between 1998 and 2002 - i.e. a 26 percentage points increase." ? La regola dello statistico prudente è sospettare prima di tutto che un dato sorprendente sia dovuto ad un errore di classificazione. Nello stesso documento dell'OCSE c'è un altro dato assurdamente sorprendente e cioè che la percentuale di laureati tra i "25-to-34- years olds" ha raggiunto il 64%. Per quest'ultimo dato ho identificato facilemente l'errore di classificazione (si sommano in un anno i laureati della triennale, quelli della specialistica e i ritardatari della vecchia laurea e si paragonano ad una coorte di 25-enni). Ma  per il dato sui guadagni dei laureati non so che dire. C'è qualcuno che possa aiutarmi?  

 

Volevo chiudere la discussione perché stava diventando lunga,

a volte bizantina, e ieri non avevo tempo per continuarla. Non vorrei essere

cacciato dal mio phd, perché scrivo su NFA tutti i giorni 4 volte al dì, e se

poi non rispondo vengo accusato di codardia.

Ma vista le accuse che mi arrivano sono costretto a farlo.

Prima di tutto, non sono un bersaglio mobile e né mi

nascondo. Ho indicato un sito sul quale scrivo stabilmente, il mio nome e il

mio cognome, e qui uso neokeyn, perché mi è stato chiesto un user id. 

Secondo, non sfuggo dagli argomenti e né parlo di altro, ma

tendo a non vedere la cose in bianco o in nero, e credo che i problemi siano

legati tra loro, e pensare di trattare e agire solo su un aspetto ( o solo su

un lato, in “equilibrio parziale” come dicono quelli bravi) senza considerare le

sue relazione con gli altri, rischia di non risolvere i problemi, anzi.

Inoltre, sono un po’ infastidito dalla maniera manichea con

cui le mie argomentazioni sono presentate,  ma capisco che la provocazione fa parte delle

sue doti.

Facciamo per iniziare una precisazione, nel caso in cui non

fosse chiaro: non sono contrario alle riforme del mercato del lavoro avvenute

negli anni 90. Nel mio articolo è chiaro, come l’aumento dell’occupazione sia l’obiettivo

principale delle politiche sul lavoro.

Faccio solo notare la stagnazione dell’occupazione tra il

2002 e il 2005 (con stagnazione anche dell’economia), a cui stranamente è

corrisposta una diminuzione della disoccupazione (faccio sempre riferimento ai

dati ISTAT). Questo soprattutto nel Sud, per l’uscita di molte persone (giovani

e donne) tra quelle in cerca di lavoro, che credo proprio l’Istat definisca “lavoratori

scoraggiati” (potrebbe anche essere lavoro nero?).  E siccome il nostro obiettivo deve essere

aumentare le persone attive nella fascia 15-64, dobbiamo considerare questo

problema.

Tornando alle visioni manichee.

 Io non ho mai detto

che le riforme del lavoro hanno lasciato giovani e donne a casa. Ho detto

semmai il contrario. Io ho detto che la tenuta ai margini di giovani e donne,

sia dovuto al passato e a come sia stato concepito il nostro sistema sociale (e

se non si capisce me ne scuso).

E dico anche che le riforme del mercato del lavoro, hanno

aumentato l’occupazione (più la disoccupazione, ma non è questo il punto) di

queste fasce.

Io, però, dico che non causalmente non è bastato, nonostante

la flessibilità di queste categorie sia massima in Italia.

 Evidentemente il

salario di riserva rimane, spesso, superiore a quelli offerti sul mercato del

lavoro, o le condizioni del mercato del lavoro+ la protezione sociale (zero),

non spingono questi giovani a tentare la via dell’indipendenza, rimanendo a

casa (o vogliamo pensare che sono dei bamboccioni?)

Sicuramente c’è un problema di dualità, lo dico io per primo,

sottolineandolo, ma non è l’unica causa.

 

Per lei invece questo sembra essere l’unico problema (questa

volta faccio il manicheo).

Ovviamente, ho affermato nell’articolo che la flessibilità è

stata scaricata solo su una generazione (così come dico in un altro articolo

sullo stesso sito, parlando delle riforme  pensionistiche) e che la stato sociale è tutto

su una generazione. Su questo mi pare concordiamo. E se vogliamo possiamo un giorno

parlare del problema della rappresentanza, in un paese in cui l’elettore

mediano invecchia…

Cmq tornando a noi, se parliamo di precarietà, i problemi

credo siano sostanzialmente due: uno salariale e uno di protezione sociale (e

di opportunità).

Partiamo dal primo.

 Io non ho mai detto

che le “esternalità tecnologiche”, conducano ad un aumento “salariale per tutti”

nell’ultimo commento scrivo infatti:

“Ovviamente non potendo pretendere una popolazione di

laureati in discipline scientifiche…”  

Un aumento degli investimenti in istruzione e in ricerc,

combinata ad una riforma dell’università che ne migliori l’efficacia e l’efficienza

per non buttare i soldi, potrebbe innescare quel “circolo virtuoso” citato,

quindi, portare alla creazione di un numero di posti di lavori ad alta

produttività e alti salari.

C’è però, secondo me, anche un problema di domanda (di

lavoro), perché quello dei salari sembra essere in Italia un problema anche per

i laureati. Basti guardare i dati Istat (rapporto 2005 o 2006), sul problema

della sottoccupazione, che non riguarda solo i laureati in “scienze della

comunicazione”, ma anche quelli in materie scientifiche, ed in particolare

quelli laureati in discipline statistico-economiche (preoccupante anche per me…).

Forse in una economia che vorrebbe fare concorrenza alla Cina sui costi, tanti

laureati neanche servono.

Sul problema del posizionamento competitivo, persone sicuramente

più brave e titolate di me hanno scritto a sufficienza (cito solo un lavoro di

Faini-Sapir su un libro del Mulino “oltre il declino” del 2005).

Secondo problema, protezione sociale.

Pensare che i giovani possano uscire da casa dopo i 20 anni,

pensare che possano costruirsi una vita propria, accedere ad un mutuo e

costruirsi una famiglia, se molti di loro (non ho detto tutti sia chiaro!),

passano di contratto in contratto con salari da fame, senza alcuna protezione

sociale, che anche gli Usa hanno, è pura follia. Questa è quella che io chiamo

precarietà.

Sarà che forse perché in parte l’ho vissuta sulle mie spalle

(e pensare che faccio parte in teoria della fascia di popolazione definita

istruita), non venendo da una famiglia agiata…

Siccome abbiamo dei vincoli macroeconomici stringenti, una

riforma dello stato sociale passerebbe sicuramente per una riduzione della

spesa su fasce di età già ampiamente garantite. Ma mi fermo qui su questo

argomento, quello della riforma dello stato sociale, perché è un capitolo molto

ampio.

L’altra critica che mi si muove, è di affermare che uno

Stato possa scegliere la propria strategia occupazionale.

Sono fiero di questa critica perché credo che sia vero.

Nel momento in cui non riformi l’università, lo stato

sociale, e non ti occupi delle ragioni del nanismo delle imprese italiane e il

loro posizionamento su settori a basso valore aggiunto, e inserisci

flessibilità in entrata, solo su una parte di popolazione, stai scegliendo

consapevolmente una strategia “working poor”.

È ovvio, e questo potrebbe capirlo anche uno studente al

primo anno di economia, che in tal modo si liberano solo lavori a bassa

produttività che precedentemente non erano convenienti all’impresa.

Spero di non dovermi più difendere di codardia o da cose non

dette (o da forzature sulle mie parole).  Se non fosse che stimo la sua intelligenza non condividendo affatto il modo (non le argomentazioni) in cui si rivolge a me, come interlocutore, avrei già smesso da tempo di rispondere.

Fabrizio Mazzonna 

 

 

Mi inserisco nel dibattito portando un pò di polpa (dati) in maniera da poter aver una base di discussione solida. La tabella riporta l'employment rate (E/P), l'unemployment rate (U/L), e il participation rate (L/P) by age group and educational levels (males only), anno 2005, ovvero quando ancora non si erano in pieno esplicati gli effetti della legge Biagi (nel 2006 trovereste sitauzioni migliori in media, ma questo serve cmq a mostrare la situazione in parte ex-ante)

 Less than upper secondaryUpper secondaryTertiaryTotal
ageE/PU/LL/PE/PU/LL/PE/PU/LL/PE/PU/LL/P
15199.131.413.322.434.334.1   10.832.215.9
202461.919.576.941.918.051.224.624.832.847.318.858.3
252977.811.087.472.79.079.957.920.072.472.710.981.6
303483.78.091.089.14.393.185.57.492.286.46.292.1
353986.75.792.093.63.096.594.92.697.590.64.294.5
404488.15.092.795.02.597.497.21.098.291.83.595.2
454986.34.790.694.02.696.598.60.499.090.73.393.8
505479.74.183.189.92.091.896.41.197.585.22.987.8
555947.14.849.462.12.163.586.51.187.455.53.357.4
606422.95.224.130.93.532.058.41.859.527.64.228.8
65699.01.49.113.41.713.638.41.939.211.61.511.8
70743.80.43.87.40.07.423.30.923.55.10.45.1
75991.20.01.23.30.03.310.50.010.51.90.0 

1.9

 

Source: OECD. 

La linea di demarcazione fra Protetti (P maiuscola) e non protetti  è lampante. Per i 30-34 l'employment rate e la labour foce participation sopravanza di gran lunga quella dei 25-29. Notate il tasso di disoccupazione (che dice molto ma non tutto) degli high skilled: per i 25-29 è 13 punti percentuali più alto che per i 30-34! Impressionante. In più il participation rate è 20 punti sotto. Quest'ultimo è in parte spiegato dai tempi lunghi con i quali ci si laurea in Italia, (senza nel contempo lavoarare come succede normalmente in altri paesi). Ma la gran parte è dovuta alla strutturale rigidità del mercato del lavoro. Inutile girarci tanto sopra, la linea di cui parlavo è come una TRINCEA, non servono nemmeno analisi tanto sofisticate, basta un pò di colpo d'occhio. Questo smentisce anche l'asserzione che l'employment rate cali all'aumentare del livello educativo. Balle. Solo per coloro che stanno entrando nel mercato del lavoro ( e sono in fase di transizione fra università e LM, transizione quasi infinita tra l'altro), ovvero i 2529. Già per i 30-34 la sittuazione è pressoché identica a coloro che hanno quailifiche inferiori. 

Ancora qualche dubbio sul fatto che la strictness of employment protection legislation giochi a sfavore degli outsider? che si traduca in una fase transitoria infinita per i laureati, e in un modno di non lavoro per le donne? 

Bene guadatevi questa di tabella

 Less than upper secondaryUpper secondaryTertiaryTotal
ageE/PU/LL/PE/PU/LL/PE/PU/LL/PE/PU/LL/P
15193.644.16.414.045.825.8  0.05.344.99.6
202438.427.653.034.022.143.629.134.444.434.724.245.7
252940.720.351.159.311.867.254.723.271.253.615.963.8
303445.014.852.867.89.274.675.29.883.362.010.769.4
353944.314.351.669.17.975.084.94.388.761.69.167.8
404444.611.450.370.65.074.387.62.689.961.06.865.4
454941.89.146.069.94.072.889.41.590.857.65.661.0
505434.77.237.464.53.366.786.50.787.149.14.551.4
555921.65.022.747.02.348.168.10.768.531.13.332.2
60646.43.86.717.82.518.325.20.025.29.12.99.4
65692.32.32.35.51.45.68.10.08.12.81.92.9
70740.63.40.62.90.02.93.90.03.90.82.10.9
75990.20.00.20.40.00.43.30.03.30.30.00.3

Source: OECD 

Si riferisce alle donne. Notate la differenza negli employment rate fra high skilled e non high skilled. Anche qui da rimanere basiti. In più come sempre guardate la trincea fra 25-29 enni e 30-34enni (high skilled, per le low è praticamente inesistente, per le medium è di circa la metà): 13 punti per U/R 20 punti su E/P 22 per L/P. Sono numeri impietosi e agghiaccianti. Si potrebbe continuare con la disaggregazione territoriale, e qui scopriremmo che in Italia convive mondo civilizzato e nord-africa (non mi tacciate di rezzismo per cortesia, parlo degli outocomes del mercato del lavoro, e la mia definizone fotografa la cruda realtà). Anche qui smentita la balla sugli employement rate declinanti all'aumentare del livello di educazione. (Anche per le 2024enni in realtà, il che a livello aggregato riduce il gap)

Insomma la statuto dei lavoratori, feticcio di tutti i para-sovietici (a destra e a manca), coniugato al risibile sistema di ammortizzatori sociali (che premia i sindacalizzati delle grandi industrie) ha prodotto questo scempio, perché da che mondo e mondo gli outcomes di un mercato sono in massima parte causa del sistema di regole (contrattazione, vincoli regolatori, costi-opportunitàche) che gli attori di quel mercato hanno di fronte. Le esternalità positive valgono forse per mecati di nicchia (in Italia) ad alta tecnologia, dove il lavoro dei ricercatori può avvantaggiarsi dalla "rete" di conoscenza dovuta alla presenza di un ambiente favorevole alla ricerca. Ma per il mercato del lavoro in generale, e anche per quello dei laureati in particolare, i drivers sono quelli arcinoti e più volte documentati.   

 

 

 

Queste statistiche non mi sorprendono. Che i tempi della laurea siano un

problema è un fatto.

Ma i più bassi tassi di occupazione per i laureati tra i 20-29 e anche

25-29, sono comunque indice di una difficoltà a trovare lavoro, a meno che non

vogliamo pensare che si siano tutti laureati a 28-29 anni e non abbiano avuto

il tempo di cercarlo. Che poi superati i 30 tali statistiche migliorino era

prevedibile. 

Inoltre, se parliamo della precarietà il problema degli outsider credo sia

soprattutto quello dei bassi salari, e assenza di protezione sociale, e per

molti laureati del sottoinquadramento.

Cito rapporto annuale ISTAT 2005 capitolo IV:

“ ..circa 3,7 milioni di occupati svolgono un lavoro

sottoinquadrato, oltre la metà sono giovani fino a 34 anni che hanno iniziato a

lavorare da non più di cinque anni. Ciò riflette una certa difficoltà di ingresso

nel mercato del lavoro da parte dei giovani, almeno inizialmente occupati in

professioni dove il livello di competenze richiesto è inferiore rispetto al

titolo di studio conseguito…

 Tuttavia, in

più di un terzo dei casi si tratta di soggetti con età compresa tra 35 e 49

anni; e circa un lavoratore sottoinquadrato su dieci ha un’età più elevata….”

Quindi  questo

significa per una fetta importante della popolazione  (oltretutto in aumento secondo l’ISTAT)  avere una laurea, cercare il lavoro adeguato a

lungo e poi superati i 30 fare al più l’impiegato, e non vale solo per i

laureati in materie umanistiche.

Ovviamente concordo pienamente sul problema dualità del mercato

"coniugato a risibili ammortizzatori sociali".

Ma non considerare la domanda di lavoro, rischia di non dare la completezza

del problema, di cui parliamo.