Euro, domanda, e produttività: un viaggio nel mito. Parte 1

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Anche le pietre sanno oramai che la stagnazione nella produttività, iniziata nella seconda metà degli anni '90, è il problema economico centrale del Paese. Uno dei miti che circolano in Italia è che la causa, stricto sensu, sia l'euro. Inteso come passaggio da un sistema di cambi flessibili a uno di cambi fissi. Discutiamo qui perchè questa tesi abbia ancora ben poco di scientifico. Senza nulla togliere al fatto che l'euro, nella sua architettura complessiva, rimanga un sistema altamente imperfetto.

Premessa

Oramai lo sanno anche le pietre:  la graduale e persistente caduta (del tasso di crescita) della produttività aggregata dei fattori (o TFP), cominciata nei primi anni ’90, è il malessere macroeconomico principale dell’Italia. La produttività totale dei fattori è quella parte della crescita aggregata dell'economia che non può essere spiegata con la mera crescita nell'impiego di capitale e lavoro. Perciò è una misura dell’efficienza complessiva con cui i fattori di produzione vengono impiegati nel sistema economico, oltre che della loro qualita'. Nel lungo periodo la crescita di TFP spiega gran parte delle differenze di reddito pro capite tra paesi. Uno dei miti che circolano (pericolosamente) nel Paese è che, in Italia, il rallentamento della produttività sia dovuto, tout court, all’introduzione dell’euro. Questa tesi circola sulla stampa, nella blogosfera e nella pubblicistica nostrana.

Chiariamo subito un punto decisivo (spesso lasciato nel vago per comodità).  Per “introduzione dell’euro” intendiamo la transizione a un sistema di cambi fissi per una piccola economia aperta(quale è l’Italia). Quindi, non intendiamo tutto l’apparato di politiche economiche complementari (si noti, non tutte strettamente necessarie) che la creazione dell’Unione Monetaria ha portato con sè (rapporto deficit PIL, debito-PIL, etc..). Questo chiarimento è cruciale perchè coloro che propongono la tesi “euro implica caduta produttività” sono anche coloro che richiedono a gran voce una uscita dall’euro, proprio per tornare a godere del margine della flessibilità del cambio. È per questo, ma solo per sintesi espositiva, che talvolta defineremo la tesi “euro-causa-caduta-produttività” la tesi di “euro-exit”.

La domanda che analizzeremo va quindi riformulata così: 

 

L’adozione di un sistema di cambi (irrevocabilmente) fissi ha causato una caduta del tasso di crescita della produttività? Che relazione può esistere tra flessibilità del cambio nominale e crescita della produttività? 

 

La domanda è scientificamente molto interessante (studenti di PhD, prendere nota). Per cercare di rispondere distinguerò tra (i) come la tesi viene (seppur implicitamente) presentata in alcuni ambienti accademici italiani (e/o nella blogosfera, con un certo impatto nel policy discourse [1]), e (ii) come, modestamente, studierei io la questione che la domanda sottende.

Uno sguardo all’andamento di TFP nell’area euro

La tavole qui sotto riportano alcuni dati su (i) crescita della produttività totale dei fattori (TFP) nei paesi euro durante i primi anni della moneta unica, e prima della crisi del 2007-08; (ii) crescita della produttività del fattore lavoro (LP) in Italia. La distinzione tra TFP e LP è importante, torneremo a breve su questo punto.[2]

Tavola 1. Tasso di crescita della produttività totale dei fattori (TFP)

(fonte OECD, Productivity Database. Frequenza: annuale)

 
 1985-901990-951995-002000-052005-11
Belgium1.61.51.40.4..
Canada-0.50.71.30.5-0.1
Finland0.81.3-0.2-0.20.1
France1.71.11.30.70.1
Germany....1.10.70.8
Ireland3.33.54.31.90.7
Italy1.41.20.3-0.4-0.6
Japan3.10.70.710.6
Netherlands1.10.51.20.9..
Portugal....2.50.1..
Spain0.81.3-0.2-0.20.1
United Kingdom1.30.80.5-0.51.5
United States0.70.71.51.70.8

 

 Tavola 2. Tasso di crescita della produttività del lavoro (LP)

(fonte OECD Productivity Database. Frequenza: annuale, compounded)     

 
 1985-901990-951995-002001-072007-11
Austria0.40.41.920.7
Belgium2.42.42.11.5-0.6
Canada0.31.6210.5
Finland3.53.12.82.5-0.5
France2.2221.50.3
Germany2.52.51.81.60.2
Greece10.42.93.1-1.4
Ireland3.63.86.12.52.8
Italy2.22.10.90.2-0.1
Japan4.52.121.61.8
Netherlands1.60.91.81.80.1
Portugal1.73.83.51.41.1
Spain1.42.60.20.71.6
United Kingdom1.42.92.52.40.2
United States1.21.22.421.5
Euro Area1.21.21.21.3..

È ben evidente (e ben nota) la riduzione del tasso di crescita sia di LP che di TFP in Italia. Ciò che colpisce, però, sono due dati. Primo, confrontando il periodo 1995-2000 (lustro pre-euro) con quello 2000-2005 (lustro post-euro), il rallentamento della produttività totale è trend diffuso tra le economie industrializzate, anche se non generalizzato. Secondo, confrontando gli stessi due periodi, la caduta della produttività  (sia totale che del lavoro) riguarda quasi tutti i paesi dell’euro, sia quelli della cosiddetta periferia (esclusa la Grecia), che la Germania.

Da cui due osservazioni iniziali. Primo, se il problema è l’adozione dell’euro stricto sensu, perchè il rallentamento di TFP e LP dalla metà degi anni '90 in poi colpisce anche diversi paesi al di fuori dell'eurozona? Non sorge il dubbio che si tratti di un declino generalizzato e strutturale nelle economie industrializzate? Secondo, perche' il rallentamento delle misure di produttivita' italiane avviene tra i cinque ed i dieci anni prima delle altre?

Come vedremo dettagliatamente sotto, la tesi centrale di “euro-exit” è che sia stato l’eccessivo iniziale apprezzamento reale del cambio (dovuto a un errato tasso di conversione lira-euro) a generare (attraverso i canali che discuteremo) la caduta di produttività. Se questo vale per noi suppongo valga anche per quegli altri paesi dell'area euro la cui produttivita' ha rallentato nel periodo post-2000 (Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Olanda, Portogallo). Qui ci scontriamo subito con un quasi-teorema di impossibilità. Il tasso di cambio reale è un prezzo relativo. È quindi logicamente impossibile che tutti i paesi che hanno adottato l’euro abbiano simultaneamente fissato il tasso di cambio reale a un livello iniziale “troppo apprezzato”. In un mondo con 2 paesi, A e B, è ovvio che il cambio sovrapprezzato del paese A corrisponde a quello eccessivamente deprezzato del paese B. Se veramente la causa originale è il misallineamento del cambio reale, questa non può certo spiegare il fatto che la produttività sia rallentata in quasi tutti i paesi dell’unione monetaria. Non sembra possibile che tutti i paesi, con l’ingresso nell’euro, abbiano simultaneamente sovrapprezzato il loro tasso di cambio. Basterebbe questa evidenza per generare un iniziale scetticismo sul presunto effetto diretto che muove da adozione dell’euro a produttività. Il rallentamento del tasso di crescita di TFP e LP e è in realtà un trend strutturale di lungo periodo che riguarda tutti i paesi industrializzati (e l'area dell' euro in particolare), indipendentemente dal regime di cambio.

Euro e produttività: la visione degli Euro-exiters

Anche se mai presentata in questi termini, la tesi ”Euro implica caduta produttività” è metodologicamente scomponibile in due step teorici indipendenti, più un semplice corollario. Il primo step coinvolge la relazione tra cambio fisso e domanda. Il secondo step riguarda la relazione tra domanda e produttività. I due step della tesi “Euro implica caduta produttività” sono:

  • Step 1. Passaggio a Euro (= introduzione cambio fisso) implica contrazione della domanda (in particolare nel settore dei beni commerciabili) per prodotti italiani.
  • Step 2. Nel lungo periodo, la domanda è la determinante principale della produttività del lavoro (cosiddetta legge di Kaldor-Verdoorn).
  • Corollario. Se step 1 e 2 sono veri, la contrazione di domanda dovuta all’ingresso dell’Italia nell’euro avrebbe causato la contrazione di TFP.

Per motivi logici ed espositivi, conviene discutere i due step in ordine inverso. Cominciamo in questo post dallo Step 2 e rimandiamo alla seconda parte la discussione dello Step 1. 

Step 2: Breve periodo, lungo periodo e (presunta) legge di Kaldor-Verdoorn

Come detto, centrale nello step 2 della tesi di euro-exit è la cosiddetta legge di Kaldor-Verdoorn (KV)[3]. Senza divagare in storicismi, questa “legge” altro non è che una semplice ipotesi di rendimenti di scala crescenti. Vale a dire: la produttività marginale di un fattore (es: lavoro) cresce al crescere della quantità di quel fattore utilizzata nella produzione. Non discuterò certo qui la veridicità di questa ipotesi[4]. Mi limito a suggerire, per cominciare, alcuni elementi di criticità della cosiddetta legge KV, elementi a mio avviso molto forti.

Una prima serie di obiezioni

Quattro aspetti mi sembrano particolarmente problematici.

a) Produttività del lavoro vs. TFP. La legge di KV, nella sua formulazione originale, e per come è trattata nella letteratura cosiddetta post-keynesiana, postula una relazione tra crescita della quantita' prodotta e crescita della produttività del lavoro (LP); e non crescita di TFP. Eppure la tavole mostrate in precedenza indicano che la caduta in Italia (ma non solo in verità) è anche della produttività totale dei fattori (TFP). Mantenendo strettamente le lenti teoriche kaldoriane, come si spiega la più generale caduta di TFP, ben più cruciale da un punto di vista dell’evoluzione del sistema economico italiano?

b) Endogeneità. La legge KV postula una relazione tra crescita del PIL (dY)[5] e crescita della produttività del lavoro (dLP). L’assunzione decisiva è che dY causa dLP. Ma tale relazione (si veda Kaldor 1975, e tutta la letteratura seguente[6]) è testata via regressioni di forma ridotta (del tipo dLP = a + b dY) usando dati da diversi paesi. Perchè queste regressioni abbiano un benchè minimo senso statistico è noto che dY deve essere esogeno a dLP (cioé non deve essere causato da esso). Eppure, il problema di endogeneità è quasi abbagliante. È evidente che dY causa dLP, ma e' altrettanto evidente che vale anche il viceversa, cioè che dLP causa dY. Quest'ultimo nesso di causalita', infatti, e' un supposto della teoria stessa, inclusa la KV: che esiste una funzione di produzione secondo la quale i fattori generano prodotto e piu' produttivi sono piu' prodotto generano. In parole povere, per i non esperti, se anche raccogliessimo dati su crescita media di produttività e prodotto per 100 paesi, stimassimo la relazione suddetta, e trovassimo che la crescita della produttività del lavoro è associata positivamente a quella del PIL (e cioè stimassimo un coefficiente b positivo nell'equazione sopra), le conclusioni sul reale meccanismo microeconomico sottostante (rendimenti crescenti a livello di impresa, learning-by-doing, costi fissi di entrata sul mercato?) sarebbero vuote. Perchè si tratterebbe di sola e semplice correlazione statistica.[7] Notate che trucchi retorici come utilizzo di "Granger causality" per stabilire causalita' vanno bene, appunto,  per la retorica anti-euro ma non possono risolvere la piu' profonda questione qui posta.

c) Domanda, offerta, e teoria dell’equilibrio. Da dove può provenire l’ipotesi Kaldoriana, apparentemente estrema, che dY sia esogeno rispetto a dLP nel lungo periodo? Nella formulazione di Kaldor, e nella letteratura seguente, l’ipotesi che dY sia esogeno rispetto a dLP è motivata dall’assunzione che, nel lungo periodo, dY non sia vincolata dal lato dell’offerta. Torneremo a breve su questo punto decisivo, ma l’idea che la crescita del reddito nel lungo periodo non dipenda da fattori di offerta è semplicemente il contrario di quanto tutta la macroeconomia moderna ritiene ovvio dagli anni ’70 in poi.[8]

Mi limiterò qui a chiarire un aspetto sul quale esiste, a mio avviso, una confusione gigantesca nel dibattito macroeconomico (soprattutto italiano, ma non solo). L’idea centrale è così riassumibile. Non si tratta, come ancora un certo mondo accademico keynesiano tradizionale pretende, di dover scegliere a quale campo, setta, o fazione si appartiene ex-ante: quello di chi crede che “il reddito sia determinato da fattori di offerta” da un lato; quello di chi crede che “il reddito sia determinato dalla domanda”, dall’altro. La macroeconomia moderna ha superato da tempo la necessità di doversi schierare. Lo ha fatto introducendo l’idea che il reddito (o altre variabili maroeconomiche rilevanti) è determinato in equilibrio. Cioè sia dalla domanda che dall’offerta e, quindi, dalla loro interazione attraverso il sistema dei prezzi[9]È proprio dall’incontro con la teoria dell’equilibrio che nasce la rivoluzione copernicana avvenuta nella macroeconomia dagli anni ‘70 in poi[10].

Indicare quindi come insostenibile l’ipotesi centrale di Kaldor (secondo cui dY è esogeno a dLP perchè nel lungo periodo il lato dell’offerta è irrilevante nel determinare la crescita del reddito) non vuol dire automaticamente trasformarsi da “domandisti” a “offertisti”. Perchè oramai, come detto, la macroeconomia moderna non è fatta nè dagli uni nè dagli altri; ma semplicemente da “equilibristi”. A mio avviso è questo il punto decisivo che molte delle posizioni cosiddette non ortodosse nella letteratura faticano ancora a riconoscere. Posizioni per le quali, quindi, il mondo va sempre diviso ex-ante in neoclassici (“offertisti) e keynesiani (“domandisti”). Quando invece il progresso della disciplina ha individuato proprio nella teoria dell’equilibrio la sintesi superiore.

Torniamo quindi alla relazione tra reddito e produttività. Ovviamente, in un modello metodologicamente corretto, dLP e dY sono entrambevariabili endogene. Un approccio corretto di stima, quindi, richiederebbe un modello strutturale (a meno che non si pensi  di trovare variabili adeguate che possano fungere da variabili strumentali per dY: correlate con dY ma non direttamente con dLP), in cui (appunto) dY e dLP sono determinati in equilibrio. Altrimenti, la relazione semplicemente non è testabile. Dedurne relazioni di causalità a livello macro è un salto metodologico che, mi sia permesso, lascia senza fiato.  

d) Micro vs. macro. Ma supponiamo anche che il punto sub a) non sia rilevante. Nella letteratura esiste una tensione, ancora non risolta, tra la dimensione micro e quella macro che nella legge di KV viene trascurata. Non è chiaro, cioè, se rendimenti crescenti siano validi a livello micro (funzione di produzione della singola impresa, in interazione con la struttura di mercato prevalente) oppure a livello aggregato (macro). L’approccio di KV originale, basato su dati aggregati, presume che rendimenti crescenti valgano a livello aggregato (oltre che micro, anche se questo non è modellizzato o formalizzato in nessun modo). Il punto chiave però è questo: rendimenti crescenti a livello micro non implicano tout court rendimenti crescenti a livello macro. Il tema e' tecnicamente ostico e, se necessario, ci tornero' ma, credetemi, la implicazione logica proprio non esiste (per gli esperti: basta "convessificare" nel passaggio da piccole imprese con IR ad aggregato con CR). Ma in ogni caso: perchè la legge KV abbia plausibilità macro (e di questo c’è bisogno nello step 2), rendimenti crescenti devono valere a livello aggregato. E questo non è affatto detto. Quanto meno va dimostrato. Ed è un lavoro non indifferente che hanno provato a fare in tanti anche durante gli ultimi vent'anni ed arrivando a conclusioni opposte.

e) La legge vale nel breve o nel lungo periodo? Leggendo la formulazione originale di Kaldor e Verdoorn, è chiaro che l’ipotesi sottostante alla legge di KV sia che la crescita del reddito determina la crescita della produttività del lavoro nel lungo periodo. Quindi dLP nell’espressione sopra andrebbe interpretato come “crescita media della produttività del lavoro” e dY come “crescita media del reddito o PIL”. Questo punto non è cruciale di per sè, ma per un argomento sottostante. Il problema di endogeneità, infatti, anche in un’ottica di lungo periodo, rimane intatto nella sua fondamentale rilevanza.  

Obiezioni macro

Prescindendo dalla specificità della legge di KV, aggiungo ora una serie di obiezioni macroeconomiche quasi immediate che riguardano la presunta relazione tra “crescita del reddito” e “crescita della produttività” (nella direzione di causalità dal primo verso il secondo).

a)  Ancora su breve vs. lungo periodo. Come già detto, l’unica frequenza statistica in cui è plausibile parlare di relazione tra dY e dLP è quella di lungo periodo. Evidenza empirica recente mostra infatti che a frequenza cosiddetta di business cycle la correlazione tra produttività (del lavoro) e PIL (entrambi detrendizzati) ha mutato segno nei paesi industrializzati durante il periodo della Great Moderation (circa metà anni ottanta fino alla crisi recente): da positiva (quando crescita PIL aumenta, sale la produttività) a negativa. Vale a dire, la produttività del lavoro da prociclica è diventata anti-ciclica (o al massimo a-ciclica). Quindi, esattamente il contrario della legge di KV (se la volessimo applicare al breve periodo). Fernald (2013) (uno dei massimi studiosi mondiali di TFP e LP) mostra che la crescita della produttività (sia TFP che LP) negli USA è rallentata dal 2000 fino a pre-crisi negli USA. Cioè proprio in un periodo in cui la crescita media del PIL negli USA è stata molto sostenuta. Gali and Van Reins (2008) mostrano che un fatto stilizzato degli ultimi 20 anni è la cosiddetta vanishing procyclicality della produttività del lavoro. Barnichon (2010) mostra che, negli USA, la correlazione tra tasso di disoccupazione e produttività del lavoro ha cambiato segno, da negativo a positivo (quando la disoccupazione sale anche se la produttività sale).

b) È assodato quindi che la legge KV, ammesso che valga, vale solo nel lungo periodo. A frequenza di business cycle, la correlazione (non condizionata) tra dY e dLP è addirittura negativa da sempre in molti paesi europei. Già questo pone dei forti dubbi sulla relazione causale tra “euro e produttività”. Perchè? Assumiamo pure di fare il salto mortale da correlazione a “relazione causale”. Viene da chiedersi: è anche solo plausibile che una relazione causale che (se vale) vale strettamente solo nel lungo periodo, possa dispiegare i propri effetti istantaneamente?  Vale a dire, è plausibile che entrando nell’euro l’Italia abbia un presunto shock negativo di domanda (vedi sotto), il quale a sua volta istantaneamente determina una caduta della produttività (del lavoro)?[11]

c) Il terzo punto macroeconomico è più ampio e lo discuto a parte nel seguito.

Il ruolo della domanda aggegata

Il tema scientifico più ampio, e direi decisivo, è però quello che riguarda il ruolo della domanda. Nelle tesi che alimentano le posizioni su euro-exit vale un principio centrale: la crescita del reddito è sempre determinata dalla domanda. Questa proposizione è una sorta di mantra della letteratura keynesiana tradizionale o delle cosiddette posizioni non ortodosse. Una specie di legge naturale.

Quando scrivo “crescita del reddito sempre determinata dalla domanda”, intendo sempre: cioè sia nel breve (a frequenza di business cycle) che nel lungo periodo. Il corollario è quindi che anche la crescita della produttività sia sempre determinata dal lato della domanda, sia nel breve che nel lungo. Queste conclusioni non sono sorprendenti: nell’universo scientifico keynesiano tradizionale, a differenza di tutta la macroeconomia moderna, la dinamica non esiste. Quindi la distinzione tra breve e lungo periodo è irrilevante. Meglio: è non data. Eppure, proprio nell’analisi di un problema come quello della transizione anticipata da un regime di cambi flessibili a uno di cambi fissi (l’euro), sembrerebbe ovvio, direi obbligatorio, che la dinamica e/o il ruolo delle aspettative fossero un elemento centrale di un qualsiasi modello.

Ne seguono però alcune criticità di fondo.  

(i) Se il reddito è sempre determinato dal lato della domanda, lo deve essere anche nel breve periodo. Eppure l’evidenza empirica (vedi sopra) ci dice che la correlazione tra dY e dLP nel breve periodo è negativa (o vicina a zero). Quantomeno a partire dalla cosiddetta Great Moderation (1985 in poi), che comunque include il periodo di inizio dell’euro.

(ii) Ma cosa vuol dire esattamente che il reddito è “determinato dal lato della domanda”? Abusando del ragionare per categorie, che questo sia vero nel breve periodo è visione coerente (nel senso che spiegherò sotto) con la macroeconomia  moderna (e quindi con la teoria dell’equilibrio). In particolare, con tutto l’approccio cosiddetto New Keynesian (NK)[12]. Ciò che rende il reddito determinato dal lato della domanda è l’ipotesi congiunta che nel breve periodo la capacità produttiva sia data e che prezzi e/o salari nominali siano lenti nel loro aggiustamento.

Da qui una proposizione di base: il reddito è determinato dal lato della domanda se (e solo se) siamo nel breve periodo (cioè a frequenza di business cycle). In una parola: “breve periodo” e “reddito determinato dal lato della domanda” sono concetti logicamente intimi.

(iii)  Breve ma importante digressione. In realtà il concetto di “ reddito determinato dal lato della domanda” è ben più complesso ed elaborato di quanto detto sopra. Lo spiego per dimostrare quanto sia fumoso invece nella letteratura keynesiana tradizionale (o eterodossa), in cui mancano del tutto (e direi per principio quasi) sia le microfondazioni, che (come già detto) la dinamica (cioè le due colonne portanti della macro moderna).

Ricorriamo ad un esempio. Supponiamo di essere in un mondo in cui i mercati sono imperfettamente concorrenziali e i prezzi sono rigidi nel breve periodo. Quindi le imprese hanno un minimo potere di mercato nel fissare i prezzi.[13]  Supponiamo che si verifichi uno shock di offerta negativo: ad esempio, un aumento esogeno del prezzo del petrolio (che il prezzo del petrolio sia esogeno, cioè determinato sui mercati internazionali, è ipotesi ragionevole). Chiediamoci: che cosa succede in equilibrio a prezzi e produzione? E soprattutto: nel breve periodo, con prezzi rigidi, in che senso il reddito è determinato dal lato della domanda? Dopo tutto lo shock è dal lato dei costi di produzione, cioè proviene “dal lato dell’offerta”.

Con costi energetici più alti, le imprese subiscono un aumento dei costi marginali di produzione (correnti e futuri). A parità di impiego di lavoro, quindi, sarà per loro efficiente (cioè sarà “un equilibrio”) aumentare i prezzi. Siccome aggiustare i prezzi è costoso (per svariati motivi, anche qui la letteratura è immensa), le imprese decideranno di aumentarli meno di quanto farebbero se non ci fossero costi di aggiustamento (e in più sulla base di quanto ci si aspetta che saranno i costi marginali in futuro). Perciò parte della risposta dell’impresa sarà via i prezzi, parte via una riduzione della quantità di produzione.

Ad un dato sentiero dei prezzi fissato dall’impresa, corrisponderà una certa quantità di prodotto domandata dai consumatori (determinata a sua volta dalle scelte di consumo degli agenti). Poichè nel breve periodo la capacità produttiva è data, la quantità di produzione fissata dalle imprese sarà pari esattamente alla quantità domandata a quel dato (sentiero di) prezzo. In questo senso (e solo in questo senso) il reddito è “determinato dal lato della domanda”.

In risposta a un incremento del prezzo del petrolio (shock di offerta negativo) avremo quindi due implicazioni:

(i) Reddito (PIL) e prezzi si muovono in direzione opposta (incidentalmente, questo e' il fatto stilizzato noto come "stagflazione" che ha fatto crollare tutta l’impalcatura keynesiana negli anni ’70 quando le economie avanzate sono state colpite dagli shock petroliferi ed abbiamo avuto sia inflazione che caduta del reddito);

(ii) Il reddito è determinato dal lato della domanda anche se lo shock che colpisce l’economia proviene dal lato dell’offerta.

Che cosa vuol dire tutto questo? Vuol direche possiamo vivere in un mondo  in cui: (i) gli shock sono dal lato dell’offerta, (ii) reddito e prezzi si muovono in direzione opposta, e comunque (iii) il reddito è determinato dal lato della domanda (ma nel senso spiegato sopra).[14] E’ proprio questo il motivo per cui nella macroeconomia moderna la letteratura keynesiana tradizionale si è arenata scientificamente. Perchè non è stata in grado di far coesistere l’idea che il reddito sia determinato dal lato della domanda con il fatto che gli shock possano originare dal lato dell’offerta. Nel mondo keynesiano tradizionale, “reddito determinato dal lato della domanda” implica, sempre, che prezzi e produzione si muovano nella stessa direzione (se la domanda sale, produzione e prezzi salgono, e viceversa).

La macroeconomia moderna si è quindi affrancata da concetti come “demand-determined”, abbracciando la teoria dell’equilibrio. Proprio per poter spiegare che cosa succede al comportamento simultaneo di prezzi e produzione anche quando gli impulsi sono dal lato dell’offerta (tipo shock petroliferi). Il concetto prevalente diventa quello di produzione e prezzi di equilibrio, cioè il risultato endogeno (ottenuto attraverso l’aggregazione del comportamento individuale di imprese e consumatori) dell’effetto di shock esogeni simultanei ed alternativi (appunto, sia di domanda, che di offerta).  

Torniamo ora al nostro tema. Il problema dello step 1 della tesi in discussione, non è quindi il breve periodo. Bensì, il lungo periodo. Perchè la legge di KV possa avere anche solo plausibilità, è necessario assumere che il reddito sia determinato dal lato della domanda nel lungo periodo. Se questo è vero, poichè la crescita del reddito determina la crescita di LP nel lungo periodo, allora segue che la domanda determina la crescita di LP nel lungo periodo.

Da cui la seguente obiezione: è plausibile che la crescita del reddito sia determinata dalla domanda sempre, cioè non solo nel breve periodo quando i prezzi nominali sono rigidi, ma anche nel lungo periodo, quando le rigidità di prezzi e salari sono irrilevanti? Evidentemente no. Poichè tale ipotesi richiederebbe assunzioni del tutto implausibili sul grado di rigidità di prezzi e salari. E incoerenti con tutte le stime micro (cioè a livello di varietà individuali di singoli prodotti) sulla frequenza di aggiustamento dei prezzi.[15]

Quindi, delle due l’una. O si crede che il reddito sia determinato dal lato della domanda, e quindi (per gli argomenti esposti sopra) l’ottica è necessariamente di breve periodo (cioè un orizzonte statistico lungo il quale è ragionevole immaginare che prezzi e salari siano lenti ad aggiustarsi). Oppure si crede nella legge di KV. Le due cose insieme non possono stare. Perchè nel breve periodo la legge di KV è confutata: come detto, la produttività del lavoro è (diventata) anti-ciclica[16]. Nel lungo periodo, possiamo anche ipotizzare che la legge di KV valga, ma allora logicamente l’idea che la produzione sia determinato dal lato della domanda è insostenibile.

Riassumendo su Step 2.

Per riassumere, l’illusione ottica di fondo che emerge nello step 2 della tesi post-keynesiana su euro-exit è molteplice. Schematicamente lo step 2 della tesi di euro-exit postula:

                                                        domanda --> dY --> dLP

Come detto, i problemi sono due. Primo, si assume una relazione “dY causa dLP” (con segno positivo), in base a una assunzione di esogeneità di dY statisticamente del tutto arbitraria. In un mondo con rendimenti crescenti nell’aggregato, può certamente aversi che dY e dLP siano legati positivamente nel lungo periodo.[17] Ma questo avviene appunto “in equilibrio”, il che vuol dire che dY e dLP si influenzano a vicenda.

Quindi la relazione tra dY e dLP va testata empiricamente ricorrendo a metodi econometrici strutturali, in cui entrambi le variabili sono potenzialmente endogene (cioè si influenzano a vicenda). Inoltre, tale approccio richiede che l’ipotesi di rendimenti crescenti valga nell’aggregato, e non solo a livello di singola impresa.

Secondo, se anche accettiamo che la relazione tra dY e dLP esiste, dY deve intendersi come output di equilibrio. E non come output determinato dalla domanda aggregata. Il problema è che nell’ottica keynesiana tradizionale, la distinzione tra “reddito determinato dal lato della domanda” e “reddito di equilibrio” semplicemente non esiste.  Perchè in quel mondo, come detto, il reddito è sempre determinato dal lato della domanda, anche in un orizzonte implausibile come il lungo periodo. Che però è esattamente quello in cui è postulata la legge KV.  

Nel mondo keynesiano tradizionale è quindi meccanico concludere che se “dY causa dLP” (ammesso che ci dimentichiamo di tutti i problemi di endogeneità di cui sopra) questo voglia dire anche che “la domanda causa dLP”. Quando, in realtà, al massimo è il reddito di equilibrio che causa dLP, e non la domanda che causa dLP. E, come detto, il reddito di equilibrio altro non è che… il reddito di equilibrio! Il quale, quindi, può essere guidato sia da shock di domanda come da shock di offerta (o da entrambi).

Un esempio di confusione tra breve e lungo periodo.

Per fare un esempio, in questo post http://goofynomics.blogspot.it/2013/05/declino-produttivita-flessibilita-euro.html, l’autore (Alberto Bagnai) mi sembra cada vittima della stessa confusione (o meglio non distinzione) tra breve e lungo periodo. Per corroborare la tesi secondo cui, con l’euro, il cambio sovrapprezzato avrebbe causato una caduta della domanda e quindi della produttività (nel settore dei beni traded), l’autore mostra l’andamento temporale di cambio reale ed esportazioni. Indicando (anche se in assenza di alcuna evidenza statistica) che nel 1996 un aprezzamento reale della lira ha causato una caduta delle esportazioni. Fin qui tutto accettabile, anche se solo supposto qualitativamente.

Il punto è in realtà un altro. E’ quasi ovvio che nel breve periodo un apprezzamento del cambio reale si accompagni a una caduta di export (domanda estera).[18] Ma appunto, nel breve periodo! Infatti è facile osservare che, nei trimestri successivi all’apprezzamento del 1996, il saldo della bilancia commerciale riassorbe lo “shock”. Eppure, poichè la caduta nel tasso di crescita di TFP e LP in Italia inizia circa in quel periodo (1995-96)[19], questo dato è utilizzato ad esempio di shock di domanda che causa la caduta di produttività (nel settore traded). In altri termini: una contrazione ciclica della domanda estera avrebbe causato un (quasi) immediato effetto sulla produttività. La contraddizione è evidente. Infatti, se tale effetto (da domanda a produttività) è mai possibile, lo è perchè vale la suddetta legge di KV. Ma la stessa legge di KV, come detto, vale solo nel lungo periodo. Come si possa spiegare una trasmissione così rapida, quasi immediata, rimane un mistero.[20]

E veniamo allo step 1: l’introduzione del cambio fisso ha determinato un persistente shock negativo di domanda nel settore dei beni commerciabili internazionalmente? La risposta nella puntata successiva, la prossima settimana.



[1] Si veda ad esempio l’enciclopedico sito http://goofynomics.blogspot.it/. Un compendio è presentato in Bagnai (2012). Un esempio di cosiddetta tesi “post-keynesiana” che spiega la caduta di TFP con una caduta della domanda è discussa qui http://goofynomics.blogspot.it/2013/05/declino-produttivita-flessibilita-euro.html.

[2] La produttività del lavoro sintettizza il grado di efficienza con cui il fattore lavoro viene impiegato nella produzione. E’ solitamente misurata come prodotto per unità di ora lavorata (o di lavoratore impiegato). La produttività totale (TFP) misura l’efficienza complessiva di tutti i fattori di produzione, lavoro e capitale.  La sua misurazione è più complessa e solitamente indiretta.

[3] Kaldor (1966), Verdoorn (1949).

[4] Diversi modelli cosiddetti di crescita endogena hanno ipotesi di rendimenti crescenti.

[5] D’ora in poi utilizzeremo i termini reddito, prodotto e PIL come sinonimi.

[6] Per una analisi empirica recente sulla legge di KV nei paesi OCSE si veda Ofria e Millemaci (2008). La metodologia applicata è la stessa di Kaldor (1975), cioè basata su una regressione di dLP su dY.

[7] Supponiamo che produttività sia misurata con LP. Tipicamente LP si misura come output (Y) per ora lavorata (N). Perciò le “regressioni kaldoriane” implicano regredire d(Y/N) = dY-dN, come variabile endogena, su dY, intesa come esogena. Come possa non darsi un problema di endogeneità, visto che dY compare da entrambi i lati della regressione, rimane un mistero.

[8] La letteratura (post o vetero) keynesiana tradizionale rifiuta l’idea che fattori di offerta influenzino la crescita dell’output, nel breve o nel lungo periodo. Tale idea viene ancora liquidata a priori come concettualmente errata semplicemente perchè parte del cosiddetto “paradigma neoclassico”.

[9] Ovviamente quanto e come pesino i fattori di domanda e/o offerta dipende dall’ottica temporale, breve vs. lungo periodo. Questo spiega perchè un altro degli elementi centrali della macroeconomia moderna sia stato quello di introdurre in modo esplicito, cioè attraverso strumenti matematici adeguati, il ruolo della dinamica.

[10] Si vedano gli sterminati contributi di Lucas, Sargent e Prescott (LSP). Enfatizzo quindi il fatto che più di ogni altro il contributo di LSP è proprio la teoria dell’equilibrio. Altri elementi del loro programma di ricerca, quale il ruolo della concorrenza perfetta, del contributo di shock di produttività al ciclo economico, etc., sono da tempo stati messi in discussione.  Si noti, inoltre, che abbracciare le fondamenta della teoria dell’equilibrio non coincide (come spesso superficialmente suggerito) con “aspettative razionali”. Aspettative razionali implica teoria dell’equilibrio, ma il viceversa non è necessariamente vero.  Infatti, molta della macroeconomia moderna lavora oramai in un’ottica di deviazione dalle aspettative razionali, ma certamente non di deviazione dalla teoria dell’equilibrio.

[11] Tralascio il fatto che, come già detto, se anche accettassimo la tesi dell’istantaneità, la legge KV non sarebbe in grado di spiegare la caduta di TFP.

[12] La letteratura è gigantesca, non mi dilungo, per tutti si vedano i libri di testo di Mike. Woodford, Jordi Gali, David Romer, i modelli DSGE utilizzati dalle banche centrali, o i lavori di Krugman con Gauti Eggertson.

[13] Ai lettori più attenti sarà già chiaro che se le imprese hanno “potere di mercato” per fissare i prezzi, già ci siamo allontanati dall’ipotesi di concorrenza perfetta dei modelli (cosiddetti) neoclassici.

[14] Vale a dire, la correlazione condizionata tra prezzi e reddito (condizionata, cioè, a shock di offerta tipo variazioni del prezzo del petrolio) è negativa. Si noti che nel mondo (post) keyenesiano il concetto di correlazione condizionata non esiste. In quel mondo, ogni correlazione fra variabili è per definizione incondizionata. Perchè il concetto stesso di correlazione condizionatarichiede la formulazione, alla base, di un modello strutturale (o microfondato che dir si voglia). E’ questa una delle ragioni principali della svolta nella macroeconomia moderna negli anni ’70.

[15] La letteratura al proposito è voluminosa, crescente, e ben nota. Si veda ad esempio Bils e Klenow (2005), Nakamura e Steinsson (2006).

[16] Esiste una letteratura molto attiva su questo appunto, imperniata sul ruolo delle imperfezioni nel mercato del lavoro. Si veda Gali e Van Reins (2010), Barnichon (2010), e più generalmente il libro di testo di R. Shimer (2010).

[17] Ad esempio, è altamente plausibile che la relazione tra dY e dLP abbia un vettore di cointegrazione. Ma questo non implicherebbe ovviamente nulla sulla relazione di causalità tra le due variabili.

[18] Nello stesso post l’autore discute le ipotesi alternative: cambio reale causa export, o viceversa. Dimenticando che la via corretta è sempre la terza via, cioè che entrambe le variabili sono endogene.

[19] Ogni affermazione sulla presenza di un break strutturale nella TFP dovrebbe ovviamente essere supportata da test econometrici adeguati.

[20] Senza contare il fatto che, nel breve periodo, e come già ricordato, la produttività del lavoro è anti-ciclica (o a-ciclica).

 

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Commenti

Ci sono 195 commenti

Ci vuole molto per digerire tutte queste portate e comunque non possiedo assolutamente gli strumenti necessari per porre questioni di rilevo a quanto scritto, ma da grande appassionato al tema "crisi europea" sono contento che qualcuno abbia finalmente intrapreso una critica alle (legittime) tesi anti-euro con i toni e gli argomenti giusti. Attendo con impazienza il seguito e la (spero adeguata) replica da chi si fa portatore delle tesi opposte. Pongo solo una domanda, da perfetto ignorante: perchè ritiene che la Granger causality sia un "artificio retorico"? Non ha una sua validità scientifica nel determinare la direzione di causalità? Grazie Gianluca Frattini

Granger causality è un test debole, spesso inconclusivo, per testare la esogeneità di una variabile rispetto ad un'altra. La debolezza di GC è stata ampiamente dimostrata da Sims negli anni '70, che quindi ha lanciato il programma di di ricerca degli structural VARs (vector autoregression) proprio per superare il problema. Nei VAR non c'è nessuna assunzione ex ante sulla endogeneità o esogeneità di una variabile, ma "tutto è endogeno a tutto". Il caso di dY e dLP è un caso macroscopico di due variabili endogene. Usare GC test per stabilire che una è esogena rispetto ad un'altra è come stabilire che una donna sia incinta semplicemente guardandole la pancia

Direi che la prova piu' evidente di quello che diceva Bisin nei due sue posts precedenti e' la reazione a questo post di Tomacelli. Il quale da un' analisi della vicenda "Euro come complevole della crisi" che su Twitter non si puo' fare, ma che credo resti comunque alla portata di chiunque abbia voglia di perderci un pochettino e come d' incanto i commenti latitano.....

È estate, è sabato, l'articolo è stato pubblicato da poche ore e non è facile da digerire. Peraltro mi pare che un paio di commenti già ci siano.

veramente su twitter era riuscito a spiegarsi alla grande.

Un fattore che tralasciano sempre gli eurexit, è che in quel periodo non c'è stato solo l'introduzione dell'euro, ma anche la rivoluzione dell' ICT. Diversi paper mettono in relazione la dimensione media delle aziende, con la produttività via investimenti in ICT e R&D.Inutile dire che la nostra struttura industriale in questo senso ci penalizza fortemente.

Esistono varie combinazioni di fattori produttivi che permettono di ottenere un determinato livello di output.

Quale sceglierà l’impresa?

Ovviamente la combinazione meno costosa. Obiettivo dell’impresa è la massimizzazione del Profitto (Π) definito come differenza tra Ricavo Totale (RT) e Costo Totale (CT)

Π = RT – CT

Ricavo Totale: ammontare incassato dall’impresa per la vendita del suo prodotto (quantità x prezzo)

Costo Totale: valore di mercato di tutti i fattori produttivi usati dall’impresa per la produzione

Struttura semplificata dei costi fissi

(CF): costi che non variano al variare della quantità prodotta esempi: affitto del locale, servizio di vigilanza, ecc.

Costi variabili (CV): costi che cambiano al variare della quantità esempi: acquisto materie prime, salari per i lavoratori, ecc

Costo Totale: (CT) costo complessivo sostenuto dall’impresa, somma di costi fissi e variabili:

CT = CF + CV

Teoria dell'equilibrio.

Se ho capito bene, siccome l'impresa intesa come singola unità produttiva per rimanere in vita deve superare il suo punto di pareggio, dato che i costi fissi non si possono ridurre (do per scontato che siano ottimizzati), i costi variabili esterni per l'acquisto delle materie prime non sono controllabili e possono creare shock esterni (vedi quello petrolifero) per rimanere in vita l'unica cosa che può fare è riaggiustare il prezzo di vendita ( anche qui do per scontato che sia almeno il prezzo medio non potendo l'impresa influenzare il prezzo) per rimanere sul mercato, di conseguenza per rimanere in vita, deve necessariamente trovare il suo equilibrio all'interno dei costi che può controllare (gli accidenti ai sindacati si sprecano), e in mancanza di innovazioni tecnologiche (che di fatto, se sono a disposizione di tutti nel lungo periodo perdono il loro vantaggio competitivo) il salario deve abbassare, cosi quando misuro la produttività come incidenza del fattore lavoro per unità prodotta l'azienda risulterà produttiva ( che scemo che sono fino ad oggi pensavo che la produttività di un cristiano si misurasse dividendo le quantità prodotte per le ore lavorate. inoltre a mio modesto parere si confonde produttività con competitività dell'impresa, le due cose sono correlate ma la seconda è influenzata anche da altri fattori spesso esterni all'impresa).

Ho capito bene?

Do per scontato di si.

Riflessione (provocazione).

Per questo motivo è nato il marxismo e Lenin ha scritto “Imperialismo fase suprema del capitalismo”, dopo è venuto Keynes e ha scritto la Teoria Generale demolendo la legge di Say e affermando l'ovvio in quanto:

Dal punto di vista puramente logico

- non esiste impresa commerciale che possa esistere senza consumatori che domandano quei prodotti (riflessione mia ispirata dalle letture di e su Keynes),

Dal punto di vista etico sociale

- " Supponiamo che vi siano due paesi dove i fattori della produzione abbiano esattamente la stessa efficienza e che intrattengano relazioni commerciali e finanziarie simili quelle oggi esistenti, [......]. Si supponga che il partito degli alti salari (qui Keynes intende aumento salariale a completo carico dell’imprenditore) raggiunga i suoi obbiettivi in un paese, ma non nell’altro. Ne consegue che il capitalista riceverà una più alta remunerazione del capitale investito nel paese con bassi salari. Di conseguenza preferirà investire i suoi capitali in quei paesi dove sono meglio remunerati. Ne consegue che il paese degli alti salari subirà una maggiore disoccupazione[......].In conclusione le conseguenze di una estrema libertà dei mercati che viene concessa alla finanza che investe all’estero dove viene meglio retribuito l’investimento dei capitali, a causa di una diversità storica e socioeconomica mi a sempre turbato. “ Fino a che punto è legittimo investire in paesi con condizioni socioeconomiche diverse godendo dei vantaggi dei bassi salari, aumentando e migliorando gli utili delle nostre aziende Nazionali.” J.M.K.

Concludo affermando:

- in uno Stato serio (inteso come entita dodata di forza giuridica per l'attuazione della sintesi politica  derivante dalla mediazione collettiva, nell'interesse dei molti che lo compongono) dato che l'impresa è un bene perchè crea occupazione e con l'occupazione il reddito che è la fonte primaria dei consumi e del risparmio aggregati fondamentali del PIL, le infrastrutture materiali e immateriali ( burocratiche) devono essere efficienti e di qualità, le infrastrutture sono un elemento di competizione che creano un vantaggio competitivo di sistema paese (M. Porter),

- in uno Stato equo, la tassazione deve essere efficiente (giusta) i profitti di impresa creano dividendi ( redditi) e nel lungo termine secondo M. Porter sono vantaggi competitivi intesi come risorse a disposizione per gli investimenti e la ricerca,

- in un sistema economico che basa il proprio benessere sull'economia di mercato che è di fatto una istituzione umana, il fine ultimo è il benessere dei molti e non dei pochi, l'obbiettivo degli Stati dovrebbe essere nel favorire gli scambi commerciali su una competizione che competa sui fattori produttivi e tecnologici ad eccezione del costo del lavoro.

Chiamiamo le cose con il loro nome, salari da 200 euro al mese per 40 ore settimanali, in società come quelle dell'est Europeo (e 60 ore settimanali in ASIA) dove per vivere una famiglia di quattro persone necessita di 900 euro al mese di fatto legalizzano la schiavitù (E QUI NON C'È DOTTORATO CHE TENGA) .

La Grecia è li, la disoccupazione in Europa anche, è questo che dovete smontare non le NON tesi di Bagnai che di fatto come afferma lui non sono sue ma sono riportate nei testi di economia del secondo anno Universitario e supportate da economisti che il vostro mondo accademico ritiene degni di nota e titolo anche nell'eccezione fatta dal  Prof.Bisin.

“Se è l'azione di politica economica l'obbiettivo, quella esige che camminiate in mezzo alla gente soffermandovi per sentirne le istanze” F. Caffè

La prima è che evidentemente non ha letto bene quanto scritto da Monacelli, se dice che SIA le teorie che si basano solo sull'offerta che quelle che si basano solo sulla domanda sono superate e obsolete, la sua interpretazione di Keynes è irrilevante, il fatto che ci siano persone disposte a comperare un bene , che abbiano i soldi necessari non creerà mai questo bene, dove le teorie marxiste pseudokeynesiane sono applicate ottusamente si arriva ad assurdità come in Venezuela in cui un paese ricco di materie prime e di petrolio ed in cui lo stato si è preoccupato esclusivamente della domanda delle famiglie, seguendo le teorie di Bagnai e quindi senza assolutamente sostenere la forza della propria moneta ma lasciandola svalutare quanto necessario, e adesso si trova conciata come i paesi del socialismo reale ( e l'italia fascista tanto ammirata da Keynes ) , con il razionamento dei generi di prima necessità.

Seconda osservazione che finora nessuno ha fatto, quando ci si presenta in un luogo, di solito si ha la buona creanza di seguirne le regole, salvo il caso in cui il suo anonimato sia dettato da comprensibili problemi di privacy qui lo si considera normalmente segno di leggera maleducazione o di mancanza di credibilità, insomma si dà un importanza notevole al "metterci la faccia".

Mostri un grafico in cui si può notare che, nel biennio 2006-2007 ( ottavo e nono anno con i cambi fissi e senza alcuna possibilità di svalutare rispetto a Germania,Francia & co ) la disoccupazione raggiunge un punto di minimo.Sembrerebbe un'argomentazione pro euro e contraria alla svalutazione, oppure no?

Allungando il grafico avresti scoperto addirittura che la disoccupazione era ai minimi dagli anni 70.

Dopo scrivi una filippica contro la globalizzazione, puoi avere le idee che ti pare ed argomentarle come meglio credi, ma cosa c'entra con un post intitolato ''Euro, domanda, e produttività: un viaggio nel mito.'' ?

Infine chiamiamo le cose con il loro nome, salari miseri con orari massacranti sono determinati da arretratezza, tassazione e disfunzioni nel mercato del lavoro.

Chi paga gli operai 3.000 euro al mese è avido ed interessato a fare profitti, quanto chi li paga 200 euro al mese.

 

LP e TFP sono indici affidabili in un paese ad alto tasso di sommerso?
Ma anche reddito e domanda, mi chiedo se siano affidabili.

La causa della mancata crescita di produttività non è piu' verosimilmente legata a fattori quali l'eccesso di regolazione, la carenza di investimenti edi innovazione, le libertà economiche, la scarsa formazione professionale della manodopera 26-65?

Certamente. Ma non è questo il luogo per pronunciarsi sull'ovvio. E cioè che la nostra economia è poco competitiva perchè la qualità delle "istituzioni" economiche è molto bassa. Per istituzioni intendo le regole che governano il mercato del credito, del lavoro, il sistema del welfare, il sistema giudiziario, il sistema educativo. Fino a quando non ci rimboccheremo faticosamente le maniche e miglioreremo la qualità delle nostre istituzioni,  non c'è made in Italy o "piccolo è bello" che tenga. Ristagneremo. Perchè avere cattive istituzioni è molto più penalizzante oggi che nel passato; nell'era dell'IT, del trade globale, dei sistemi complessi, e della competizione su larga scala. Di fatto i paesi (come le grandi città globali) nel mondo competono proprio su questo: la qualità delle istituzioni

Ringrazio il prof. Monacelli e NfA per aver pubblicato un approfondimento così interessante, sebbene l'approccio alla lettura risulti particolarmente difficile per un non addetto ai lavori. 

 

Non ho le competenze per poter intervenire su argomenti quali la validità o meno della legge di Kaldor-Verdoorn, sui quali comunque mi sembra di capire che anche nell'ambito del dibattito scientifico non sia ancora stata detta l'ultima parola. Mi permetto solo di accennare, per completezza, a quanto letto in un post successivo a quello citato da Monacelli, relativo ad una conferenza riguardante la produttività, tenutasi a Pescara il 5/6/13 assieme ai prof. Travaglini e Daveri (Goofynomics: Produttività (Again)). Leggendo il post ho avuto l'impressione che non vi fosse una preclusione totale, da parte dell'autore, riguardo alla possibilità che anche il lato dell'offerta potesse giocare un ruolo nel declino della produttività italiana. Declino che viene interpretato da Daveri e Travaglini - se capisco bene - come conseguenza degli effetti perversi delle riforme del mercato del lavoro iniziate nel 1997. 

 

E che viene successivamente discusso, dallo stesso autore, come segue: "Il mio punto era che esiste anche un'altra linea di interpretazione, non necessariamente alternativa a questa (sulla quale onestamente non avevo mai riflettuto), ma complementare, ovvero che lo shock determinato dalla rivalutazione reale del 1996 abbia potuto attivare un meccanismo di causazione cumulativa del tipo descritto da Dixon e Thirlwall nel lontano 1975, sulla base di un modello "concettuale" (cioè non formalizzato in equazioni matematiche) esposto da Kaldor nel lontano 1970". 

 

Le mie competenze non mi permettono di proseguire oltre, e se avrete voglia sarei felice di leggere i vostri commenti al riguardo. Mi permettevo soltanto di specificare come non mi pare di notare che vi sia una preclusione assoluta e dogmatica, da parte di Bagnai e dei lettori del blog (almeno per quanto riguarda il sottoscritto), alla possibilità che meccanismi "dal lato dell'offerta" possano giocare un ruolo significativo, e che in ogni caso l'analisi relativa al declino della produttività (per quanto io possa capirne) all'interno del blog mi sembra essere sostanzialmente più ampia rispetto a quanto descritto dal prof. Monacelli (che comunque ringrazio) nel suo post di oggi. 

Grazie Federico. Il punto del mio post è proprio quello di obiettare all'ipotesi "Dixon-Thirwall", e al presunto meccanismo "domanda causa produttività nel lungo periodo". Soprattutto di obiettare al modo, blandamente (a dir poco) scientifico, con cui questa ipotesi è stata ventilata, e utilizzata ad arte per sostenere tesi a mio avviso fumose, del tutto qualitative, e in ultima istanza pericolose per gli effetti sul dibattito pubblico.

Ho provato a leggere questo articolo con non poche difficoltà sia per il livello di complessità (ovvero per miei limiti di comprensione ed ignoranza generale) sia per la premessa da cui è partito a cui continuo a tornare durante la lettura:

"Anche le pietre sanno oramai che la stagnazione nella produttività, iniziata nella seconda metà degli anni '90, è il problema economico centrale del Paese. Uno dei miti che circolano in Italia è che la causa, stricto sensu, sia l'euro."

Di questo presunto mito francamente io non ho trovato e continuo a non trovare traccia, quindi sarei grato all'autore se mi fornisse qualche link o riferimento (che sicuramente mi sara sfuggito) in cui qualcuno sostenga la tesi che "stagnazione nella produttività" in Italia sia causata dall'Euro

Per quanto ho compreso il tema della produttività è affrontato dai sostenitori dell'Euro Exit principalmente nelle seguenti accezioni:

- in un sistema di cambi fissi è pressoché impossibile recuperare produttività (quindi competitivita) senza ridurre i salari ovvero senza aumentare la disoccupazione poiché si rinuncia ad una delle possibili leve d'azione: il tasso di cambio (che di fatto è il prezzo che sui mercati internazionali consente di aggiungere posizioni di equilibrio tra domanda e offerta)

- la Germania ha tratto vantaggio dall'unione monetaria anche in termini di produttivita, a danno dei paesi periferici, adottando politiche di svalutazione competitiva di fatto violando i trattati sottoscritti

Quindi la vere domande a cui avrebbe senso provare a trovare una risposta in questa sede dovrebbero essere:

- è possibile un recupero di produttività in regime di cambi fissi (ovvero senza Euro Exit) senza un aumento della disoccupazione come strumento per giungere ad una riduzione dei salari?

- l'autore stesso dice

"La macroeconomia moderna ha superato da tempo la necessità di doversi schierare. Lo ha fatto introducendo l’idea che il reddito (o altre variabili maroeconomiche rilevanti) è determinato in equilibrio. Cioè sia dalla domanda che dall’offerta e, quindi, dalla loro interazione attraverso il sistema dei prezzi[9]. È proprio dall'incontro con la teoria dell’equilibrio che nasce la rivoluzione copernicana avvenuta nella macroeconomia dagli anni ‘70 in poi[10]."

mi potrebbe quindi spiegare come in un mercato in cui il prezzo (tasso di cambio) non può variare come si possa ritornare ad una posizione di equilibrio tra domanda e offerta a seguito di uno shock da uno di due lati?

- è vero che attualmente la Germania beneficia (e continuerà a farlo in futuro) di una produttività superiore a quella dell'Italia e degli altri paesi periferici perché ha adottato politiche di svalutazione competitiva e sfruttato la mancata convergenza dei tassi di inflazione, che invece ex ante sarebbe dovuto essere uno di tanto sbandierati benefici dell'Euro?

Sarò grato all'autore se nella seconda parte o in una successiva vorrà rispondere anche a queste domande.

Grazie mille

Le sarà sfuggito, ma il post indica proprio i links dove la tesi euro-produttività viene proposta (sulla base della causalità: euro->bassa domanda->calo produttività).

Riguardo al tasso di cambio, mi permetto di osservare che esiste una letteratura ciclopica sui benefici di cambi flex vs fissi. Non possiamo certo liquidarla con "i cambi flessibili sono sempre meglio, perchè vuol dire che almeno un prezzo si aggiusta". Non c'è spazio qui per discutere questi argomenti. Ma la tesi di euro-exit secondo cui dobbiamo svalutare per recuperare competitività inverte chiaramente la direzione di causalità. Euro-exit dice: siccome siamo un paese con istituzioni economiche fatiscenti, almeno dateci il cambio per svalutare! Come dire: da quando ho smesso di fumare ho ripreso a ingrassare, per favore ridatemi le sigarette.

Questo mi pare l'unico argomento in bocca agli euroexiters. Argomento che quindi distoglie completamente l'attenzione dal problema primario: che cosa ha reso le nostre istituzioni economiche così arretrate? (Cioè: che cos'è che al fondo ci fa prendere peso?)

Detto questo, le tesi di Bagnai et al. sono specificamente sul legame tra euro e calo della produttività. E sono queste che mi interessava discutere criticamente.

 

 

 

 

- la Germania ha tratto vantaggio dall'unione monetaria anche in termini di produttivita, a danno dei paesi periferici, adottando politiche di svalutazione competitiva di fatto violando i trattati sottoscritti.

 

Evidentemente questa "svalutazione competitiva" deve essere un concetto molto elastico e non connesso a fattori di cambio (valuta) visto che la germania sta nell'euro come noi. Mi piacerebbe quindi capire tramite quale violazione (e come) abbia fatto la germania. A me risulta che molto semplicemente abbia fatto le riforme (vedi agenda 2010) ma che importanti riforme siano state fatti anche nel regno unito (prima con Blair ed ora anche con Cameron) ed in altri paesi, vedi la Svezia. Insomma la colpa sarebbe dei paesi che hanno fatto riforme per tornare ad essere competitivi? Per me la responsabilità è di chi in 20 anni non ha fatto le riforme. Comodo ora (e secondo me demagogico e puerile) dare la colpa all'euro ed alla germania.

Grazie Prof. Monacelli per quest'esposizione. Non dev'essere stato facile: il discorso è poco adatto a un post di blog. Sono un economista in formazione e mi sono molto appassionato al dibattito in questione: credo che tutti abbiano qualcosa di rilevante da dire e un dialogo serio e sereno (non ciò che si è visto su Twitter) sia la cosa migliore.

Dunque, sul tema del post, attendo con ansia la seconda parte, rendendomi conto che questo primo post riguarda essenzialmente obiezioni di tipo teorico e "macro". Vorrei esporle alcuni commenti:

a) sebbene sia giusto chiarire i punti sull'endogeneità, l'approccio di equilibrio, i problemi di misurazione, la necessità di un modello strutturale etc. non vedo una difficoltà enorme nel postulare una relazione del tipo KV in un'ottica più "moderna" se, a livello micro, una minore domanda diminuisce gli incentivi alle imprese a innovare / fare adeguamento tecnologico / etc., causando un minore accumulo di TFP nel tempo. Tuttavia questo richiede uno shock persistente alla domanda, del tipo appunto di un continuativo apprezzamento del cambio reale italiano (una storia del tipo "la Germania ha fatto una continuativa svalutazione dei salari"), sulla cui plausibilità empirica immagino lei discuterà nella seconda parte.

b) Credo che vadano discussi di più i microfondamenti di una relazione di questo tipo, visto che dall'ottica della microeconomia dell'innovazione, non è affatto una cosa senza senso. In tal caso, mi pare che i rendimenti crescenti siano più un'assunzione ad hoc, un risultato piuttosto che una spiegazione microeconomica.

c) A riguardo, potrebbe postare gentilmente dei riferimenti sulla "tensione" tra proprietà di scala a livello micro vs. macro?

d) Anche se mi rendo conto che a livello statistico non è semplice da dire, secondo lei l'inversione di ciclicità tra produttività del lavoro e reddito vale anche per l'Eurozona o, più ristrettamente, per l'Italia? A occhio (senza fare alcuna analisi) questo non è semplice da affermare; anzi i dati degli ultimi anni sembrano suggerire il contrario (anche se qui si entra in un problema di misurazione della produttività / dati in cui non voglio entrare ora: prendiamoli per buoni).

Personalmente ho l'impressione che un effetto del tipo KV esista, ma sono più dubbioso del fatto che sia quantitativamente rilevante rispetto, ad esempio, ai limiti che incentivi e istituzioni pongono sul sistema produttivo italiano. Proprio per questo però bisognerebbe discutere la questione e misurare accuratamente - se possibile - l'effetto.

Infine, mi aspetto da questa serie di post di NfA uno che affronti l'aspetto più propriamente di economia monetaria internazionale dell'euro e relativo agli squilibri di partite correnti / movimenti di capitale, visto che su NfA la questione è stata finora abbastanza ignorata. Ancora più importante a mio modo di vedere è correggere il tiro sul discorso "la Germania ha compiuto una svalutazione salariale", su cui i precedenti post di NfA sono stati abbastanza... poveri, per usare un eufemismo. Non mi riferivo alla confusione tra salari nominali e salari reali, ma al post successivo (quello cui non è seguita una seconda parte): a un certo punto si dice:

"In altre parole, grazie a salari gia' elevati (a loro volta dovuti a produttivita' gia' elevata) i tedeschi possono oggi permettersi moderazione salariale in aggiunta ad aumenti di produttività per guadagnare competitività nell'area Euro."

già è un passo in avanti rispetto a negare la questione (visto che i primi a dire che la moderazione salariale è il cuore della competitività della Germania sono proprio le classi dirigenti tedesche), ma non vi pare imbarazzante come affermazione (ortografia a parte)? Implicitamente, questo vuol dire che l'Italia per risolvere i propri problemi dovrebbe trovare una qualche bacchetta magica per far crescere la produttività senza far crescere i salari allo stesso ritmo, il che è inaccettabile non solo perché contrario a considerazioni di efficienza rispetto alla teoria economica, ma è anche ingusto! (Incidentalmente, questo rende la discussione sulle cause del declino della produttività italiana in un certo senso irrilevante rispetto alla questione Euro sì / Euro no.)

Che logica c'è nel dire che "a livello micro, una minore domanda diminuisce gli incentivi alle imprese a innovare / fare adeguamento tecnologico / etc., causando un minore accumulo di TFP nel tempo" , probabilmente la mia visione della microeconomia è abbastanza aneddotica, ma ho l'impressione che la frase in questione confonda gli incentivi con le risorse, se un impresa di fronte ad un calo della domanda potrebbe avere meno risorse da investire, all'atto pratico si trova ad avere grossi incentivi a farlo, perchè innovazione e aumento della produttività significano maggiore competitività e le imprese meno competitive sono quella a rischio di estinzione.

Per fare una banale osservazione la mia impressione è che la Germania di fronte a stipendi più alti di quelli che la sua produttività poteva sostenere senza mandare a ramengo le imprese ha dato una raddrizzata al sistema, facendo quindi una cosa giusta e conveniente, chi ha lasciato crescere i salari più della produttività ha drenato risorse dalle imprese con il mito dei profitti da togliere ai capitalisti cattivi, e adesso se ne pagano le conseguenze.

Cosa è più giusto?

 

scusami eh,tu dici di mettere le carte in tavola,benissimo.io,personalmente,con tutta la buona volontà che ci metto nell'analizzare le ragioni ,ed in generale,la prospettiva degli euroexit rimango basito nel vedere sostenute alcune tesi,che leggendo i tuoi post anche tu sostieni.

in italia per essere competitivi bisogna non aumentare i salari come la produttività o a produttività ferma tagliarli.ma casomai è il contrario.in italia i salari sono aumentati ,con l'entrata nell'euro, mentre la produttività rimaneva inchiodata.adesso si tratta di riequilibrare ,invece.agendo sul ulc

 tu dici

 

 Alla fine della fiera in teoria potremmo avere pure produttività stagnante ma difendere la stabilità finanziaria e macroeconomica del Paese col cambio flessibile

 

 bene.ma usciti dallo sme(fatto salvo che si trattava di un mondo completamente diverso)la disoccupazione aumentò di botto di 3 punti.perchè ritieni che adesso con cambi flessibili non si possa riproporre questa situazione?i dati non dicono che ci fu una stabilità macro

altra cosa:parli di minore quota di pil che va al lavoro rispetto al capitale.ma dove?dai dati in francia questo non è avvenuto,nè in austria né in belgio né in olanda ecc.

 poi,ultimo punto.spesso gli euroexit sostengono che causa l'architettura dell 'euro le spese sociali siano in diminuzione.ma anche qui,in italia non c è traccia di questo.casomai siamo noi che spendiamo molto e male in alcuni settori e poco in altri.

 ti sarei lieto se volessi chiarirmi questi punti

@Babbeus

è bizzarra questa tesi secondo cui i tedeschi avrebbero ottenuto competitività attraverso i minijobbers.perchè vedi i part time in italia dal 2000 al 2012 sono aumentati più che in germania.com è che noi questa migliore competitività non l'abbiamo avuta?senza considerare il fatto che  una grandissima percentuale di quei lavoratori tedeschi svolge il part time volontariamente.cosa facciamo ,andiamo tu io e bagnai a dirgli che devono impiegarsi per forza a tempo pieno perchè noi dobbiamo pagare le pensioni a gamberale?

Molto interessante. Sicuramente si potrà commentare meglio sulla base della seconda o di ulteriori parti. A un certo punto si dice "la tesi centrale degli euro-exit e' che sia stato l'eccessivo iniziale apprezzamento del cambio (dovuto a un errato tasso di conversione lira-euro) a generare la caduta di produttività". A me pare che la tesi di Bagnai sia completamente diversa e non attribuisca un peso (o comunque un peso di rilievo) al suddetto tasso di conversione iniziale. Se avessi capito bene questo punto, ne conseguirebbe che questo contributo confuta una opinione diversa da quella di Bagnai.

Basta che lei legga il post linkato all'inizio del mio pezzo. La tesi di Bagnai è confusa, ma origina dal "cambio sovrapprezzato che avrebbe messo l'Italia lungo un sentiero di bassa domanda".

Anche lei. Legga il post di Bagnai linkato in una delle prime footnote. La tesi è proprio quella

Bagnai nel suo articolo citato alla nota 1 dice LETTERALMENTE "L’unico modello che si riconcilia coi dati ci dice una cosa diametralmente opposta: proprio perché è un problema di produttività l’euro (cioè l’improvvisa rivalutazione della lira e l’adozione di un cambio sopravvalutato) c’entra, e come!"

Cioè un cambio a 990 lire per marco svalutato del 30% rispetto al marco di 4 anni prima è TROPPO ALTO.

E TUTTO l'articolo si basa su quello, fondamentalmente

Lei scrive che la produttività è aciclica,se non anticiclica. I prezzi delle materie sono generalmente ciclici. Mi aspetterei che nei paesi produttori la produttività sia influenzata dai prezzi delle materie prime e correlata positivamente con il ciclo economico mondiale. Vi sono evidenze empiriche al riguardo?

Secondo la legge di Kaldor-Verdoorn nel lungo periodo, la domanda determina la produttività del lavoro, per i Keynesiani la domanda determina la crescita. Quindi progresso tecnico,capitale umano ed allocazione delle risorse diventano indifferenti o determinati anche loro dalla domanda?

 

"la cosiddetta legge di Kaldor-Verdoorn (KV)[3]. Senza divagare in storicismi, questa “legge” altro non è che una semplice ipotesi di rendimenti di scala crescenti. Vale a dire: la produttività marginale di un fattore (es: lavoro) cresce al crescere della quantità di quel fattore utilizzata nella produzione."

Per la precisione, Verdoorn dice che :

"I materiali statistici che sono disponibili per i periodi antecedenti alle guerre (1870-1914 e 1914-1930) per i vari paesi, mettono in luce l’esistenza di una relazione di lungo periodo abbastanza costante tra gli incrementi della produttività del lavoro e il volume della produzione industriale.

 

Dall’analisi delle serie storiche per l’industria nel suo complesso (Tabella I) e per i singoli settori industriali, esaminando in ciascun caso due anni differenti, si è avuto come risultato che il valore medio della elasticità della produttività in relazione al prodotto è circa di 0,45 (i limiti estremi trovati in concreto sono 0,41 e 0,57).

Ciò significa che in lungo periodo un cambiamento nel volume della produzione - diciamo del 10% - tende ad essere accompagnato da un aumento medio della produttività del 4,5%."


gondrano.blogspot.it/2013/01/fattori-che-regolano-lo-sviluppo-della.html


Non si tratta quindi di un'ipotesi, non dice che "la produttività marginale di un fattore (es: lavoro) cresce al crescere della quantità di quel fattore utilizzata nella produzione".

 

"È evidente che dY causa dLP, ma e' altrettanto evidente che vale anche il viceversa, cioè che dLP causa dY."

 

A me non sembra così evidente che dLP causi dY... potrebbe spiegarlo?

Ma la correlazione in questione non potrebbe benissimo essere inversa?

Cioè che, banalmente meno lavoro serve per produrre dei beni e maggiore sarà la quantità di beni disponibili?

Perchè nella mia vita lavorativa ho sempre visto miglioramenti nella produttività portare a incrementi dell volume di produzione sostenibili, mentre TUTTI i casi in cui gli incrementi della produzione erano frutto di fattori estranei al processo produttivo come incentivi o "svalutazioni" si sono rivelati pura droga i cui effetti positivi sono svaniti in breve termine lasciando una situazione peggiore di prima.

Esiste un singolo motivo logico o una quantità di dati sifficenti a dimostrare che la frase " in lungo periodo un cambiamento nel volume della produzione - diciamo del 10% - tende ad essere accompagnato da un aumento medio della produttività del 4,5%" sia più corretta della frase " in lungo periodo un aumento medio della produttività - diciamo del 4,5% tende ad essere accompagnato da un cambiamento nel volume della produzione del 10%" ?

Prenda una funzione di produzione standard, ignorando il capitale, e lineare per sola comodità:

Y = A*N, dove Y = output, N = quantità di lavoro, A = produttività del lavoro. Quindi A è una variabile  "catch-all" che cattura tutto quanto fa aumentare la quantità prodotta che NON sia semplicemente mettere più persone a lavorare. Se A aumenta, Y aumenta. Nel breve periodo A è essenzialmente esogeno. Nel lungo periodo certamente no.

 

 

b) Endogeneità. La legge KV postula una relazione tra crescita del PIL (dY)[5] e crescita della produttività del lavoro (dLP). L’assunzione decisiva è che dY causa dLP.

 

Mi sembra un postulato non piu' valido oggi. Forse quando sono state fatte le rilevazioni statistiche ((1870-1914 e 1914-1930 come gentilmente spiegato da Giorgio) la quota di contributo pubblico su dY era modesta ma oggi - soprattutto in Italia - si arriva al 50% e passa ed in regime di spesa pubblica fuori controllo possiamo avere crescita del PIL solo per la crescita del settore pubblico, senza che questo implichi un aumento della produttività del lavoro (dLP).

Da non addetto ai lavori, permettetemi di esprimere alcune considerazioni sulle metodologie e sui fini cui paiono informati taluni “dibattiti” economici cui si assiste girovagando per la rete, massimamente taluni veduti su Twitter, che lasciano, francamente, piuttosto perplessi.

La struttura di questi dibattiti è, quasi sempre, la stessa: A (può essere un economista, un lettore, un buon diavolo) ci dice che l’economista X (e qui per avvalorarne le tesi segue solitamente la enumerazione quantitativa dei lavori da costui pubblicati sulle riviste “più prestigiose”) sostiene la tesi Z. E giù grafichetto colorato con dati presi dalle fonti che vanno per la maggiore.  Visto? È chiaro. E’ come dico io. Niente affatto, risponde B (può essere un economista, un lettore, un buon diavolo): sei un briccone! Perché se solo conoscessi Y(sottinteso: studia di più) sapresti che la tesi Z in realtà è superata ed ora la mainstream propende per la Z2. Il grafico?  Eccotelo servito ( segue grafichetto colorato ec.). Briccone sarai tu! Risponde A (e qui, solitamente, si comincia ad utilizzare un epiteto a scelta che può essere: piddino, europodo, egonomista ec.. ) . Semplicemente non hai tenuto conto della implicazione R, dell’effetto di lungo periodo H (sottinteso: perché lo sapevano tutti che all’Università dove hai studiato si vendevano gli esami). Sei un poverello. E magari interviene C a sostegno di B, o di A, che chiosa (quando è di buon umore): ma ancora perde tempo con costoro? E via intervenendo, o twittando. Fino all’abbandono per stremo ( vedi il signor Bisin), o peggio.

Al di là degli aspetti anche ludici che contraddistinguono tali dibattiti (non è facile passare il tempo in queste caldi notti estive), torna alla mente quella domanda (e quella risposta):   “Why did God invent economists?” “To make weathermen feel good about themselves.”. Il sospetto è (nonostante ciò che il signor Monacelli ci dice nel primo post:” Discutiamo qui perchè questa tesi abbia ancora ben poco di scientifico”) che l’Economia abbia assai poco di scientifico ed assai molto di opinabile.

In altri termini non credo che un sofisticatissimo sistema di centinaia di equazioni differenziali sia lontanamente in grado di predire ed interpretare il semplice evento del perché e del quando il signor Rossi starnutisce la mattina e quali implicazioni economiche tale fatto abbia sull’ambiente circostante. E ciò nonostante A, B, C ec. si affannino a dimostrare la esistenza di inoppugnabili indici di correlazione tra lo starnutire del sig. Rossi ed il lasciare, poniamo, le finestre aperte la notte.   

 

Che fare? Abbandonare l’Economia perché non scientifica, opinabile e , quindi, inaffidabile? Oppure, come credo (sommessamente), gli economisti dovrebbero (ri)trovare l’umiltà di riconoscere (almeno) il carattere a-scientifico e sostanzialmente sociale della loro disciplina, concentrandosi sugli aspetti interazionali e storici  del rapporto economico (quasi sempre non misurabile ma, con difficoltà, interpretabile). Senza contare gli aspetti politici (la vecchia e romantica idea di “cambiare” il mondo). Marx aveva fatto un grosso lavoro in questo senso. C’è un nuovo Marx dietro l’angolo?

Credo che lei commetta due errori di fondo. Primo, quello di pensare che chi parla di "scientificità" dell'economia intenda semplicemente l'uso della matematica (eq differenziali, etc..). Questa è la classica rappresentazione capziosa dell'economista moderno. Secondo, usa il termine "predirre". E qui cadiamo nel solito macroscopico errore di interpretazione su cosa sia l'economics come scienza sociale. E' molte cose, ma sicuramente NON è una disciplina che mira a fare previsioni. Ripeto: l'economista non è un previsore del futuro! Allo stesso modo in cui un medico non è qualcuno in grado di predirre che alla persona X insorgerà un tumore nel giorno Y e nell'organo Z. Per cui smettiamola di dire, ad esempio, che gli economisti sono tutti cattivi perchè non hanno previsto la crisi finanziaria, o la crisi dell'euro. E chi vuol passare da grande economista perchè "io lo avevo previsto", sta parlando di qualcos altro: cioè di gioco di azzardo.

Caro Tommaso,

ho apprezzato il tuo dotto articolo che cerca di smontare la veridicità scientifica dell'asserzione che la causa della mancata crescita della produttività in italia sia l'euro. come hai giustamente argomentato tu, non abbiamo una prova inoppugnabile, statisticamente, che questo sia sicuramente vero.

 

mi viene da dire: e quindi?

 

credi che questo sposti di una virgola la questione euro?

 

domanda: hai la prova inoppugnabile scientificamente che la mancata crescita di produttività in italia sia da imputare a qualcos'altro: tipo la struttura delle nostre piccole imprese? sai bene che molte piccole e medie imprese italiane continuano a prosperare, quindi la dimensione non può essere tout court imputata a causa dei nostri problemi economici.

 

quello che interessa il grande pubblico è perché siamo finiti in questa merda, e come facciamo a tirarcene fuori. sembra che la diagnosi sulla crisi migliore non coincide con quella delle mancate riforme strutturali e altri argomenti poco seri.

 

lascio il link di un articolo di De Grauwe che consiglio a tutti di leggere. non occorre dire che De Grauwe oltre ad essere uno dei maggiori economisti mondiali, non può essere tacciato di antieuropeismo visto il suo lavoro di consulente della commissione europea. la sua (di De Grauwe) analisi delle cause della crisi in eurozona coincidono con quanto afferma il prof. Bagnai.

 

www.lse.ac.uk/europeanInstitute/LEQS/LEQSPaper57.pdf

 

buona lettura e saluti cordiali a tutti

 

marco esposito

Non ci sono prove inoppugnabili in economia. Se il Prof Bagnai avesse presentato un suo paper a una conferenza scientifica (ammesso che un paper metodologicamente coerente esista) sostenendo la tesi "euro causa caduta produttività", e io avessi agito da discussant, lo avrei criticato nel modo presentato nel post. Obiettivo del post è mostrare quanto poco credibili scientificamente possano essere le tesi di euro-exit (non in quanto tali, ma se motivate dal presunto effetto negativo dell'euro sulla produttività). Sta al lettore decidere come formarsi un'opinione.

Non ci sono prove inoppugnabili in economia. Se il Prof Bagnai avesse presentato un suo paper a una conferenza scientifica (ammesso che un paper metodologicamente coerente esista) sostenendo la tesi "euro causa caduta produttività", e io avessi agito da discussant, lo avrei criticato nel modo presentato nel post. Obiettivo del post è mostrare quanto poco credibili scientificamente possano essere le tesi di euro-exit (non in quanto tali, ma se motivate dal presunto effetto negativo dell'euro sulla produttività). Sta al lettore decidere come formarsi un'opinione.

 

mi viene da dire: e quindi?

 

credi che questo sposti di una virgola la questione euro?

domanda: hai la prova inoppugnabile scientificamente che la mancata crescita di produttività in italia sia da imputare a qualcos'altro [?]

 

Ma infatti il problema non è "la questione euro", salvo che per chi ritiene che quella sia la questione. La questione è il declino dell'Italia, la sua produttività.
Sul piano metodologico però abbiamo la seguente situazione:  qualcuno afferma, sulla base di leggi o ipotesi, che la stasi della nostra produttività sia causata SOLO dall'euro (o dal regime a cambi fissi precedente, con ECU). Ho letto il testo di Bagnai e la sua tesi, fatta la tare alle mille divagazioni, è questa. Il colpevole alla fine rimae uno solo. Monacelli qui confuta questa tesi - e solo questa per lo meno nella parte I che stiamo leggendo ora -- sul piano delle sue conoscenze economiche. Poi se ci sono altre cause (ed è ovvio che le cause sono tante, alcune determinanti altre meno) questo già di per se' inficia il ragionamento che l'assassino sia SOLO il maggiordomo. Chiaro che per scagionare il maggiordomo  sarebbe utile trovare i veri colpevoli ma qui Monacelli (che è in grado di farlo) ha fatto un esercizio ben preciso, mostrando con argomenti convincenti che la tesi non è scientifica. E se c'è un "e quindi da dire" è che "quindi non è dimostrabile che il declino della produttività italiana sia attribuibile ad un regime di cambi fissi".

Quanto a De Grauwe dice cose interessanti ma non mi pare che affermi tesi che legano la stasi nella produttività italiana al regime di cambi fissi. Anzi di produttività manco se ne parla. Che l'eurozona sia stata costruita male è ormai una tesi condivisa e condivisibile (o se vuoi che oltre all'eurozona non sia stata costruita l'europa federale) ma questo non implica per forza accettare i costi enormi della sua distruzione. Con costi inferiori si puo' perfezionare l'europa e mi pare che De Grauwe non dica "meno euro" ma che dica invece più unione bancaria e fiscale (quindi piu' europa).

Data la grande competenza nel settore monetario internazionale vorrei, se mi posso permettere, di proporre la porf. Monacelli di trattare le questione relative (new open macro alla Corsetti et al., Galì) al LCP (local currency pricing), PTM, PCP, monetary stance, divine coincidence, variabili che incidono sul tasso di cambio, pass-through del tasso di cambio. E' un settore che non tratta mai nessuno a livello divulgativo e sarebbe interessante, alla luce delle stupidagini che si leggono in giro, leggere qualcosa che venga scritto da un vero esperto del settore.

Questo paper di C. Engel illustra un punto fondamentale sui costi di cambi flessibili (in presenza di LCP): e cioè che currency misalignments possono essere fonte di grandi welfare costs. Dedicato anche ai guru di euro-exit (a la Borghi o Bagnai) che continuano a sostenere: come mai il libero mercato va sempre bene, tranne che per le valute? Come se i currency markets fossero la stessa cosa dei mercati delle mele, come se non esistessero 30 anni di letteratura su overreaction in exchange rates, comportamento sganciato da fundamentals, etc..

 

http://tinyurl.com/lh74g43

Il paper è una summa di 10 anni di ricerche, a cui ho partecipato modestamente anch'io, e costituisce un passo in avanti rispetto alla posizione classica di Friedman. Il quale sosteneva che cambi flessibili sono SEMPRE meglio perchè permettono di assorbire shock asimmetrici. Che cosa ha permesso di fare un salto in avanti rispetto a Friedman (uno di quelli che viene sbandierato oggi insieme a Krugman, Stiglitz..etc perchè aveva detto che l'euro è una patacca)?

Proprio l'approccio moderno, microfondato, della teoria dell'equilibrio, applicato a modelli neo-keynesiani di economia aperta. Buona lettura  (per domande postate pure ancora sul blog)

 

Ho letto buona parte dei commenti, oltre al post ovviamente, e sono perplesso. Il Prof. Monacelli fa notare, giustamente, che l'euro è un sistema di cambi fissi, che non c'è alcuna evidenza empirica che la caduta della produttività italiana sia legata all'introduzione dell'euro, e la discussione mi sembra francamente non fra keynesiani e liberisti e mainstream e qualche altra "scuola" (se esistesse, vedi post di AB) economica, ma fra venditori di medicina "alternativa" e la medicina in senso stretto.

Ho sempre rifiutato di commentare questa cosa dell'euro exit o meno per "ridare competitività", ho sempre in mente una delle  lezioni del professor D'Antonio, mio insegnante di economia all'Università, che diceva"chiammal' cumm vuò, se t'a pigli è bbuona, si nun t'a pigli nun vale niente" quando doveva spiegare il ruolo della moneta a qualche studente particolarmente ottuso. 

Capisco anche il prof. Monacelli: nel momento in cui abbiamo scelto i cambi fissi (ma nessuno ricorda cosa era l'UE prima dell'Euro ? e gli USA sarebbero gli USA  senza il dollaro ?) per l'area di TOTALE libero scambio denominata Unione Europea abbiamo fatto solo quello che la logica imponeva, gli adattamenti dovevano essere delle leggi "federali" che avessero uniformato i vari mercati, ma possiamo/dobbiamo guardare avanti, perchè non c'è alcuna evidenza empirica che noi svalutiamo del 30% e io mi metto a produrre/investire per essere tassato al 68%. Proprio nessuna. Buona discussione a tutti.

Seguendo questo dibattito anti-euro vs pro-euro, ho prodotto anche io una mia argomentazione a favore della permanenza in cambi fissi (o meglio, una confutazione di una tesi degli euro-exiters). Sarà sicuramente sbagliata ed imprecisa ma la butto lì: l'uscita dal sistema attuale di cambi fissi verrebbe sicuramente seguito da una svalutazione per rilanciare la nostra economia (svalutazione competitiva). La condizione di Marshall-Lerner ci assicura che dopo un certo periodo (non so quanto lungo) le NX superano il valore ante svalutazione facendo così crescere il PIL. Ora io mi chiedo:

1) ML è sempre valida anche i recessione globale? (mi sembrerebbe strano)

2) siamo sicuri che una svalutazione fatta "all'italiana" non si traduca in una inflazione incontrollata? Non abbiamo mai avuto istituzioni così forti da poter avere una moneta tutta nostra sganciata dalle altre

3) il debito pubblico si compone anche di spesa pubblica. Con una moneta più debole, la parte di spesa pubblica che è rivolta all'estero (non so che percentuale sia attualmente, ma credo sia diversa da zero) aumenterebbe (a parità di costo, il cambio svalutato penalizza le importazioni). Siamo sicuri che le nostre casse erariali possano permettersi questo?

Grazie

la tesi centrale di “euro-exit” è che sia stato l’eccessivo iniziale apprezzamento reale del cambio (dovuto a un errato tasso di conversione lira-euro) a generare (attraverso i canali che discuteremo) la caduta di produttività. Se questo vale per noi suppongo valga anche per quegli altri paesi dell'area euro la cui produttivita' ha rallentato nel periodo post-2000 (Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Olanda, Portogallo)

Qui mi pare che si stia dando una cattiva rappresentazione della tesi "euro-exit" (ammesso che si possa identificare una ben precisa tesi comune ai fautori dell'euro-exit).
Che senso ha considerare la riduzione assoluta della crescita della produttività rispetto al passato di tutti i paesi? L'unica cosa sensata da fare è confrontare le differenze di crescita di produttività tra stati dell'eurozona: confrontare quelli che col cambio fisso ci hanno guadagnato (Germania, Finlandia) con quelli che col cambio fisso ci hanno rimesso (PIIGS+Francia).
Infatti suppongo sia normale aspettarsi che gli stati più "maturi" abbiano una produttività che cresce di meno degli stati meno maturi. Il dato anomalo dovrebbe essere che la produttività Italiana cresca meno di quella tedesca o francese che sono paesi economicamente più maturi dell'Italia. Cosa c'è stato in Italia di diverso rispetto a questi paesi dal 1996 in poi? Tante cose, e una di queste è il cambio sopravvalutato (mentre il cambio di Germania e Francia è sempre stato più favorevole).
Il punto infatti non è il "cambio fisso" ma il cambio sopravvalutato: anche con cambio flessibile se decidiamo (come Mussolini) di raggingere la quota 90 forse creiamo comunque dei danni.
Insomma: mi pare che una base di plausibilità la tesi "euro-exit" ce l'abbia, e il discorso citato sopra più che smontarla serve solo a fare solo confusione su quali siano i veri termini del discorso.

  1. La caduta della produttività italiana appare così netta che sembra normale cercare una causa che sia altrettanto "netta". Le possibili spiegazioni non sono tantissime, Bagnai elenca le 3 scuole di pensiero alternative qui:
  2. 1. nanismo delle imprese,
  1. 2. "ricerca e sviluppo" insufficienti,
  2. 3. troppa flessibilità che disincentiva investimenti.

Se rigettiamo il cambio sopravvalutato come spiegazione del problema dobbiamo sposarne una che sia possibilmnente più plausibile. C'è qualcuna delle altre spiegazioni suddette che lo è?
Non si tratta tanto di stabilire se la teoria "cambio sopravvalutato causa declino" è scientificamente dimostrata: si tratta di stabilire come si pone la sua plausibilità rispetto alle teorie rivali. Esistono anche le diagnosi per esclusione.

forse è il caso di attendere la parte due di questo post. poi ne riparliamo.

Quindi Bagnai esclude che un paese con la pressione fiscale più alta del mondo , servizi pubblici e una pubblica amministrazione peggiori d'Europa, una spesa pensionistica molto più alta della media europea, una porzione delle popolazione che vive di puro assistenzialismo statale, una giustizia civile inutile che lascia indifeso chiunque voglia investire dei soldi in attività produttive e una burocrazia asfissiante che strozza nella culla qualsiasi inziativa personale non siano motivi più che sufficienti a giustificare il declino italiano?

Prima di tutto mi unisco al coro di ringraziamenti e apprezzamenti per l'articolo veramente interessante e necessario.

L'obiettivo dell'articolo è enunciato molto chiaramente e molto ben posto, tuttavia c'è una "tesi debole dell'euroexit" che non coincide con quella che si vuole confutare ma secondo me è egualmente interessante: togliamo di mezzo le cause del declino della produttività (e più in generale dei problemi italiani), rimane il problema che un regime di cambi fissi, in questo momento, tende a esasperare le disparità tra le economie degli stati membri (quali che ne siano le cause). Inoltre fa venir meno un importante mezzo di riequilibrio delle bilance dei pagamenti in un periodo di crisi che, al netto dei problemi specifici italiani, in molti reputano straordinario. La domanda, posta semplicemente, è la seguente: anche se l'euro non avesse niente a che fare con le cause della crisi italiana uscire dall'euro non potrebbe comunque essere una scelta obbligata dalla situazione che in un modo o nell'altro si è venuta a creare? Per attuare altri tipi di riforme (ammesso che ci si riesca mai) ci potrebbe volere un tempo troppo lungo non compatibile con l'attuale situazione. 

 

La risposta viene già parzialmente data nei commenti è chiaro che l'autore dell'articolo non è un "apologeta dell'euro" e vengono accennate alcune possibili politiche di correzione a un sistema malfunzionante, tuttavia non capisco perché "l'uscita dall'euro" (magari si preferisce "ripensamento dell'area valutaria" ma è lo stesso)  non sia una delle politiche da contemplare, non per "risolvere i problemi dell'Italia" ma per far vivere più armonicamente l'UE e sopravvivere in questo frangente, condizione non sufficiente ma necessaria per risolvere i problemi dell'Italia (e non solo).

Questo delle "asimmetrie" è appunto il classico punto alla Friedman-Mundell-Kenen. Ed è sempre un argomento a favore di cambi flex. Il punto è che uscire da Euro è ben di più di un deprezzamento del cambio, ed è anche ben di più di una svalutazione. Vuol dire uscire da una currency area, con tutti i costi di ridenominazione del debito, legal disputes, perdita di credibilità,  probabile inflazione crescente, accesso ai mercati dei capitali, capital outflows, etc..

Quindi da un lato è ovvio che svalutare sia sempre un buon argomento: ma è un buon argomento EX-POST !! Eccoci arrivati finalmente nel mondo post Kydland&Prescott.

Invochiamo pure l'uscita dall'euro. Pur dimenticandoci di tutti i probabili costi elencati sopra, chiediamoci: e poi? In quali acque si troverebbe a nuotare l'Italia, con le sue istituzioni poco credibili? Quale gigantesco problema di time inconsistency si troverebbe a fronteggiare? Sarebbe come fare un salto indietro di 25 anni. Risolvere il nostro problema di time inconsistency è esattamente ciò che ci ha spinto a entrare nell'euro. Per importare una credibilità che le nostre istituzioni non avevano.

In sintesi: siamo sicuri che la flessibilità del cambio ce la sapremmo meritare? Che la sapremmo gestire? Ma la storia economico-politica di questo paese l'abbiamo dimenticata?

La nostra risposta ai problemi della giustizia, della scuola, del mercato del credito, del welfare, sarebbe questa: cioè tornare all'Italietta che svaluta e che si avvita in una spirale di perdita di credibilità? Io voglio andare avanti proprio perchè credo che il Paese meriti di più per il proprio futuro. La sponda di partenza la conosciamo. E' la sicurezza della nostra mediocrità. La sponda opposta è lontana, fa paura, siamo in cattive acque in mezzo al guado: ma muoviamoci signori e andiamo avanti.

 

Quello delle asimmetrie, del necessario e giusto riequilibrio tra economie di una currency area è un altro dei "miti" (Bisin direbbe favola) del dibattito su euro-exit. Che cosa vuol dire riequilibrio? Del current account balance? Dei tassi di disoccupazione? Dei livelli di produttività?

Sento continuamente utilizzare questo concetto e temo che nessuno abbia le idee chiare. Ad esempio: qual è il livello ottimale di imbalance del current account tra membri di una currency area? E' zero? Certamente no. E allora: come lo stabiliamo? La politica monetaria comune deve occuparsene? Se ne deve occupare la politica fiscale? Crediamo forse che tra Stati degli USA il current account balance sia sempre zero tra ogni coppia di Stati? E crediamo al mito che il governo federale intervenga sistematicamente per riequilibrarli?

Credo si debba ripartire dall'ABC. Non abbiamo idea di quale sia la gestione ottimale dei CA imbalances in una uione monetaria. Però tutti quelli di euro exit ripetono a pappagallo: bisogna permettere di svalutare per assicuare il giusto riequilibrio tra economie. Ma che vuol dire? Proprio niente. Gli squilibri di CA balance sono ottimali se in risposta a shock divergenti, a sentieri di crescita attesi divergenti, a sentieri attesi di produttività divergenti, etc..

Lo sappiamo vero che una piccola economia aperta può tecnicamente anche avere un perpetual CA deficit? (Basta che generi un valore presente scontato del trade balance positivo)

Invece lascia sgomenti la superficialità di tutta la galassia di euro-exit. "Bisogna uscire da euro semplicemente per garantire il giusto riequilibrio tra economie". Come già detto: stesso ragionamento dovrebbe indurre il Sud Italia a uscire poi dall'area valutaria della ri-neonata lira.

Che l'Italia abbia propri problemi strutturali che si porta avanti da almeno tre decenni è innegabile. Come è innegabile che abbia una problema suo peculiare di produttività che non ha eguali in occidente, e sulle cui ragioni dibattono da krugman a Daveri.

Quindi è innegabile che occorrano delle riforme "supply side" per affrontare questi problemi di lungo periodo (sebbene, come scrivo qua, ritengo che non sia questo il momento adatto per farlo).

Però è altrattanto innegabile che quella che stiamo vivendo ora è una crisi EUROPEA, dovuta a problemi strutturali interni ad un'OCA che non è mai stata tale. Tanto che i primi paesi ad essere stati colpiti, non sono stati gli "spendaccioni" come noi o la Francia, ma l'Irlanda e la Spagna, e infine, anche paesi "virtuosi" come l'Olanda e la Slovenia. Tutto ciò per dire che se non si risolvono gli squilibri interni all'area valutaria, questa sarà destinata ad esplodere, e nessuna riforma "ad un paese solo" avrà alcuna utilità. 


Quali sono questi problemi? beh, non ne parlo io o Bagnai, ma Philip Turner in un paper della BIS dal titolo "Caveat creditor " di cui riporto il brano che ci interessa più da vicino

 

 


"In contrast, the European imbalances (shown in Graph 1b) have been more persistent. In many ways, the euro area’s crisis is a balance-of-payments crisis caused by a misalignment of internal real exchange rates (Mayer, 2012). In many deficit countries, wages grew faster than productivity and reduced competitiveness vis-à-vis the major surplus countries in Europe. But in Germany declining real wages held back private consumption and led to a sizeable real effective depreciation in its exchange rate. Combined with strong export growth (helped by the infrastructure and investment boom in the Middle East and Asia), this led to a German current account surplus that exceeded 6% of GDP each year from 2006 to 2012 Germany is not alone. The average surplus of the Netherlands (a euro area country), Sweden and Switzerland exceeded 9% of GDP last year (Table 1). These surpluses are larger relative to GDP than the aggregate deficit of France, Italy and Spain. The euro area’s current account surplus has thus risen, reaching a record 1.8% of GDP in 2012 (IMF, 2013) The creation of a common currency removed the nominal exchange rate as an adjustment mechanism.8 Greater respect for the Maastricht convergence criteria might have reduced these imbalances but would not have prevented them. Some economists argued in the late 1990s that the adoption of the euro would itself trigger mechanisms that would automatically favour economic convergence. An optimal currency area was, on this view, endogenous. As Eijffinger and Hoogduin (2012) have laconically observed, “the endogenous optimal currency area theory has been convincingly falsified”. All these developments, which have different specific roots, suggest that current account imbalances were a general problem (perhaps a symptom of different underlying causes) before the crisis and remain a key issue today"

Gianluca

 

In attesa della seconda parte, pochi grafici bastano per sfatare il mito della bassa produttività del lavoratore Italiano.

I dati sul Pil mostrano come un lavoratore italiano sia in grado di contribuire alla produzione con la stessa intensità di uno tedesco, ma il più basso numero di occupati determina una minore capacità dell’intero sistema di creare ricchezza.

Fonte grafico e commento: Centro studi BNL Focus n.3 2013


                                                                        *****

I DATI SULLA PRODUTTIVITÀ DA UN'ALTRO PUNTO DI VISTA

Perchè perdiamo competitività dal 2000?

Tabella e grafico elaborati su dati istat 100 statistiche edizione 2010

il post riguarda il tasso di crescita, non i livelli

c è da togliere l'inflazione e soprattutto la quantità di lavoro in più che svolge in media l'occupato italiano rispetto al tedesco. casomai mi pare un' ulteriore conferma dell'inefficienza con la quale impieghiamo i fattori. per produrre (quasi)lo stesso reddito per occupato un occupato italiano deve lavorare  350 ore l'anno in più.(2 mesi in più ,su per giù)

e poi,scusami,ma perchè vi sentiti punti(l'no notato anche con altri) nell'orgoglio.ci sono dei problemi da risolvere,stop.''con la spada devi beccare una mosca posata sul naso del tuo amico,senza pensare a nient'altro''dicono i maestri zen

VOTA E FAI VOTARE FARE PER FERMARE IL DECLINO -:)

ma quale sarebbe il senso del primo grafico!?

come l'hai determinata la relazione causale di cui parli? il "minor numero di occupati" sarebbe una variabile esogena, secondo te.

non è che per caso in germania sono occupati regolari molti lavoratori part-time o a bassa qualifica (che qui sono in nero), e questo di conseguenza abbassa la produttività per OCCUPATO, essendo qui da noi contati soltanto i regolari, e per di più di meno viste le barriere all'ingresso!?

mah!!!

Nel PIL viene aggiunta la quota di sommerso (18% circa) ma cosa succede con le ore lavorate e gli addetti? La stima di Schneider è tra 7 ed 11 milioni di addetti al sommerso in Italia (tra chi fa solo nero, chi lo fa come secondo o anche terzo lavoro).

Non si può proprio a stare a guardare un sistema economico che così chiaramente non funziona ... un sistema che appare sempre più come il sistema sovietico centralizzato che ha impiegato tanto tempo per crollare.

Un sistema politico che deborda dal libero mercato non solo rappresenta una cattiva idea, è sempre più dimostrato che É una cattiva idea.

L'idea della moneta unica è fondamentalmente errata. Non c'è alcun meccanismo per rimpatriare il denaro che scorre nelle nazioni più forti verso le più deboli. Solo con l'unità politica può operare una tale cosa ... e questo è esattamente il motivo per cui i pianificatori centrali di Bruxelles stanno surrettiziamente spingendo sempre di più verso questo obiettivo!

avete un'epidemia di "neuroningite" sconosciuta nel resto d'Europa?