El bordèlo ne la testa del PD (ovvero, il PD-pensiero sul mercato del lavoro)

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Mi sono guardato cosa dice il programma del PD riguardo alle politiche per il mercato del lavoro. Roba da far girare la testa tanta e tale è l'accozzaglia di misure diverse, messe lì apparentemente per indurre flessibilità e favorire la crescita, creare occupazione, ridurre il precariato, salvaguardare i diritti dei lavoratori, aumentare l’eguaglianza, aiutare i lavoratori incapienti, sostenere le famiglie, le donne, i bambini, eccetera eccetera. Le commento una per una, esaminandole alla lente delle poche cose che so come economista. I risultati di tali misure saranno, prevedibilmente, una distorsione ancora più perversa degli incentivi, la riduzione dell’occupazione, e nessuna incidenza sulle rigidità dei contratti di lavoro a tempo indeterminato. Non ci siamo, davvero non ci siamo.

Ovviamente, un programma di governo spesso rappresenta un insieme di desideri e di proposte più o meno vaghe che hanno anche una forte componente propagandistica. Pur tuttavia, esiste sempre la speranza che le proposte riflettano un orientamento preciso, degli obiettivi concreti, che diano un'idea di come un partito voglia muoversi qualora fosse al governo. Con questo obiettivo analizziamo dunque le proposte del PD (qui il testo integrale) in materia di mercato del lavoro: quelle più direttamente attinenti al mercato del lavoro sono descritte ai capitoli 2 e 6 della sezione intitolata "DODICI AZIONI DI GOVERNO" ("2. PER UN FISCO AMICO DELLO SVILUPPO" e "6. STATO SOCIALE: PIÙ EGUAGLIANZA E PIÙ SOSTEGNO ALLA FAMIGLIA, PER CRESCERE MEGLIO"). [non resisto alla tentazione di commentare il formato del programma: ci sono quattro problemi (del paese), dieci pilastri (del progetto), dodici azioni (di governo), dove poi ogni "azione" è frantumata in una miriade di punti, commi, sotto-commi, ecc. Mi ricorda la famosa barzelletta di quando ero alle elementari: "cinque sono i quattro continenti del mondo, e sono i tre seguenti: europa e asia".]

Per aiutare il lettore nella navigazione, propongo un piccolo glossario ragionato di alcuni termini adoperati nel programma.

Salario orario minimo. Di questo abbiamo già discusso altrove su questo sito. Tale legislazione stipula un salario minimo che dev'essere pagato da qualsiasi datore di lavoro per ogni ora lavorata. Come già osservato, se da un lato tale strumento può spingere i lavoratori a cercare un lavoro in modo più attivo, dall’altro esso può indurre le imprese a ridurre la propria “domanda di lavoro”, ad assumere lavoratori in nero, o addirittura a chiudere i battenti qualora i loro margini di profitto siano già ridotti all’osso. L’evidenza empirica, sia negli Stati Uniti che in diversi paesi europei, suggerisce che il salario orario minimo tende ad avere effetti negativi su occupazione, ore lavorate, e partecipazione al mercato del lavoro – soprattutto per i gruppi di lavoratori che più si vorrebbe sostenere: giovani, donne, minoranze.

Reddito minimo garantito. Questa è cosa ben diversa dal salario orario minimo, in quanto slegata dallo svolgimento di un’attività lavorativa. Lo scopo principale di tale strumento è quello di fornire un reddito minimo “di sicurezza” a persone o famiglie che si trovino al di sotto di una soglia minima di povertà. Ho scoperto che una versione del reddito minimo è stata sperimentata in Italia nel 1999-2001, in 39 Comuni italiani. Il problema principale di questo tipo di programmi è che tende a ridurre l’offerta di lavoro: riduce infatti l’incentivo da parte dei lavoratori non-occupati a mettersi alla ricerca di un posto di lavoro, oppure induce a lavorare meno ore. Se io ricevo un reddito minimo sia che lavori sia che non lavori, non ho alcun incentivo a lavorare finché il mio reddito da lavoro non raggiunga un livello strettamente superiore a quello minimo garantito; perché mai dovrei far fatica al lavoro se comunque posso ricevere un reddito garantito? (Per i secchioni, come li chiama Michele, sto parlando di disutilità del lavoro, e non c’entrano niente l’effetto di sostituzione e quello di reddito).

Negative Income Tax. Questo strumento (molto simile al seguente) è un modo di implementare il reddito minimo garantito che riduce l’effetto di disincentivazione al lavoro. L’idea, proposta originariamente da Milton Friedman nel 1962 (e descritta da Robert Moffitt in questa nota) è quella di usare una combinazione modulata di trasferimenti e tasse, diminuendo lentamente i trasferimenti all’aumentare del salario da lavoro in modo tale da mitigare il più possibile l’incentivo a non lavorare che il puro reddito garantito implicherebbe. Il reddito minimo garantito si basa su un trasferimento dallo Stato che avviene anche se uno non lavora; se uno lavora il trasferimento viene ridotto euro per euro di un ammontare corrispondente al salario guadagnato dal lavoratore. Mettiamo che se non lavoro prendo un reddito minimo garantito di 500 Euro al mese; ebbene, se comincio a lavorare e guadagno 300 Euro al mese, il trasferimento dallo Stato viene ridotto a 200 Euro, in modo che il mio reddito complessivo resti comunque a 500 Euro. Questo equivale a dire che l’aliquota dell’imposta sul reddito è del 100% per salari sotto il reddito minimo. L’idea di Friedman era di modulare la cosa più intelligentemente, usando un'aliquota più bassa. Continuando nell'esempio di prima, se comincio a lavorare e guadagno 100 Euro, il trasferimento si riduce a 450 Euro (ovvero, il reddito da lavoro viene "tassato" al 50%, non al 100%), così arrivo a 550 ed ho incentivo a lavorare un po' di più; se guadagno 200, il trasferimento si riduce a 400 e arrivo a 600 Euro complessivi; e così via finché arrivo a 1,000 Euro di reddito da lavoro e il trasferimento dallo Stato scompare del tutto. Questa semplice idea fa sì che anche a bassi salari, dove ancora incide il reddito minimo, i lavoratori abbiano comunque l’incentivo a cercare di lavorare per aumentare il proprio reddito complessivo.

[Idea semplice sì, ma ancora oggi ci sono persone che non la comprendono, e che auspicano l’avvento di un reddito minimo garantito con un’aliquota del 100% per salari inferiori al minimo. Altri invece, come Tito Boeri, sono più avveduti e se capisco bene suggeriscono di usare, ad esempio, un’aliquota del 60%. Tito suggerisce anche di usare il reddito minimo garantito al posto di un nugolo di altri programmi di assistenza, come le pensioni sociali, quelle di inabilità, eccetera: qui l’idea (e questa era anche l’intenzione di Friedman) è di ridurre possibili effetti di incentivi perversi che si vengono a creare quando si definiscono programmi di assistenza per categorie estremamente circoscritte di persone.]

Credito d’imposta sul reddito da lavoro. Lo scopo di questo strumento è ancora una volta di integrazione del reddito per lavoratori a bassi livelli di salari, e il modo in cui viene implementato è simile a quello della NIT. Si tratta di un credito d’imposta che aumenta gradualmente all’aumentare del reddito da lavoro, raggiunge un massimo, e quando lo stipendio raggiunge un certo livello, invece di sparire di colpo (con i soliti problemi di incentivi), viene ridotto gradualmente fino a sparire del tutto. La differenza fondamentale rispetto alla NIT è che mentre questa fornisce un sussidio anche a zero ore lavorate, il credito d’imposta entra in gioco solo a livelli positivi di reddito da lavoro. Negli Stati Uniti questo strumento esiste a livello federale dal 1975 (ma è stato ampliato a diverse riprese nel 1986, 1990, 1993 e 2001 fino a diventare uno dei più grossi programmi di assistenza pubblica negli USA), e ogni Stato può integrarlo in misura diversa e con regole diverse a seconda della presenza di figli a carico, ecc.

Sussidio alla disoccupazione. Qui l’idea è di fornire un sussidio monetario a persone che diventino disoccupate, per un periodo limitato nel tempo (che va da qualche mese a più di un anno). Di solito il sussidio è condizionato al fatto che la persona cerchi attivamente un lavoro, ma in pratica l’attività di search è difficile da monitorare. Il problema, ancora una volta, è di incentivi: se ricevo un sussidio (più o meno generoso) quando sono disoccupato, questo riduce l’urgenza di trovare lavoro – questo, sia chiaro, da un lato è un bene ma dall’altro può rivelarsi controproducente per il lavoratore stesso. Difatti sono stati proposti varimodi di mitigare il problema di incentivi: sostanzialmente si tratta di far sì che il sussidio diminuisca progressivamente nel tempo, per aumentare l'incentivo a cercare attivamente un lavoro. Insomma, un'altra variante di NIT e credito d'imposta.

Veniamo allora alle proposte del PD. La lunga introduzione era necessaria per cercare di capire esattamente cosa comportano i vari strumenti che appaiono nel programma. Vediamoli allora uno per uno, commentandoli di volta in volta.

Compenso minimo legale:

“Sperimentazione di un compenso minimo legale fissato in via tripartita (parti sociali e governo), per i collaboratori economicamente dipendenti (con l'obiettivo di raggiungere 1000/1100 euro netti mensili). Va verificato con le parti sociali se questo minimo possa essere esteso a quei lavoratori dipendenti che non godono di adeguata protezione da parte della contrattazione collettiva.”

Qui la confusione regna sovrana. Non si capisce, oggettivamente, se si tratta di salario orario minimo, di salario mensile minimo, o di reddito minimo garantito. L'interpretazione del testo (che manco gli esegeti biblici...!) mi fa propendere per la prima ipotesi, magari definita secondo criteri mensili piuttosto che orari. In entrambi i casi, la proposta è perniciosa, come abbiamo visto, dato che distorce sia l'offerta che la domanda di lavoro e genera effetti di de-occupazione. In più, essendo così ambigua, si presta ad ulteriori distorsioni sul fronte delle ore lavorate. Peggio di così non si può.

Imposta negativa per redditi bassi:

 

“La detrazione [IRPEF, per i lavoratori dipendenti] può essere utilizzata anche per sperimentare forme di "imposta negativa": si tratta di sostenere i redditi più bassi, erogando la detrazione come trasferimento a favore dei lavoratori incapienti.”

“Sostenere i redditi più bassi con un trasferimento monetario a loro favore: per le famiglie con figli, la Dote [per figli a carico, sostituirebbe gli assegni familiari] stessa fa da imposta negativa in quanto viene erogata come trasferimento a favore delle famiglie incapienti.”

 

Bene, almeno si comincia a parlare di imposta negativa sul reddito (bicchiere mezzo pieno). Male, non si fa minimamente accenno ai problemi di incentivi legati alla NIT qualora NON si usi un'aliquota d'imposta minore del 100% (bicchiere mezzo vuoto). Caro Friedman: fiato sprecato. Forse non è tradotto in italiano ...

Sussidio di disoccupazione:

 

 

“ci vogliono politiche attive sul mercato del lavoro, che forniscano tutele del reddito in caso di disoccupazione. [...] [I beneficiari del sussidio] sono tenuti non solo ad accettare offerte di impiego e di formazione, pena la decadenza dal sussidio, ma ad attivarsi per cercare il reimpiego. Cercare lavoro è in sé un’occupazione, che per questo va retribuita, con un contratto specifico di ricerca d’occupazione”

 

Un programma di sussidi di disoccupazione va benissimo, come abbiamo visto - certo, con le dovute cautele per far sì che la persona disoccupata non perda l'incentivo a cercare lavoro. Qui invece il dirigismo torna sovrano: invece di disegnare il sussidio in modo che fornisca gli incentivi corretti (e il modo esiste), ci inventiamo un contratto specifico di ricerca d'occupazione. Con tanto di tutele legali, vincoli, codici e codicilli. Mi immagino già i costi sociali per garantire il rispetto di tali contratti, i ricorsi in tribunale, eccetera. Fantastico!

Credito d'imposta:

“Credito d'imposta rimborsabile per le donne che lavorano, adeguato a sostenere le spese di cura, così da essere incentivante e graduato in rapporto al numero dei figli e al livello di reddito. Tutte le donne lavoratrici - dipendenti, autonome, atipiche - con figli e reddito familiare al di sotto di una certa soglia (che potrà crescere nel tempo) dovranno poterne beneficiare. Nei primi due anni della Legislatura, il credito d'imposta potrà essere applicato alle donne lavoratrici del Sud, per poi essere esteso a tutto il territorio nazionale.

Anche qui, l'idea in sé va benissimo, l'implementazione specifica che viene suggerita fa cascare le braccia. L'enfasi è sulle donne che lavorano, mentre invece dovrebbe essere sulle famiglie. L'accenno alle spese di cura appare fuori posto: perché si parla di voci di spesa specifiche? L'idea di applicare la cosa solo al Sud, per poi (dopodomani?) estenderlo a tutto il paese non la commentiamo nemmeno.

Precariato: 

 

“Troppi giovani sono ora “intrappolati” troppo a lungo, spesso per anni, in rapporti di lavoro precari. Questa situazione va contrastata da una parte facendo costare di più i lavori atipici e di meno il lavoro stabile; dall’altra favorendo un percorso graduale verso il lavoro stabile e garantito [...] Contratti "atipici"? Devono costare di più”

“allungamento del periodo di prova, in misura da concertare con le parti sociali”

"I contratti temporanei dovrebbero essere utilizzati soltanto per prestazioni lavorative veramente a termine, riducendone la durata massima a due anni e imponendo ai datori di lavoro che li utilizzano il pagamento di contributi più elevati per l’assicurazione contro la disoccupazione"

 

Qui di nuovo l'enfasi è sul precariato invece che su una riforma seria dei contratti a tempo indeterminato, e sulle rigidità imposte dalla contrattazione nazionale collettiva. Il problema non è tanto l'allungamento della prova (un contentino alla Confindustria?), quanto di aumentare la flessibilità del contratto a tempo indeterminato, mantenendo sì delle garanzie per i lavoratori ma allo stesso tempo permettendo alle imprese di licenziare anche per motivi economici. Il "modello mentale", poi, non cambia: tutto dev'essere stabilito di concerto con le parti sociali (leggi Sindacati e Confindustria) e tramite lo strumento legislativo (durata massima di due anni? E perché non 22 mesi, o 26, o...?), invece di lasciare libere le singole parti di stabilire i termini del rapporto di lavoro che essi preferiscono.

La contrattazione collettiva:

“favorire un migliore rispetto degli standard stabiliti della contrattazione collettiva, anche sperimentando forme concordate con le parti sociali di estensione dell'efficacia dei contratti.”

Questo l'ho messo solo per illustrare, ancora una volta, il riflesso pavloviano che fa sì che s'invochi prima di tutto la contrattazione collettiva, i vincoli scritti a tavolino e fissati per legge, il ruolo sovrano della triade sindacale.

I congedi parentali:

 

“nuovo congedo di paternità interamente retribuito, dalle imprese, come nei Paesi scandinavi, addizionale alla maternità/paternità già oggi prevista e non fruibile dalle donne; congedi parentali al 100% per 12 mesi, come in Francia”

 

Rifarsi ai paesi scandinavi e alla Francia non mi sembra il modo migliore per cercare di ottenere maggiore flessibilità e occupazione. E non è certo questo il modo di stimolare le nascite e la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Se si vuole davvero aumentare la partecipazione femminile, che si liberi il mercato del lavoro dalle pastoie in cui esso è ingabbiato (oltre che aumentare i servizi di "child care", asili nido eccetera - questo, almeno, c'è nel programma). Non oso pensare ai costi che tale istituto (di congedi parentali così generosi) comporterebbe per le imprese. Evidentemente la crescita di produttività in Italia è così elevata che possiamo permetterci questo e altro...

Conclusione. Desolante, purtroppo. Anche le idee che a prima vista vanno nella direzione giusta (imposta negativa sul reddito, credito d'imposta, sussidio di disoccupazione) quando si guarda ai dettagli sono implementate in modo da distorcere gli incentivi e generare quindi effetti perversi su occupazione, partecipazione al mercato del lavoro, domanda di lavoro da parte delle imprese. Altre cose, come il compenso minimo garantito e le proposte riguardanti il precariato, sono semplicemente dannose. Ma la cosa che fa più impressione è la miopia di fondo che impedisce di pensare anche solo lontanamente ad affrontare i nodi veri, come le rigidità del contratto a tempo indeterminato, la contrattazione collettiva, l'impulso irresistibile a sovra-codificare ogni aspetto del rapporto lavorativo.

Sarà per un'altra volta allora, aspettando sempre, fiduciosi, Godot.

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Commenti

Ci sono 16 commenti

secondo me, a naso, il compenso minimo legale è una specie di salario mensile minimo per lavoratori con contratti atipici, magari da estendere a quei lavoratori dipendenti che non sono compresi nei rinnovi contrattuali della contrattazione collettiva (praticamente è come si concretizza la proposta sul "precariato").

Credo voglia essere un disincentivo a pratiche tipo "stage" semestrali, magari poi rinnovati, pagati solo con rimborso spese (o neanche), senza garanzia di assunzione al termine del periodo di prova, che non sono rari.

Bisogna vedere però come impatta una misura del genere su alcune (molte?) imprese che nel periodo di prova fanno quasi esclusivamente formazione. Tutte le imprese finanziarie italiane per assumere nel ramo commerciale (promotori finanziari, assicuratori vita e cose simili), fanno cose di questo tipo. Nessuno di questi ha interesse a non assumere, al termine della formazione, il lavoratore (che anzi a quel punto ha più potere contrattuale, se non altro perché è più qualificato). E non è consuetudine solo del ramo commerciale (parte importante dei neolaureati "brillanti" in economia e ingegneria, in italia, cerca/trova il primo impiego come consulente/analista junior presso imprese che fanno in outsourcing la contabilità analitica, i servizi informatici, la finanza di imprese medio-grandi). Alzare legalmente il salario di ingresso a 1100 euro per tutti questi stagisti di sicuro limita un bel po' le possibilità di assunzione per chi in questi settori non ha la dimensione e la fama di Accenture, e magari gli stagisti è già costretto a sceglierseli bene e non con colloqui stile

 

Grazie, Filippo. Son d'accordo con te circa i limiti che un eventuale salario mensile minimo imporrebbe alla capacita' di assunzione da parte delle imprese che descrivi. Proprio per i contratti di formazione o "stage" puo' convenire sia alle imprese che ai lavoratori stabilire un salario iniziale molto basso, cui corrisponde l'acquisizione di competenze specifiche da parte del lavoratore (aumenta il "capitale umano") e la possibilita' (ma non l'obbligo) di assunzione futura. Conviene all'impresa per abbassare i costi e per assicurarsi contro la possibilita' che il lavoratore, una volta terminata la formazione, se ne vada in un'altra ditta. Conviene al lavoratore per acquisire capitale umano e rendersi piu' appetibile non solo alla ditta che gli ha fatto la formazione, ma anche ad altre ditte del settore.

D'altra parte, mentre il lavoratore fa il suo "stage", deve anche poter mangiare: e' per questo che sono importanti gli strumenti dell'imposta negativa sul reddito, o del credito d'imposta. Ma non fissare arbitrariamente un minimo salariale che non tiene conto degli interessi di entrambe le parti (lavoratore e impresa).

 

 

Un punto interessante che mi piacerebbe approfondire: laddove la sinistra e' salita al potere lo ha fatto accreditandosi come la parte politica "competente in economia". Cio' e' chiaramente avvenuto qui in Inghilterra e, credo, sia vero in certa misura anche in Spagna e in USA.

Anche in Italia la stessa strategia mi sembra venga perseguita eppero' con risultati, come voi stessi segnalate, deludenti e contraddittori.

Di qui la mia domanda, cio' ritenete sia imputabile agli economisti "liberali di sinistra" (vedi Giavazzi e Boeri et alii) che alla prova dei fatti sono troppo poco liberali e troppo di sinistra (salvo quando scrivono sul Corriere)?

E' una distonia che si nota ormai da troppo tempo. Quando stimati economisti devono passare dallo scrivere i papers (o gli articoli di giornale) allo scrivere i programmi (o le finanziarie, ricordo il caso di Faini, da voi stesso pubblicamente stimato e, tuttavia, co-autore della da voi stessi definita peggior finanziaria della storia), c'e' qualcosa che li blocca.

Mi interessava di sapere "dal di dentro" cosa succede all'economista quando diventa politico ed in particolar modo in Italia.

 

 

Mi pare si chiami "passaggio dalla teoria alla pratica", cosa che in Italia è particolarmente complessa perchè siamo un paese di ultra garantisti, capziosi, cavillosi e furbi.

Piccolo esempio: la finanziaria 2007 ha ridotto obbligatoriamente a 5 i membri dei CdA delle società pubbliche (3 con capitale sotto i 2 milioni di euro) ed ha vietato la nomina di amminstratori che hanno approvato bilanci di società pubbliche in rosso per tre anni consecutivi. Cosa è successo? Aumenti di capitale ad oltre 2 milioni per aumentare almeno a cinque i membri del CdA, discettazioni teoriche sul fatto che non poteva essere considerata la perdita in quanto tale ma il suo "confronto con il budget": ovvero: se il budget (il più delle volte inventato o fatto a posteriori) prevede 10 milioni di perdita e se ne perdono "solo" 9,5 quell'anno non conta per il calcolo. Oppure altre società sono passate dal sistema di governance classico (Assemblea, CdA e Collegio Sindaclae) al sistema "duale" con consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza (dove possono essere nominati quanti membri si vogliono). E' per questo che alla fine TPS mi è anche simpatico.

 

Mi ero ripromesso di scrivere qualcosa anche sulle proposte del Pdl in tema di mercato del lavoro. Ma il programma del Pdl si trova solo in versione "pubblicitaria", non in dettaglio. Comunque, a p.5 c'e' la slide sul lavoro. I temi principali sono l'attuazione della legge Biagi (vedere qui per una descrizione sommaria), gli ammortizzatori sociali previsti dal libro bianco di Biagi, e la "Borsa lavoro" per facilitare l'incontro fra domanda e offerta di lavoro.

In linea di massima le idee della legge Biagi su flessibilita' del mercato del lavoro erano positive. Riguardo all Borsa lavoro, non capisco perche' debba essere un'istituzione pubblica invece di lasciare che il mercato svolga questo ruolo, come accade negli USA tramite una miriade di siti internet per la ricerca online di lavoro. Sugli ammortizzatori sociali, occorre capire bene di cosa si tratta.

...Stay tuned! 

 

 

Il "modello mentale", poi, non cambia: tutto dev'essere

stabilito di concerto con le parti sociali (leggi Sindacati e

Confindustria) e tramite lo strumento legislativo

 

Se quello che dice Ostellino nell'editoriale di oggi è vero, il caso citato è ancora poco.

Riporto la parte saliente:

 

E infatti il 5 marzo è entrata in vigore la legge

188/2007 che stabilisce quanto segue. 1) Il lavoratore che vuole

dimettersi deve recarsi presso un soggetto intermedio: il Comune e

simili. 2) Il soggetto intermedio si collega al Sistema Informativo Mdv

del Ministero del Lavoro e inserisce i dati relativi alla dimissione.

3) Il Sistema rilascia il Documento delle Dimissioni Volontarie con un

codice univoco e una data di rilascio (validità 15 gg.). 4) Il soggetto

intermedio consegna al lavoratore il Documento emesso, vidimato. 5) Il

lavoratore consegna il Documento al datore di lavoro. 6) Le dimissioni

non sono valide se formulate in altra forma

 

Dal sito del Corriere, "tour" degli ospedali di Milano per procurarsi la pillola del giorno dopo. Il video qui.

 

che ha interamente copiato il servizio delle Iene del 7 Marzo... è almeno la seconda volta che succede. video qui http://www.video.mediaset.it/video.html?sito=iene&data=2008/03/07&id=4759&categoria=puntata&from=iene 

 

 

Avevo pensato di fare un post sul tema, ma non ne vale la pena.

A riprova che dei programmi e delle cose da fare non frega nulla a nessuno il dibattito che ha fatto seguito a questo post è finito per parlare della pillola del giorno dopo: tutti sanno che quando dice il programma del PD sul mercato del lavoro è aria fritta. Persino Giorgio, che aveva cominciato a fare un analogo pezzo sul programma del PdL, ha lasciato stare. Delle questioni serie non si dibatte in campagna elettorale, non in quella Italiana almeno.

Sui giornali italiani nessuno discute di programmi o proposte, ed i candidati (tutti, ma soprattutto i due maggiori) su dedicano ad operazioni puramente pubblicitarie e/o populiste di cui c'è solo da vergognarsi.

Uno infila nelle liste elettorali finte economiste e finte precarie (ma carine vere, del e con il giro buono) mentre l'altro straccia programmi davanti alle masse plaudenti alludendo alla sua (nei sogni delle masse, loro) "virtuosità" con le soubrettes televisive. Uno s'inventa fantasmagoriche cordate da lui guidate per comprarsi (oops, salvare) Alitalia, generando una gazzarra economico-politica indegna d'un paese civile, mentre l'altro per non essere da meno promette aumenti generalizzati ed altrettanto indegni delle già abbondanti pensioni. Uno propone alla gioventù femminile di darsi da fare nuzialmente per migliorare la propria condizione economica, l'altro promette di migliorare la condizione di tutta la gioventù elargendo loro belinate giovanilistiche degne d'una soap opera pomeridiana.

Di questo ha consistito, sino ad ora, la campagna elettorale del "si può fare" e "rialzati Italia"!  Uno schifo ridicolo o una pagliacciata schifosa? Fate voi. Intanto i media di regime osannano ed il popolo beota s'appresta a votare.  

 

E ciliegina sulla torta:

 

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Vorrei introdurre qualche commento, ma non tanto al programma del PD. Alcune delle critiche sono del tutto condivisibili, ed in generale i programmi politici sono degli indigesti mattoni dove si dice, vagamente, tutto e il contrario di tutto, o si elencano dei pii desideri non basati su di una visione di come il mondo sia fatto. Mi lasciano però perplesso alcuni dei presupposti che mi sembra stiano dietro alle tue obiezioni.

Salario minimo garantito (SMIC). Conosco un po' la situazione della Francia, oltre che dell'Italia.

In Italia esiste da sempre il concetto di “minimo salariale”, ed è anche di fatto una norma della giurisdizione. Infatti tutti i contratti nazionali prevedono un minimo salariale (dipendente dalla categoria, e quindi da fatti contrattuali), e i contratti nazionali hanno, nel sistema giuridico italiano, forza di legge.

Abbiamo quindi una tutela (contro il supersfruttamento, inteso nel senso comune del termine) che però non è universale, e copre solo i lavoratori dipendenti inquadrati in un contratto nazionale. I minimi contrattuali sono in genere più alti dei livelli di SMIC corrispondenti nei paesi dove esiste.

In Francia lo SMIC svolge le stesse funzioni, ma in modo universale. Si applica a tutto e a tutti. Esso è anche quindi una misura di diverse cose: ad esempio, di quanto debba essere erogato come sussidio di disoccupazione, che non può essere sotto lo SMIC.

Ora, non vedo tutta questa differenza tra SMIC e paga minima oraria, stante che è anche stabilito un tempo di lavoro settimanale di riferimento, le 36 ore di Germania e Francia, e le 40 italiane. La paga oraria minima garantita “standard” è dunque frutto di una semplice divisione. Come una cosa del genere possa introdurre radicali differenze di effetti, francamente non riesco ad immaginarlo.

Ad esempio, mi piacerebbe approfondire questa asserzione: “L’evidenza empirica, sia negli Stati Uniti che in diversi paesi europei, suggerisce che il salario orario minimo tende ad avere effetti negativi su occupazione, ore lavorate, e partecipazione al mercato del lavoro – soprattutto per i gruppi di lavoratori che più si vorrebbe sostenere: giovani, donne, minoranze.”

Tornando ora alla Francia, presa come esempio, al trattamento di disoccupazione e SMIC, non è però vero che il trattamento di disoccupazione sia eterno, e non è vero che il lavoratore “debba cercarsi il lavoro da solo”. Nel programma entra chiunque abbia avuto vicissitudini che lo hanno privato del reddito, come ad esempio anche un commerciante che è fallito, o ha dovuto chiudere l'esercizio perché non redditizio. Ha però diversi obblighi (di formazione professionale, di rispondere positivamente ad un'offerta di lavoro adeguata, con una libertà di scelta limitata – mi pare di ricordare – a due rifiuti, ecc. ecc.). E' la struttura che si occupa di “avviare al lavoro” il disoccupato, non è lui “che se lo cerca” (come, mettendo annunci sul giornale a sue spese?), e dunque opera di fatto come una struttura di collocamento, non di assistenza. Il tutto dura al massimo tre anni, dopodiché niente più SMIC, proprio perché si ritiene che dopo che uno è stato tre anni fuori del lavoro, non vi rientri più (s'è trovato un modo alternativo, in genere in nero, di sbarcare il lunario). Non mi pare che non funzioni, è semplicemente un sistema più articolato, più universale di quello italiano, meno meccanico della Negative Income tax, e non vedo come incentivi la disoccupazione.

Non è quindi vero che “in pratica è difficile monitorare l'attività di search”. Certo, si deve partire dal presupposto che un ufficio pubblico funzioni, faccia effettivamente quello per il quale è stato costituito, sia dotato degli uomini e delle risorse necessarie a farlo, sia inserito in una società che collabora e non boicotta, ecc. ecc. Ma questo vale in generale per tutto, non solo per questo specifico caso, e non solo per gli uffici pubblici.

Non ho niente in contrario a dei meccanismi “più furbi” per gestire le cose, sia chiaro: possono aiutare. Penso però che sia illusorio pensare che la questione stia tutta lì: è più complicato, sul terreno sociale le cose funzionano (sono efficaci rispetto agli scopi che uno si propone) per un insieme di fattori, il primo dei quali è che queste cose siano gestite in modo consapevolmente adeguato ai fini. Quindi è questione di strutture, di organizzazione, di controlli, di uomini, di politiche, e di cultura. Delle solite cose, se vogliamo.

Non è quindi stupefacente che, come fanno notare alcuni degli interventi, gli economisti poi non siano in grado di impostare politiche efficaci. E' perché padroneggiano (quando lo padroneggiano, il che è molto più raro di quanto loro stessi credano) sono un aspetto, non necessariamente il più importante, del problema.

 

 

Ad esempio, mi piacerebbe approfondire questa asserzione: “L’evidenza empirica, sia negli Stati Uniti che in diversi paesi europei, suggerisce che il salario orario minimo tende ad avere effetti negativi su occupazione, ore lavorate, e partecipazione al mercato del lavoro – soprattutto per i gruppi di lavoratori che più si vorrebbe sostenere: giovani, donne, minoranze.”

 

La letteratura e' sterminata. Consiglio, per cominciare, una survey di John Kennan, "The elusive effect of minimum wages", pubblicata su Journal of Economic Literature nel 1995. Card e Krueger hanno provato per anni a provare il contrario, ma i loro risultati sono stati a mio parere ampiamente confutati.