Economie ad alta intensità di conoscenza: il supermoltiplicatore.

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Una politica espansiva d’ispirazione keynesiana non dovrebbe trascurare i mutamenti intervenuti nell’economia rispetto agli anni Trenta. Viviamo in un’economia ad alta intensità di conoscenza, caratterizzata da una quota senza precedenti di conoscenza posseduta privatamente attraverso i diritti di proprietà intellettuale. In questo contesto le politiche keynesiane potrebbero essere usate per diminuire il grado di monopolizzazione della conoscenza, e trasferire in modo efficiente conoscenza dalla sfera privata a quella pubblica. Gli effetti moltiplicativi di tali politiche potrebbero andare ben oltre quelli tradizionalmente associati agli interventi canonici di espansione della spesa pubblica. Esse sommerebbero a questi quelli che ha lo sviluppo della conoscenza umana quando il suo uso non è artificialmente limitato dal monopolio intellettuale.

Un lungo periodo di consenso superficialmente denominato "neo-liberista" sta volgendo al termine. Si è trattato di un’ambigua egemonia culturale: in essa sono state incluse cose, come la difesa dei diritti di proprietà (ovvero i monopoli) intellettuali o il lasciar fare all’autoregolamentazione dei gruppi d’interesse, che poco hanno a che fare con il liberismo classico senza “nei”. Sfortunatamente, non è tanto la fine di un’inerzia intellettuale accademica ma una difficile crisi economica che spazza via questa confusa costruzione ideologica che spesso aveva identificato negli USA la sua terra promessa mentre questi portavano avanti politiche (incoscientemente e inconsciamente) keynesiane motivate, fra l’altro, dalla guerra e da un traballante consenso politico.

Ora, comunque, c'è la crisi e le politiche anti-crisi dovrebbero sfruttare le nuove opportunità che le economie contemporanee offrono a misure di tipo keynesiano. Esse dovrebbero accettare che non tutte le buche che si scavano sono egualmente utili per stimolare l’economia e che qualcuna di esse può, talvolta, diventare una voragine che forma un buco nero da cui può diventare difficile riemergere. La “policy” proposta nei paragrafi seguenti non pretende di essere l’unica e nemmeno la più importante per affrontare la crisi. Essa vorrebbe, invece, costituire un esempio utile per mostrare che una politica di sostegno alla domanda aggregata può essere più efficace, e in senso keynesiano supermoltiplicativa, se tiene anche conto delle dinamiche microeconomiche di una società contemporanea.

Le moderne economie ad alta intensità di conoscenza sono ormai anche caratterizzate da una quota senza precedenti di conoscenza posseduta privatamente (o, in altre parole, di diritti di monopolio in forma di brevetti, copyright ecc.). Mentre le istituzioni globali (il WTO e i relativi accordi TRIPs) hanno reso più redditizia la proprietà intellettuale privata, nessuna istituzione globale ha contribuito ad aumentare la convenienza della proprietà intellettuale pubblica. Le istituzioni correnti (e ancor più quelle assenti) dell’economia globale hanno reso conveniente un eccesso di privatizzazione e di monopolizzazione dell’economia attraverso una rete intensiva di diritti di proprietà intellettuale (Intellectual Property Rights, IPR). Le lobby nazionali e internazionali non hanno poi mancato di sommare a questi perversi incentivi le loro motivazioni intrinseche, da sempre orientate ad acquisire posizioni di monopolio.

I diritti di proprietà intellettuale possono essere causa di stagnazione economica. I prezzi di monopolio restringono la produzione. La corsa ad acquisire monopoli può inizialmente stimolare gli investimenti ma, dopo un po’, lo stimolo è progressivamente compensato dalla paura che l’uso di nuova conoscenza possa essere bloccato da monopoli esistenti su conoscenze complementari pregresse (la cosiddetta tragedia degli anticommons). Inoltre, gli IPR hanno effetti asimmetrici su paesi ricchi e paesi poveri. Mentre i paesi in via di sviluppo esportano i loro beni in condizioni concorrenziali, molte imprese dei paesi del primo mondo possono vendere beni ad alto contenuto di conoscenza sotto lo scudo protettivo degli IPR. Nonostante siano presentati come un ingrediente necessario per il libero commercio, gli IPR offrono una protezione più forte della più elevata tariffa protezionistica. Garantiscono una protezione totale non solo nel mercato domestico ma anche in ogni altro mercato nel mondo. Analogamente a tariffe doganali e altre forme di protezionismo, possono solo contribuire a peggiorare la crisi economica.

Anche se la crisi è partita nel settore finanziario, è probabile che le istituzioni in essere nella produzione della conoscenza possano contribuire a generare una stagnazione prolungata. Allo stesso tempo, le economie ad alta intensità di conoscenza offrono grandi opportunità per politiche keynesiane efficaci. Invece di essere utilizzate per nazionalizzare in modo inefficiente le imprese che producono beni privati o foraggiare senza limiti quelli che sono stati i principali responsabili dell’accaduto (che non stanno peraltro restituendo in termini di aumentata liquidità il foraggio ricevuto), le politiche keynesiane potrebbero essere usate per diminuire il grado di monopolizzazione della conoscenza e trasferire in modo efficiente la proprietà intellettuale dalla sfera privata a quella pubblica. Il WTO, che ha contribuito a rendere più conveniente la proprietà intellettuale privata, dovrebbe essere bilanciato dall’istituzione di un ricco e autorevole WRO (World Research Organization) che renda possibile una proprietà intellettuale pubblica laddove essa può meglio contribuire allo sviluppo globale. E’ giunto il momento di accettare anche a livello politico che la conoscenza è un bene “non-rivale” o, meglio “anti-rivale”, che dovrebbe essere trattato come la più preziosa e specifica risorsa collettiva dell’umanità. Per usare la sempre vivida immagine di Jefferson, la conoscenza è come la fiamma di una candela: accendere un’altra candela non diminuisce la fiamma delle candele già accese. Al contrario, consentire ad altri di contribuire al fuoco della conoscenza ha l’effetto di accrescere la luminosità di ogni singola candela!

Le misure anti-crisi dovrebbero includere il finanziamento delle infrastrutture pubbliche di ricerca. Questo finanziamento dovrebbe essere coordinato a livello sovranazionale per evitare problemi di free-riding tra paesi, che al momento stanno restringendo lo sviluppo degli investimenti in ricerca pubblica. Inoltre, cosa ancora più importante nella crisi presente, il finanziamento può prendere immediatamente la forma di un’acquisizione pubblica di diritti di proprietà intellettuale posseduti dalle imprese private e fungere sia da sostegno alla domanda sia da stimolo a un aumento di efficienza dei mercati. L’effetto di queste politiche andrebbe ben oltre quanto ci si può attendere da molte delle altre misure proposte per fare fronte alla crisi.

In primo luogo, l’acquisizione proposta non comporta la nazionalizzazione dell’impresa o l’uso di denaro dei contribuenti senza contropartita. Al contrario, l’IPR è pagato a un prezzo corrispondente al suo valore privato ma viene trasferito all’arena pubblica dove ha un valore molto maggiore e può ridurre i costi di produzione di molti produttori. Solo un monopolista in grado di discriminare perfettamente fra i consumatori (che è ovviamente solo un’utile astrazione teorica) potrebbe ottenere dalla sua proprietà intellettuale un beneficio sociale pari a quello che si otterrebbe quando essa fosse messa gratuitamente a disposizione di tutti i concorrenti. Inoltre, i diritti di proprietà intellettuale sono al momento sottovalutati (insieme ai valori azionari delle imprese che li detengono) e questo rende possibile pattuire dei prezzi molto vantaggiosi sia per il venditore monopolista sia per la comunità che acquista il diritto di proprietà intellettuale.

In secondo luogo, si garantisce sostegno finanziario a quelle imprese che si sono mostrate più innovative. Un forte stimolo per nuovi investimenti viene, così, dato su due fronti alle imprese che vendono alla comunità i loro diritti monopolistici. Da una parte tali imprese ricevono nuovi fondi, dall’altra, avendo venduto loro diritti di proprietà intellettuale, affrontano una competizione nettamente più dura. Pertanto, esse avranno sia i mezzi finanziari sia un forte incentivo, dovuto alla pressione della concorrenza, a investire in innovazione stimolando così la domanda aggregata. Tutta la catena del processo innovativo sarebbe così accelerata con conseguenze benefiche per la crescita dell’economia e l’efficienza delle singole imprese. Per esempio, nel settore farmaceutico, le ditte alla frontiera del processo innovativo metterebbero subito in produzione dei nuovi prodotti, mentre altri produttori potrebbero iniziare a produrre dei farmaci divenuti generici dopo l’acquisto pubblico dei diritti di proprietà intellettuale.

In terzo luogo, un prezzo di monopolio viene sostituito da un più basso prezzo concorrenziale. Anche questo ha un effetto positivo sulla domanda aggregata, non inferiore a quello che si avrebbe con altri provvedimenti tesi ad abbassare i costi di produzione come, per esempio, degli sgravi fiscali.

Infine, viene alleviato il problema degli “anti-commons” di cui si diceva; ciascuna impresa può ora investire in nuova conoscenza con la consapevolezza che è meno probabile che la conoscenza pregressa (complementare e necessaria per beneficiare dell’innovazione) sia posseduta e monopolizzata da altre imprese. La politica suggerita diminuisce il costo del rischio delle transazioni future necessarie a utilizzare i frutti dell’attività innovativa. Dunque, se da una parte dei fondi vengono immediatamente acquisiti dalle imprese che sono state più innovative in passato (che spesso appartengono ai paesi più ricchi), dall’altra l’aumento della conoscenza liberamente disponibile per tutti ha effetti diffusi e contribuisce allo sviluppo complessivo dell’economia mondiale. Per di più, in tutti i paesi indipendentemente dal loro grado di sviluppo, gli imprenditori dovrebbero superare un numero minore di barriere monopolistico-proprietarie per fare investimenti innovativi preziosi per la stagnante economia mondiale.

Gli effetti moltiplicativi che abbiamo indicato vanno ben oltre quelli tradizionalmente associati alle canoniche politiche keynesiane; gli effetti totali sono più forti sia sul lato domanda che in termini di aumento di efficienza dell’economia. In un’economia ad alta intensità di conoscenza é possibile far funzionare un “super-moltiplicatore” degli investimenti pubblici. Ai tradizionali effetti moltiplicativi che hanno questi investimenti in tempi di depressione economica si potrebbero sommare quelli che ha la conoscenza umana quando il suo uso non é artificialmente limitato dal monopolio intellettuale.

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Commenti

Ci sono 26 commenti

Interessante, e nel mio piccolo mi sento d'accordo. Però faccio mia l'obiezione di Stallman: parlando di proprietà intellettuale si tende a fare un calderone che contiene cose molto diverse come copyright, brevetti, trademark e non so se c'è altro. In questo caso mi sembra che il bersaglio siano i copyright e i brevetti, ma forse sarebbe meglio esplicitarlo.

D'accordo con il punto e anche con quanto dice Stallman che il termine stesso proprietà intellettuale é in qualche misura fuorviante e ideologico. Su tutto ciò rimando al bel libro di Boldrin e Levine Against Intellectual Monopoly ( per free download: http://www.knowprose.com/node/18360 )

Una domanda ingenua: come si prezzano i diritti monopolistici?

Ogni brevetto è un pezzo unico, non ha un prezzo di mercato immediatamente evidente, e stimarne la rendita di monopolio mi sembra un' esercizio difficile ed "opaco".Non rischiamo di creare un bel circolo in cui i burocrati del WRO ed un gruppo di società amiche loro si spartiscono una bel po' di denaro pubblico a colpi di brevetti inutili?

Insomma, come evitiamo che il WRO venga "catturato" da big pharma o chi per esso come è successo alla FED con wall street?

Si tratta della difficoltà più notevole che incontra questa proposta.

 Occorre studiare possibili soluzioni tecniche al problema di fissare i prezzi ma vorrei subito osservare che il fatto che Wall Street possa catturare la Fed non significa che ne possiamo fare almeno. Significa che dobbiamo trovare i meccanismi politici e soluzioni tecniche migliori per non farla catturare dalle lobby...... 

 

 

Provo a rispondere così all'obiezione di Vincenzo (il sistema mi impedisce di usare la funzione reply): per scegliere quali brevetti e quale prezzo comprare bisogna ovviamente estrarre informazioni non solo e non tanto dai loro detentori quanto dai loro futuri utilizzatori....

Naturalmente non penso che i costi di transazione dell'acquisto ex-post siano bassi e questo implica che dovremmo avere meccanismi e istituzioni che incoraggino la produzione di ricerca non monopolizzata.

 

Avrebbe senso pensare ad un sistema per cui il pagamento del brevetto/copyright venga fatto a posteriori in funzione di quanto questo è stato usato? Sarebbe, in pratica, l'idea che RMS propone, al posto del copyright, per pagare lavori di tipo artistico. Un riferimento dovrebbe essere qui, da qualche parte: www.gnu.org/philosophy/copyright-versus-community.html

Non ho capito bene se tu intendi che lo Stato venda queste licenze o le renda semplicemente reperibili a tutti.

 

Comunque, sono daccordissimo con questo articolo.

Più e meglio dello Stato dovrebbe essere una agenzia pubblica internazionale (il WRO cui faccio riferimento). L'idea sarebbe poi che le licenze fossero rese disponibili a tutti.

Professore, benvenuto, io e Axel Bisignano (gli unici due keynesiani del sito, almeno fino ad oggi -) si sentono meno soli).

Però io non credo che sia interessante un WRO, quanto una minore durata dei diritti, altrimenti entreremmo in una altra trappola: quella di chi vuol vendere brevetti, magari prossimi alla scadenza, o brevetti semplicemente inutili, con accordi sottobanco, per cui potremmo cadere dalla padella nella brace: le lobby intorno al WRO per rifilare di tutto, oltre che rischiare che paesi "emergenti", ma di fatto già produttori planetari, come la Cina, facciano la parte del leone.

Invece una minore durata dei brevetti (cinque anni, ad esempio) renderebbe tutto più fluido e semplice, io impresa avrei interesse a "spremere" il brevetto con prezzi concorrenziali e non monopolistici, per gli altri, volendo, cinque anni non sono niente.

Sullo stimolo della domanda aggregata, tramite una condivisione della conoscenza, inoltre, esprimo un dubbio: siamo in un momento di "trappola della liquidità", almeno per le PMI, le banche hanno soldi, ma non li mollano nemmeno per sbaglio, che me ne faccio io di "brevetti pubblici" se il mio problema è pagare i debiti ? Ovviamente, dal mio punto di vista, questo vale anche per altre politiche "pensate" e discusse: abbiamo dato i denari alle banche, che se li sono tenuti, stiamo dando il denaro ai costruttori di auto, che forse stimoleranno la domanda a breve, ma non sappiamo quanto la deprima alla lunga, non è che stiamo agendo dal lato sbagliato dell'equazione ?

A mio parere, l'unica "pensata" keynesiana in questo periodo è quella del Presidente Obama, che intende "sovvenzionare" un mercato (quello ambientale) di scarso appeal, ma soprattutto dai profitti ancora incerti, e dai costi ancora elevati. Non sarebbe il caso di approfondire questo stimolo di una domanda (ambientale) attualmente bassa ? Non porterebbe questo a un moltiplicatore keynesiano ?

 

Invece una minore durata dei brevetti (cinque anni, ad esempio) renderebbe tutto più fluido e semplice, io impresa avrei interesse a "spremere" il brevetto con prezzi concorrenziali e non monopolistici, per gli altri, volendo, cinque anni non sono niente.

 

Probabilmente dipende, andrebbe considerato caso per caso. E' chiaro che, in generale, inprimo luogo diminuendo la durata dei brevetti diminuisce il guadagno atteso dagli investimenti in ricerca e sviluppo. In secondo luogo, non capisco perchè "spremere" il brevetto significa fare prezzi concorrenziali... semmai potrebbe essere l'esatto contrario. In terzo luogo, non c'è un po' di contraddizione tra il sostenere che cinque anni per chi detiene il brevetto sono "abbastanza" per farlo fruttare adeguatamente, mentre sono "niente" per chi deve aspettare... ancora una volta, dipenderebbe dai casi specifici e, ancora una volta, per determinare la durata ottimale di ciascun brevetto servirebbe moltissima informazione.

 

A mio parere, l'unica "pensata" keynesiana in questo periodo è quella del Presidente Obama, che intende "sovvenzionare" un mercato (quello ambientale) di scarso appeal, ma soprattutto dai profitti ancora incerti, e dai costi ancora elevati. Non sarebbe il caso di approfondire questo stimolo di una domanda (ambientale) attualmente bassa ? Non porterebbe questo a un moltiplicatore keynesiano ?

 

 

Hehehe... ci riproviamo? ;-)

La mia proposta non pretende affatto di essere l'unica per fronteggiare la crisi e la strada ambientale é certamente interessante (anche se lo spettacolo dei produttori di automobili diventati estremisti ecologisti mi lascia davvero perplesso anche perché dovrei rottamare la mia opel astra che ha solo 15 anni e a cui sono molto affezionato). 

Le lobby (di proprietari IPR come quelle di recenti ecofurbi) sono sempre un problema ogni volta che si cerca di intervenire nell'economia ma penso che sarebbe possibile trovare una soluzione magari seguendo il filo di quanto indicato da Matteo dell'Amico.

Non capisco invece l'argomento relativo allo scarso stimolo sulla domanda aggregata. L'iniezione di liquidità va direttamente a finanziare imprese produttive e innovative (saltando la trappola di assorbimento di liquidità delle banche) che, se vendono gli ipr, sono poi costrette a investire rapidamente da una rivitalizzata concorrenza mentre la imprese concorrenti si trovano con del nuovo capitale intellettuale disponibile a costo zero (che ha chiari effetti espansivi).

Accorciare il tempo dei brevetti senza negoziato e senza compenso non mi trova in linea di principio affatto contrario ma non sarebbe affatto opportuno in una situazione di crisi: per esempio porterebbe ad un immediato ulteriore crollo azionario delle imprese detentrici dei brevetti.

Il problema - citato in svariati commenti precedenti - dell'informazione necessaria a (i) selezionare i brevetti da acquistare rendere pubblici e (ii) determinarne il valore mi pare quasi insormontabile. Sia perchè l'informazione richiesta è enorme (e costosa da acquisire) sia perchè comportamenti opportunistici, lobbying e anche corruzione sarebbero un rischio concreto.

Per quanto riguarda il prezzo di acquisto, tuttavia, non si potrebbero per lo meno sfruttare meccanismi di estrazione di informazione dal mercato (aste o roba del genere)? Mi pare ne siano stati proposti in passato (tipo questo), anche se si scoprirebbe il fianco ad evidenti rischi di collusione.

(Una strada più "indiretta" nella stessa direzione non potrebbe essere, almeno in alcuni settori, favorire e incentivare standard "alternativi" non coperti da IPR, così da renderne l'utilizzo meno rischioso e più redditizio rispetto agli analoghi "a pagamento"? Penso all'open source e ai formati di file non-proprietari...)

In futuro la strada "indiretta"  sembra anche a me di gran lunga più promettente:

si evitano gli enormi costi "ex-ante" di attribuzione di brevetti, i danni monopolistici intermedi e i costi "ex-post" di riacquisto.

Nell'immediato ci troviamo con una enorme cappa di brevetti che blocca l'economia e la strada del riacquisto, per quanto difficile, mi sembra l'unica percorribile sia per aumentare l'efficienza dell'economia che per sostenere la domanda aggregata. 

P. S. Grazie per il link a: http://www.unc.edu/~mdarden/Kremer.pdf

l'articolo sui meccanismi per stabilire il prezzo di acquisto dei brevetti é molto utile.

Non so bene perché Ugo tiri fuori Keynes ed i moltiplicatori (sospetto sia tutta nostalgia dei bei tempi andati) però l'idea di usare un po' dei soldi che si stanno gettando nel tombino dei sussidi per "liberare" l'innovazione mi attira.

Notoriamente, ritengo sia il copyright che i brevetti degli strumenti inutili all'innovazione, anzi dannosi alla medesima. Ma non sto a tediarvi con le mie idee, che si trovano ampiamente descritte altrove. Vorrei invece discutere alcuni aspetti pratici. L'idea, come ho detto, mi attira ma sembra di difficile realizzazione, anche solo sul piano teorico.

- Valore di mercato dei brevetti. Esiste una letteratura enorme sul tema, che viene dai tempi di Zvi Griliches ed ha ricevuto nuovo impulso circa vent'anni fa da papers come Pakes, Ariel S, 1986. "Patents as Options: Some Estimates of the Value of Holding European Patent Stocks," Econometrica, Econometric Society, vol. 54(4), pages 755-84, July. Non dovrebbe, quindi, essere impossibile dare delle valutazioni ragionevoli. Il problema è che sarebbero valutazioni di riferimento, fatte al computer. Che poi vengano o non vengano volontariamente accettate dal venditore, dipende. E, siccome dipende, c'è un chiaro problema di "winner curse" (vedasi ultimo punto).

- L'acquisto dei brevetti con soldi pubblici genera un beneficio sociale se e solo se il potere di monopolio che il brevetto conferisce al suo titolare provoca un danno sociale superiore ai benefici privati che il monopolista riceve. Ovviamente io sono convinto di questo, altrimenti non scriverei le cose che scrivo. Però è altrettanto ovvio che esistono aree in cui tale differenza è ben maggiore che in altre. Nel campo dei prodotti meccanici, per esempio, non credo che la differenza sia così sostanziale (qui i costi sociali sono soprattutto i costi di transazione generati dalla gestione legale del portafoglio brevetti) mentre credo sia ampia nell'ingegneria genetica e nel campo dei prodotti farmaceutici. Rimane vero che prima di spendere i soldi occorre fare tanti calcolini complicati; questo richiede tempo e soldi.

- Non vi è nessuna ragione di costruire un'altra mega burocrazia internazionale: l'acquisto può essere fatto tranquillamente dai singoli stati nazionali, ed i brevetti così acquisiti possono semplicemente essere immessi nel dominio pubblico di quel paese. Fine. Non c'è nulla di complicato da gestire, non serve nessuna burocrazia se non per la valutazione iniziale e per la trattativa.

- Se il paese X "libera" i brevetti in una certa industria questo implica che, all'interno del paese, chiunque può usare tali innovazioni e vendere i prodotti così ottenuti. Diventa uno strumento utile per attrarre dall'estero le imprese che intendano usare i brevetti "liberati" per innovare ulteriormente o produrre quei beni o varianti di essi.

- Il problema chiave, per il quale non ho una soluzione in mente, è se esiste un qualche meccanismo di "asta" utilizzabile per effettuare l'acquisizione. Il problema, è che qui c'è un solo acquirente, lo stato, e molti venditori potenziali (le imprese con portafogli di brevetti) i quali pero' vogliono vendere prodotti diversi tra di loro. L'acquirente non sa quale di questi prodotti valga di piu' per lui, anzi in media non sa neanche quali siano i loro valori relativi. Poiché l'informazione è quindi totalmente privata, lo stato rischia di trovarsi una borsa piena di "lemons" una volta finita la sua visita al mercato. Insomma, c'è il rischio che il risultato finale assomigli alla "bad bank": si finisce per comprarsi i brevetti che non valgono nulla.

Non ho idea di come attuarlo in pratica, ma non sarebbe pensabile un meccanismo in cui i potenziali concorrenti interessati alla liberazione di un certo brevetto facciano un' offerta (vincolante) per liberarlo e l' organizzazione pubblica decida poi quali di queste offerte sussidiare e di quanto?

Potenzialmente potrebbe ridurre i costi di valutazione dei brevetti (si vagliano solo quelli che il mercato trova interessanti, e comunque si parte da una specie di stima indiretta) e moltiplicare l' effetto di liberazione: se il detentore trovasse soddisfacente l' offerta non sussidiata potrebbe accettarla senza aspettare la valutazione burocratica, o magari proporre un prezzo leggermente superiore per vedere se l' ente o i concorrenti sono disposti a coprirlo.

Premessa la mia totale ignoranza delle implicazioni economiche, ma da un punto di vista storico, la proposta non ha forse molto in comune con le tesi che furono alla base della nazionalizzazione dell'energia elettrica negli anni '60 ?

Non c'erano anche lì dei monopoli privati da sostituire con un monopolio pubblico, capace di pagare un dividendo "sociale" ? e non si sosteneva forse che le risorse ricevute dai monopolisti in cambio degli impianti ceduti all'ENEL sarebbero state reinvestite in attività più innovative e meno legate alla rendita?

Se così fosse, ma posso sbagliarmi ovviamente, bisognerebbe anche prevedere dei contrappesi per evitare che si ripetano gli errori già vissuti con la nazionalizzazione dell'energia elettrica, tipo l'Edison che coi soldi ricevuti per centrali, dà vita alla Montedison e si mette a fare il governo ombra del paese per dieci anni.

Quando anche si seguisse la strada della nazionalizzazione (e non quella dell'agenzia internazionale) il caso mi sembra davvero diverso dal caso Enel. Il peggio che potrebbe avvenire (se non siamo in grado di trovare dei meccanismi idonei a contrastarli) é che i detentori di IPR accelererebbero l'acquisizione di nuovi monopoli e venderebbero degli IPR obsoleti. Persino questo avrebbe, tuttavia, un effetto di stimolo sull'economia (con effetti collaterali non peggiori di molte delle altre misure proposte) ma non é ovviamente quello che mi auguro.............