Due idee per Mariastella e chi verrà dopo di lei

/ Articolo / Due idee per Mariastella e chi verrà dopo di lei
  • Condividi

La riforma universitaria e i tagli imposti al settore sono stati al centro del dibattito politico durante la scorsa settimana. Il ministro Gelmini ha spesso usato lo slogan "meno sedi universitarie ma più residenze e borse di studio per gli studenti". Vediamo allora come il DDL approvato alla Camera e i tagli in finanziaria intervengono su sedi e diritto allo studio.

Sul fronte dell'offerta di sedi universitarie, iniziamo con un po' di storia. Negli ultimi 20 anni, il sistema universitario italiano è stato caratterizzato da una significativa proliferazione delle sedi universitarie. Da 63 sedi all'inizio degli anni ’90 se ne contano 89 nell’anno accademico 2009/2010. Insieme alle sedi universitarie è esploso anche il numero dei  corsi di laurea, naturalmente. È vero che attivare un nuovo corso di laurea in una sede esistente non costa niente, ma assorbe comunque risorse: i corsi di laurea hanno presidenti che li gestiscono, docenti che vi insegnano, eccetera. Solo negli ultimi dieci anni si è passati da 3463 a 5769 corsi con iscritti al primo anno. La sezione statistica del Miur riporta questi e altri dati di interesse.

Le ragioni ufficiali di una tale espansione dell'offerta erano principalmente due. Primo, la necessità di distribuire l’accesso universitario in modo più omogeneo sul territorio, in modo da garantire le stesse opportunità a più gruppi della popolazione e ridurre le differenze tra Nord e Sud Italia. All'inizio degli anni 90, il Sud registrava tassi d'iscrizione in università di 10 punti percentuali inferiori a quelli del Nord e tassi d'abbandono universitario 11 punti percentuali più elevati e conseguentemente meno laureati. La fonte di questo dato è l'indagine sull'istruzione universitaria (disponibile online solo da fine anni 90).

L'interpretazione di questo differenziale territoriale richiede qualche cautela, perché si tratta di statistiche che utilizzano la residenza come criterio di ripartizione geografica, mentre uno può andare a studiare dove vuole. Consideriamo una persona del Sud che si trasferisce a studiare al Nord. Sia che questa persona cambi residenza sia che resti formalmente residente al Sud troveremo differenze territoriali nei tassi di iscrizione, abbandono, e laurea che almeno in parte riflettono un puro effetto di autoselezione dei migliori studenti. Nella misura in cui questo è il caso, il problema non sarebbe la mancanza di offerta al Sud ma la presenza di offerta di cattiva qualità che fa scappare la gente. In queste condizioni, e in realtà più in generale, realizzare il "diritto allo studio" espandendo la quantità invece della qualità offerta è in fondo una foglia di fico: se ti porto un'università che oscilla tra il mediocre e il pessimo sotto casa ma che è, per legge, equivalente alla migliore università pubblica alla quale potresti avere accesso schiodandoti dal rione dove sei nato, formalmente ti sto dando un'opzione in più, ma è un'opzione a conseguire un pezzo di carta non ad accumulare capitale umano.

La seconda ragione è stato il bisogno di decongestionare i mega-atenei (Roma La Sapienza, Napoli Federico II, Milano Statale, Bologna, Torino Statale, Bari, Padova, Firenze e Palermo), che all'epoca superavano ognuno i 40mila studenti iscritti. Un rapido commento anche su questo "bisogno". Non si capisce perché decongestionare debba voler dire creare altri campus in provincia. È come dire che siccome c'è troppa domanda di mele fuji a Milano, allora bisogna aumentare l'offerta di mele golden ad Abbiategrasso. La cosa sembra ed è priva di senso. Per fare un esempio, quest’autunno al campus di Temple dell'Arizona State Unversity ci sono quasi 60mila studenti iscritti. Nessuno sente il bisogno di decongestionarla.

Il processo di espansione delle sedi universitarie sul territorio è comunque avvenuto ed è avvenuto, non sorprendentemente, senza alcuna programmazione logica che tenesse conto della potenziale domanda locale di offerta d'istruzione terziaria, possibili sbocchi professionali nel mercato di riferimento o infrastrutture già esistenti. In pratica, l'espansione ha assecondato la brama di istituire una propria università locale. Come risultato, quasi ogni provincia italiana ha ormai la sua sede universitaria.

L'aumento dell'offerta universitaria sul territorio ha garantito almeno più uguaglianza nelle opportunità d'accesso all'istruzione terziaria? E ha ridotto gli squilibri territoriali tra il Nord e il Sud del paese? La risposta è NO. In un recente studio condotto da una di noi che valuta l'effetto dell'espansione universitaria sulle scelte universitarie di giovani diplomati, emerge che la proliferazione di sedi ha aumentato significativamente le iscrizioni all'università e ridotto la probabilità di abbandonare gli studi accademici. Ma ha anche rallentato la progressione accademica, misurata in termini di numero di esami passati nei primi tre anni in università, soprattutto per gli studenti che decidono di studiare al sud. Un altro studio di Bratti, Checchi e de Blasio che analizza l'impatto dell'espansione usando dati della Banca d'Italia, mostra che la probabilità di ottenere una laurea non è aumentata a seguito dell'aumento dell’offerta di sedi universitarie.

In sostanza, l'università sotto casa aumenta la probabilità che un giovane vi s'iscriva (diminuisce il costo di andare all'università, evidentemente), ma anche la probabilità che in università si parcheggi senza terminarla. Il risultato può in parte essere spiegato dal fatto che l'aumento dell'offerta abbia indotto ad iscriversi studenti marginalmente meno portati per gli studi accademici, e quindi più propensi a non terminare gli studi. Questi sono quelli che non a caso (come notavamo sopra) prima sceglievano di non andare all'università.

L'effetto è particolarmente significativo al Sud, dove son state aperte soprattutto facoltà scientifiche, la cui istituzione è stata incentivata dall'offerta di fondi più cospicui. Come risultato, le differenze tra Nord e Sud Italia nei livelli d'istruzione continuano ad essere consistenti: nel 2008, il 45% per cento dei giovani di età compresa tra 19-25 anni e residente al nord è iscritto in università del nord, mentre la corrispondente cifra per il sud è il 35%. Per quanto riguarda i laureati: il 21% dei giovani venticinquenni residenti al nord hanno una laurea. La stessa statistica per il sud è 14% (fonte: Rapporto Annuale Istat, tavola 931 nell'appendice statistica). Nell'interpretare questa differenza è necessaria la stessa cautela di cui sopra: dal sud si può andare a studiare al nord cambiando o non cambiando residenza. Tuttavia si può argomentare che l'apertura delle nuove sedi periferiche ha un effetto prevalentemente locale: se una famiglia residente al sud vuole mandare la figlia a studiare al centro o al nord, la manda nella sede principale (Torino o Siena, per dire) non nelle nuove sedi periferiche di queste università (Vercelli o Grosseto, per dire), per quanto l'offerta possa essere un po' differenziata. È presumibile quindi che la persistenza delle differenze territoriali rifletta l'inefficacia della politica di espansione delle sedi universitarie. Di foglia di fico si tratta, insomma.

La riduzione del numero di sedi universitarie è quindi opportuna, purché ciò avvenga non mediante l'insensata logica del taglio di capelli "lineare" ma a seconda della performance di queste sedi relativamente al loro costo. Il DDL Gelmini, purtroppo, interviene sul ridimensionamento dell'offerta universitaria con ottime intenzioni ma ignorando completamente il semplice e duro fatto che gli incentivi contano. Il DDL infatti, contiene una una norma (articolo 3) che permette agli atenei di fondersi tra loro o aggregarsi su base federativa per evitare duplicazioni e costi inutili. Le scelte di ridimensionamento vengono però lasciate alla discrezione dei singoli atenei: qualcuno avrà incentivo a farlo?

Anche sul fronte del diritto allo studio iniziamo con un dato sintetico, la spesa per il sostegno finanziario degli studenti universitari (laurea e post-laurea) dal 2002 al 2007 in Italia e in un gruppo di paesi di riferimento. Questo dato, riassunto nella figura sotto, proviene dalla banca dati sull'istruzione di Eurostat, ed è relativo al prodotto interno lordo dei paesi rappresentati.

 

 

La figura mostra che in Italia su questo fronte si spende molto meno che in USA, UK e Germania, anche se più che in Spagna e Francia. Questo suggerisce che in Italia si spende poco, vediamo tra breve come. Qui il DDL introduce alcune novità (articolo 4). La principale è l'istituzione di un fondo per erogare "premi di studio" (borse di studio, cioé) e "buoni studio". Questi ultimi andranno restituiti secondo la formula dei "prestiti d'onore", cioé una volta che lo studente inizi a percepire un reddito. Chi si laurea col massimo dei voti e entro la normale durata del corso di laurea, però, non dovrà restituire niente. Queste risorse saranno allocate in base ai risultati di test standardizzati su base nazionale.

Separare nettamente merito e bisogno è una buona idea. Quando il merito viene misurato in base alla performance si forniscono incentivi corretti agli studenti a scegliere una carriera universitaria e lavorare per completarla con successo e in tempi brevi (come uno di noi ha argomentato qui). In questo modo si finanziano gli studi degli studenti più brillanti (quelli cioé che hanno più talenti da mettere a  frutto) indipendentemente dal loro background socioeconomico. A erogare borse di studio in base al reddito, invece, si va a finire che il figlio mediocre del dentista milionario che dichiara 30mila euro lordi soffia la borsa al figlio bravo dell'impiegato il cui datore di lavoro dichiara tutti i suoi 33mila euro annui. Queste nuove borse e prestiti d'onore, comunque, sono cumulabili alle vecchie borse di studio erogate in base al reddito familiare.

L'incertezza è su quante risorse ci saranno in questo nuovo fondo, che non è proprio un dettaglio irrilevante. Al momento non si sa, e tecnicamente non c'è neppure la copertura. Quel che sappiamo è l'entità dell'attuale fondo di intervento integrativo per prestiti d'onore e borse di studio, istituito nel 1991, e integrato dal gettito della tassa regionale per il diritto allo studio (pagata dagli studenti) e dalle risorse messe a disposizione dalle regioni. Il contributo è caratterizzato da una forte variabilità territoriale e come risultato solo alcune regioni (soprattutto quelle del Nord) riescono a soddisfare le domande di tutti gli idonei. Ebbene, mentre si istituisce un nuovo fondo per premi di studio, senza copertura, non si risparmia dalla scure dei tagli (volt)tremontiani l'esistente fondo integrativo che, cresciuto fin dalla sua istituzione, passerà dagli attuali 96 milioni di euro a 70 il prossimo anno, tornando ai livelli del 1998. Sarà mica che al nuovo fondo (se mai il Senato avrà il tempo di riapprovare il DDL) affluiranno circa 26 milioni di euro?

I tagli, quando necessari, sono più accettabili quando sono legati ad un serio sistema di valutazione della ricerca (vedi qui e qui, per esempio), che, se pur con misure imperfette, faccia dipendere i finanziamenti da indicatori di produttività scientifica secondo gli standard internazionali. Visto che questo governo promuove a ogni pié sospinto i "costi standard" (nel finanziamento delle università come nel sistema sanitario) ci piacerebbe se avesse promosso anche la "performance standard" come criterio per la ripartizione dei fondi pubblici. Questo permetterebbe di realizzare lo slogan di cui sopra senza scrivere interi papiri di norme e ragolamenti. Costringerebbe infatti le università a razionalizzare l'offerta di corsi con un numero esiguo di iscritti e chiudere sedi "parcheggio". Le risorse risparmiate potrebbero essere reinvestite per sostenere studenti meritevoli che vogliano iscriversi in sedi universitarie di qualità in modo da garantire un reale diritto allo studio.

Ma per far questo bisogna valutare e usare le valutazioni anziché farle ammuffire nei cassetti del ministero. Ovvero: senza rafforzare il ruolo dell’ANVUR non si raggiungerà spontaneamente né l'uno né l'altro obiettivo. Se non vuole ascoltare i nostri consigli, signora ministro, ascolti almeno quelli di Roberto Perotti, che si riassumono allo stesso modo: più libertà per le università (la carota) e più meritocrazia nella ripartizione dei fondi pubblici (il bastone). Questo realizzerà anche il suo slogan dal quale questo post prende piede.

Indietro

Commenti

Ci sono 335 commenti

Separare il merito dal bisogno nell'assegnazione delle borse di studio è una pessima idea invece!

E' un'idea che contraddice la funzione stessa delle borse di studio e il principio costituzionale che le individua come mezzo per rendere effettivo il diritto allo studio. E' una idea che dal punto di vista pratico sottrae risorse ai capaci e meritevoli privi di mezzi. E' un'idea che contribuisce all'immobilismo sociale e alla riproduzione delle diseguaglianze.

Se poi si volesse aprire un dibattito su cosa significhi "merito" e se sia più meritevole a parità di performance il figlio, poniamo, di un docente universitario o quello, poniamo, di un operaio, vedete voi. Io personalmente continuo a non capire dove stia il particolare merito quando un giovane di buona famiglia, senza problemi economici, con genitori entrambi laureati, ecc. riesce a laurearsi in corso e a pieni voti. Personalmente darei qualche soldo in più al figlio dell'operaio anche se la sua performance fosse un po' inferiore invece di regalarli a chi non ne ha bisogno.

mah, questa é una question molto delicata, che per altro, come si dice nell'articolo, é falsata dal fatto che la gente in Italia evade le tasse, per cui le borse di studio non sempre vanno effettivamente a chi non ha i mezzi per studiare, ma vanno a chi i mezzi non li dichiara. Altro fattore importante é il fatto che certe facoltà tendono a dare voti più alti (più facile laurearsi a pieni voti a lettere che ad ingegneria) ma, almeno a Padova, il merito per le borse di studio veniva misurato relativamente alla facoltà d'appartenenza.

Per le vere eccellenze comunque ci sono le scuole tipo la normale a Pisa o la scuola galileiana a Padova: devi tenere dei risultati ottimi, ma non paghi un soldo (nemmeno vitto alloggio e libri).

Personalmente sono a favore di dare le borse a chi ne ha più bisogno ed é comunque meritevole, e incentiverei ulteriormente gli studi di materie che poi possano essere effettivamenrte necessarie al territorio (non creiamo laureati che poi non trovano lavoro e usano il loro titolo di studio di scuola media superiore per trovare lavoro)

Comunque ecco, io volevo solo dire che si certo, le famiglie che se lo possono permettere é giusto che paghino l'univeristà ai figli, solo non pensiamo che non sia dura anche per le famiglie benestante pagare le rate di tutti i figli nello stesso mese o comprare i libri di testo.I miei si sono potuti permettere di far studiare me e le mie sorelle, siamo una famiglia benestanante, ma non ce l'avrebbero fatta se avessimo dovuto stare fuorisede, e quando bisognava pagare le rate di tutte entro la stessa data eran dolori. Ed io non mi sono mai comprata un libro, sempre studiato in biblioteca ed usato i computer della facoltà e pagata le vacanza lavorando (e come me molti dei miei compagni di studio - con o senza borsa). Io non mi sono uccisa sui libri, ma ho fatto il mio, mi sono laureata in 5 anni (di cui uno di erasmus) con 110 (in Statistica), e mi ha sempre dato fastidio vedere gente che passava il minimo sindacale degli esami e sceglieva apposta i corsi più facili per poter avere una media alta e prendere cosí la borsa.

E' una idea che dal punto di vista pratico sottrae risorse ai capaci e meritevoli privi di mezzi.

Claudio, scusa, stai dicendo un'assurdita'! SE uno privo di mezzi e' capace e meritevole ALLORA ricevera' risorse quando le borse di studio sono assegnate secondo questi criteri. Nulla e' sottratto a loro. Ti pare?

 

 

Separare il merito dal bisogno nell'assegnazione delle borse di studio è una pessima idea invece!

E' un'idea che contraddice la funzione stessa delle borse di studio e il principio costituzionale che le individua come mezzo per rendere effettivo il diritto allo studio. E' una idea che dal punto di vista pratico sottrae risorse ai capaci e meritevoli privi di mezzi.

 

Secondo me ci devono essere sia risorse per consentire agli indigenti meritevoli di studiare, sia risorse per incentivare economicamente il merito indipendentemente dal reddito.

I livelli di indigenza per avere le borse di studio in Italia sono ridicoli e riflettono l'inefficienza dello Stato nel contrastare l'evasione fiscale. Uno stato che non sia una barzelletta fra l'altro dovrebbe iniziare a fare controlli fiscali seri proprio da chi chiede sconti e borse di studio per indigenza.

Ma anche se non ci fosse l'evasione fiscale e' sempre opportuno incentivare tutti anche i benestanti a impegnarsi negli studi e a concludere l'universita' nei tempi previsti, visto la la predisposizione dei giovani italiani specie benestanti a fare i vitelloni a spese dei genitori e anche a spese della societa', che paga buona parte del costo degli anni di universita' fuori corso.

 

Un altro studio di Bratti, Checchi e de Blasio che analizza l'impatto dell'espansione usando dati della Banca d'Italia, mostra che la probabilità di ottenere una laurea non è aumentata a seguito dell'aumento dell’offerta di sedi universitarie

 

Ma, se l'obiettivo delle riforme era quello di aumentare il numero di laureati questo non dovrebbe interessare, no? Non è lo stesso motivo per cui è stata realizzata la riforma del 3+2?

 

Saró un po' zuccone, ma francamente non ho capito se i laureati italiani sono troppi o troppo pochi. Se fossero troppo pochi le aziende se li strapperebbero di mano a forza di offerte sontuose, invece i più brillanti emigrano, e gli altri finiscono nei call center http://www.nonpiu.it/

Allora forse sarebbe meglio ridurli? Tipo tenerli in piedi durante le lezioni come nelle università medievali, e permettendo ai soli docenti l'uso di una sedia (la cattedra non si chiama "chair" nei paesi anglosassoni?).

Forse non ho capito cosa ti sfugge. Ma se l'obiettivo della riforma era aumentare il numero di laureati (numero che, almeno relativamente agli altri paesi OCSE, e' decisamente piu' basso), e il numero di laureati non cambia a seguito dell'istituzione di nuove sedi, questo vuol dire che la policy e' stata inefficace.

"ll risultato può in parte essere spiegato dal fatto che l'aumento dell'offerta abbia indotto ad iscriversi studenti marginalmente meno portati per gli studi accademici, e quindi più propensi a non terminare gli studi. Questi sono quelli che non a caso (come notavamo sopra) prima sceglievano di non andare all'università".

Questo effetto selezione non è condivisibile appieno. Gli studenti più svantaggiati economicamente, sebbene abbiano la possibilità di iscriversi all'università sotto casa continuano ad avere dei costi-opportunità molto più alti degli altri e quindi non finiscono l'università non perchè più stupidi (o come dite voi in modo più politically correct "marginalmente meno portati per gli studi accademici"), ma semplicemente perchè più svantaggiati socialmente. Se da una parte c'è una riduzione evidente di uno dei costi dell'iscrizione all'università (quello di spostamento), dall'altra parte tutti gli altri costi rimangono per lui esattamente uguali a prima.

 

Il numero degli immatricolati non è aumentato di molto negli ultimi venti anni. Secondo i dati del decimo rapporto del cnvsu sullo stato dei sistema universitario del dicembre 2009 (credo che il rapporto del 2010 non sia ancora uscito) gli immatricolati erano 279.971 nel 1987/88 e 307. 533 nel 2007/08. E' rimasto relativamente stabile anche il numero dei maturi: 383.468 nel 1987/88, e 449.651 nel 2007/08. I dati sui laureati sono difficilmente paragonabili per via del passaggio alle lauree triennali e specialistiche. Diciamo però che erano 77.270 nel 1987 e (calcolando solo "first degrees": lauree triennali+lauree specialistiche a ciclo unico+ lauree del vecchio ordinamento) quasi 250.000 nel 2007. Il cambiamento deciso è stata la percentuale dei maturi (di un anno) sui diciannovenni che, nello stesso periodo, è passata dal 42,4% al 74,3%. Come conseguenza la percentuale degli immatricolati sui diciannovenni è passata da 31% a 50,8%.  Dico come conseguenza perché non è cambiata molto la percentuale degli immatricolati sui maturi (da 73% a 68,4%). Sembra probabile che sia molto cambiata la composizione sociale dei maturi, degli immatricolati e presumibilmente anche dei laureati. E infatti il documento dell' OCSE "Education at a Glance 2008" attribuisce al sistema universitario italiano una mobilità sociale maggiore di quella di altri paesi europei. Si dice infatti: "Access to higher education is inequitable, but much less so than in other European countries • 17% of higher education students’ fathers in Italy hold a higher education qualification themselves, while this is only the case for 10% of men in the same age group as students’ fathers resulting in a ratio of 1.7. The strongest selectivity into higher education is found in Portugal, with a ratio of 3.2. In Austria, France, Germany and the United Kingdom, students are about twice as likely to be in higher education if their fathers hold a university degree as compared with what their proportion in the population would suggest". Naturalmente sul quoziente di 1.7 influisce la bassa scolarità dei padri italiani. E' però probabile che quasi la metà dei laureati provenga da famiglie di non laureati. Questa trasformazione del corpo studentesco resa invisibile dal calo demografico (nel 1987 i diciannovenni erano 903.000 nel 2007 erano 605.000) ha anche reso meno ovvia la tesi che il sistema universitario si comporti come "Robin Hood alla rovescia". Nel 1993 quattro giovani economisti "di sinistra" (almeno alcuni impiegati in un centro di ricerca della CGIL) pubblicarono un libro dal titolo "Chi paga per l'istruzione universitaria?" (ricordo solo due degli autori: Giuseppe Catalano e Paolo Silvestri) nel quale si argomentava che il sistema universitario italiano rubava ai poveri (attraverso le tasse) per regalare ai ricchi (con l'università semigratuita), utilizzando l'espressione "Robin Hood alla rovescia". Questa tesi è stata ripresa e sostenuta di recente da molti economisti (senza citare, che io sappia, la fonte). Ma sarebbe ora più difficile dimostrarla essendo così cambiata la composizione sociale del corpo studentesco. Ricordiamo che Catalano e Sivestri (et alii) proponevano di aumentare le tasse universitarie e di adottare massicciamente il sistema dei prestiti di onore. Le tasse universitarie aumentarono modestamente nel 1993, ed il libro fu citato dal Ministro (Sandro Fontana) per giustificare l'aumento. Per i prestiti si fece poco, nonostante fossero già previsti dalla legge sul "diritto allo studio" del 1992 (o fine 1991?). Sul piano tecnico non sono facili da gestire, come tutt'altro che facili da assegnare e da gestire sono le borse "di merito" basate su un esame nazionale del tipo di quello per l'ammissione alla scuola normale (esistono per la matematica, 40 borse l'anno, gestite dall'Istituto Nazionale di Alta matematica).

Ora qualche dato sulle sedi distaccate. La mia fonte è sempre la stessa. Nel 2009/10 sono 225 i comuni sedi di almeno un corso di laurea. Nel 2008/09 erano 17 in più. Il massimo è stato raggiunto nel 2006/07 con 246 comuni sedi di almeno un corso di laurea. Dei 225 comuni che ospitano almeno un corso di laurea 57 ospitano anche la sede centrale dell'università e 42 sono sedi esclusivamente di corsi di studio delle professioni sanitarie. A questo proposito dobbiamo ricordare che una recente legge ha imposto l'obbligo della laurea per esercitare la professione di infermiere, stabilendo anche che la metà dei crediti impartiti per il conseguimento di questa laurea sia impartito da personale ospedaliero. A questo punto è divenuto conveniente aprire i corsi di laurea per infermieri e professioni equivalenti nelle strutture ospedaliere che ospitavano le vecchie scuole per infermieri di livello non universitario. Quando si parla degli "sprechi" associati alla apertura di sedi distaccati bisognerebbe escludere i corsi di laurea di discipline infermieristiche per i quali la sede distaccata dà luogo ad un risparmio piuttosto che a uno spreco.

Non so se questa fonte e' gia' stata citata, mi sono perso tra i post ma mi e' parso di capire una gran fame di dati

http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/

Una vasta indagine sugli esiti occupazionali dei laureati a 1-3-5 anni dalla laurea.

L'idea di togliere alle borse di studio il reddito perchè ci sono tanti evasori mi pare una grossa sciocchezza perchè cosi non si ha la minima diminuzione nell'evasione,ma si aumentano le uscite di denaro pubblico,perciò un bilancio negativo.

Mi sembra che buona parte delle discussioni su come assegnare le borse di studio abbia come causa la definizione di migliore.

Ed in effetti non vi e' nessuna definizione naturale di migliore quando si considerano almeno due parametri, solo quando c'e' un solo parametro vi e' una definizione naturale.

Tanto per non rimaner nel vago consideriamo uno studente con 9 esami con tutti 30 ed un altro con 10 esami con tutti 28. Qual'e' il migliore? Se si considera la media il primo se si considera il "lavoro" fatto come somma dei voti il secondo.

Questo porta al fatto che non vi sia un'unica classifica ma tante possibili classifiche che devono esser integrate e che  daranno al massimo un intervallo di classificazione ad un certo livello di confidenza, ossia sei fra il 4o e 7o posto al 90% (questo ammettendo di sapere come fare il sampling delle funzioni che si usano per fare la composizione dei dati). Un po' come e' stato fatto dal Research Doctorate Programs sites.nationalacademies.org/pga/resdoc/pga_051962

Nel caso degli studenti i parametri usabili possono esser veramente tanti a seconda del modello che si vuole utilizzare.

Sicuramente media e numero di esami. Pero' la distribuzione varia da corso di laurea a corso di laurea quindi si dovrebbe tener conto di queste distribuzioni che pero' non tengono conto del fatto che gli studenti non sono omogenei (ossia per esempio gli studenti di matematica  sono piu' capaci e motivati di quelli di scienze politiche).

Detto cio' la performance a parita' d'impegno  e di capacita' dipende anche dalle condizioni ambientali, tipo ho la camera da solo oppure la divido col fratello e quindi devo studiare in biblioteca (se trovo posto) e quindi anche dalle condizione economiche. Questo pero' non tiene per esempio conto che potrebbe esser che la distribuzione delle capacita' sia diversa nelle diverse fasce sociali.

Tutto cio' porta a domandarsi se sarebbe meglio separare chiaramente merito da azioni positive nei confronti delle persone economicamente svantaggiate.

 

Innanzitutto mi sembra ci sia un'inesattezza nell'articolo:

 

Chi si laurea col massimo dei voti e entro la normale durata del corso di laurea, però, non dovrà restituire niente.

 

A quanto mi risulta (faccio riferimento a questo testo), il fatto che chi si laurea col massimo dei voti non deve restituire niente nel DDL non c'e' (e non poteva esserci messo per i tempi ed i modi con cui il DDL e' passato alla Camera). Non so se ci sia la promessa di rimediare (e soprattutto non saprei quanto questa promessa potrebbe valere).

Mi sembra che il DDL non specifichi come verra' ripartito il fondo (tra borse e prestiti d'onore), quindi e' difficile dare un giudizio complessivo. Si vede comunque che il MIUR e' sotto la tutela del Ministero delle Finanze, che tiene saldamente i cordoni della borsa.

Faccio notare che la questione dei prestiti d'onore, in Italia, e' particolarmente critica: il nostro e' uno dei paesi in cui e' minore valore della laurea nel mercato del lavoro (per tacer del dottorato di ricerca). Temo  quindi che il meccanismo dei prestiti d'onore non sia util per allargare gli accessi all'universita'.

 

hai ragione! evidentemente avevo la versione approvata dalla camera e non ancora quella approvata dal senato.  nella prima si leggeva (art 4):

 

Nei limiti delle risorse disponibili sul fondo, sono esclusi dall’obbligo della restituzione gli studenti che hanno conseguito il titolo di laurea ovvero di laurea specialistica o magistrale con il massimo dei voti ed entro i termini di durata normale del corso;

questa cosa e' sparita in senato! male, molto male (la norma era una componente fondamentale di un buon sistema di incentivi: fai l'universita' gratis anche se non prendi una borsa oggi se dimostri che in un'ottica di lungo periodo la borsa la meritavi).  e conferma quello che dici: sono sotto tutela di tremonti.

grazie mille per la precisazione.

 

 

La domanda:

 

Solo negli ultimi dieci anni si è passati da 3463 a 5769 corsi con iscritti al primo anno.

 

Chiedo agli autori: ma avete considerato il fatto che con il 3+2 i corsi di laurea sono quantitativamente raddoppiati senza essere qualitativamente aumentati? Mi spiego: io mi sono laureato in Ingegneria Elettronica, con l'ordinamento pre - riforma, equipollente all'attuale magistrale; se lo facessi oggi dovrei conseguire prima la laurea (triennale) e poi la magistrale. Quindi due corsi di laurea anziché uno, con gli stessi docenti e spesso con lo stesso presidente (i corsi di studio possono essere raggruppati: esistono anche alcuni che sono gestiti direttamente dai consigli di facoltà).

La considerazione:

 

La seconda ragione è stato il bisogno di decongestionare i mega-atenei (Roma La Sapienza, Napoli Federico II, Milano Statale, Bologna, Torino Statale, Bari, Padova, Firenze e Palermo), che all'epoca superavano ognuno i 40mila studenti iscritti. Un rapido commento anche su questo "bisogno". Non si capisce perché decongestionare debba voler dire creare altri campus in provincia. È come dire che siccome c'è troppa domanda di mele fuji a Milano, allora bisogna aumentare l'offerta di mele golden ad Abbiategrasso. La cosa sembra ed è priva di senso.

 

Completamente priva di senso: la Federico II aveva 100mila studenti prima della scissione (fine anni '80) e continua averne 100mila. Quindi: non si capisce quale risultato si voleva ottenere; e qualunque esso fosse non lo si è ottenuto. Quello a cui assistiamo oggi è l'esplosione delle sedi: ne abbiamo ad Avellino, Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino, Capua, Caserta, Nola (solo per citare alcune città della Campania), con una forte dispersione che rende inefficiente il sistema. Infatti, una qualunque sede, sia essa anche solo un plesso con le aule per seguire i corsi, necessita della presenza di personale, fosse anche solo per aprire e chiudere le aule. È l'esatto contrario dell'esempio americano dei grandi Campus: qui abbiamo grande dispersione di sedi e la stessa facoltà (lo stesso corso di laurea) può persina avere più sedi sul territorio, con inevitabili disagi per studenti e docenti.

Di esempi ne avrei a iosa, tanto che mi sembra inutile farne; quello che penso è che tornare indietro e toccare i privilegi acquisiti è pressocché impossibile. Chiudo con una domanda: possibile che in un blog di economisti non si parli della necessità di tenere una opportuna contabilità economica? Anche tenendo conto che praticamente tutti gli atenei italiani usano ancora la contabilità finanziaria? E che la contabilità analitica servirebbe ad imputare correttamente i costi del tenere aperta una sede / corso di laurea?

 

Giusta la prima osservazione, allora un confronto più sensato dovrebbe avvenire sulla base delle facoltà: 514 nel 2001 e 619, un aumento comunque del 20 per cento.

La seconda conferma quanto diciamo nel post.

 

Per quanto riguarda la contabilità, il ddl Gelmini va nella direzione da te auspicata. Infatti l'articolo 5 prevede che le università adottino un sistema di contabilità economico-patrimoniale 


Mi hanno segnalato il vostro blog e visto che sono stato citato varie volte vorrei chiarire che, anche non essendo un ricercatore universitario, aderisco idealmente alla rete29aprile perché fatta da persone ragionevoli, competenti e concrete come anche molte delle loro proposte. Di contro penso che il prof. Giavazzi sia un mistificatore ed anzi mi sorprendo che i cosidetti "economisti" non prendano posizione chiara a questo riguardo, visto che fa un danno a tutta la categoria (se così la si può chiamare). 

Maggiori info qui

www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/10/siamo-noi-la-liberta-siamo-noi-la-california/76150/

www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/01/l’ideologia-e-i-suoi-difensori/79598/

e qui

ricercatorialberi.blogspot.com

saluti,

 

FSL 

Signor FSL,

Davvero pretendi di esser preso seriamente e di ricevere risposte con un qualche contenuto dopo un'introduzione di questo tipo?

Su cosa si fonda questa tua patetica, ed accademicamente ingiustificata, arroganza?

Smetti di abusare il cognome che il caso ti ha appiccicato addosso: studia, fai ricerca e, soprattutto, occupati di fisica. Il tuo CV te ne sarà grato ed eviterai di finire per essere considerato un "cosidetto fisico" o "astrofisico" ...

Se poi vuoi discutere di politica universitaria, esponi i tuoi argomenti, se ne hai  - cosa che dubito, dopo aver dato una rapida occhiata alla sequenza d'insulti che pubblichi nel tuo blog, spacciandoli per ragionamenti.

Dell'auto-promozione a base di link, tu capirai, riusciamo a viver senza. Se hai voglia di litigare con Francesco Giavazzi, scrivigli. Ha un indirizzo d'email molto semplice. Io non mi sognerei mai di venire a scrivere arroganti cazzate sul tuo blog al fine di mettermi in contatto con David Pines. Preferisco scrivergli direttamente: è più rapido oltre che leggermente più onesto ed elegante.

 

Può gentilmente fornire le tabelle di riferimento della fonte? Sa, ci sono molte definizione di spesa e molti criteri per misurarla e l'Education at Glance ne riporta parecchi. Per esempio la spesa totale/GDP è un indicatore più "sporco"  della spesa per studente/GDP in quanto dipende anche dal rapporto studenti/popolazione. In un paese con molti anziani e pochi giovani, la spesa per istruzione è fisiologicamente bassa.

A suo tempo pubblicai su questo sito una piccola analisi, relativa solo all'istruzione primaria e secondaria - dove l'Italia spende invece (?) molto per studente (http://www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/2020).

Ho riportato i numeri delle pagine e delle tabelle di "Education at a Glance" a cui faccio riferimento nel seguente post:

http://unipiblog.wordpress.com/2010/12/10/numeri-che-contano/

Dall'esame di "Education at a Glance" risulta che il segmento della "tertiary education" è quello in cui l'italia è maggiormente in ritardo (in termini di risorse investite) rispetto al campione OCSE. Questi dati suggeriscono che, se si volesse perseguire un modello di sviluppo teso all'innovazione tecnologica e alla creazione di posti di lavoro qualificati, bisognerebbe aumentare gli investimenti in formazione universitaria (fondi, posizioni da ricercatore e professore, borse di studio). A prima vista sembra strano che Confindustria sostenga la linea Tremonti-Gelmini che conduce ad una riduzione dell'offerta formativa. Una possibile spiegazione potrebbe essere il forte ritardo delle aziende italiane sul fronte della Ricerca e Sviluppo (R&S), in termini di personale addetto, spesa e capacità innovativa. A questo proposito, il CERIS-CNR ha recentemente pubblicato un rapporto (anch'esso basato su dati OCSE) che è illuminante:

http://www.cnr.it/sitocnr/IlCNR/Datiestatistiche/ScienzaTecnologia_cifre.html

Per chi non avesse il tempo di leggerlo, ho preparato una breve sintesi in undici slides:

http://www.facebook.com/album.php?aid=100657&id=1355660116&l=c014e62a4e

E' interessante notare che a livello mondiale la ricerca italiana nel suo complesso è solidamente ottava sia in termini di lavori scientifici che di citazioni di lavori: Tabella 125 di CERIS-CNR http://www.facebook.com/photo.php?pid=1934039&l=605b102d3a&id=1355660116, vedi anche la slide #6 di http://www.slideshare.net/giuseppedn/the-scientific-impact-of-italy, tratta da www.scimagojr.com). Inoltre, la quota di pubblicazioni italiane sul totale mondiale (superiore al 3%, vedi Tabella 125 di CERIS-CNR) rimane stabile nel tempo mentre la quota sul totale europeo è in crescita (slide #8 di http://www.slideshare.net/giuseppedn/the-scientific-impact-of-italy, sempre tratta da  www.scimagojr.com).

Al contrario le quote di esportazioni delle aziende italiane in alcuni importanti settori ad alta tecnologia (aerospazio, elettrico-elettronico, macchine per ufficio, farmaceutica,macchinario e strumenti di misurazione) mostrano tutte una chiara tendenza negativa di lungo periodo (Tabella 138 di CERIS-CNR,   http://www.facebook.com/photo.php?pid=1934038&l=12f2437698&id=1355660116). In base a ciò mi viene qualche dubbio sulle aspettative salvifiche riposte nell'inserimento di membri esterni nei CdA delle università. Quale beneficio possiamo aspettarci se fossero rappresentanti di aziende in crisi di competitività internazionale  a causa della scarsissima attitudine ad investire in R&S? Paradossalmente, mi verrebbe da proporre l'inserimento di brillanti accademici italiani nei CdA di queste aziende per aiutarle a innovare di più e meglio.

In questo momento, sto stipulando contratti di ricerca industriali fuori dai confini italiani. In italia, i centri di ricerca chiudono (vedi GlaxSmithKline a Verona) e molte aziende stanno alzando (o hanno già alzato) bandiera bianca sul fronte della R&S. All'estero, le nostre competenze ed i nostri laureati sono apprezzati.

Sempre su questa linea consiglio di leggere i seguenti due articoli:

http://www.economiaepolitica.it/index.php/universita-e-ricerca/luniversita-e-il-mito-meritocratico/

http://www.economiaepolitica.it/index.php/universita-e-ricerca/luniversita-che-piace-a-confindustria/

La mia diagnosi è che stiamo suicidandoci. La politica della riduzione dell'offerta formativa è congruente con la ricerca del profitto basata esclusivamente sulla compressione del costo del lavoro (e dei diritti) dei dipendenti. Non vedo come questo possa incrementare il benessere collettivo nel medio/lungo periodo. Un effetto non secondario sarà l'esplosione del conflitto sociale. Quando gli studenti affermano di sentirsi derubati del loro futuro, credo che colgano nel segno.

 

Gentile Giuseppe De Nicolao, correggimi se sbaglio:

1) l'Italia spende poco in ricerca, soprattutto le aziende

2) la produzione scientifica italiana si mantiene su buone posizioni.

Ne consegue che:

3) confindustria appoggia la riforma perchè non capiscono una mazza di ricerca e quindi vogliono affossare la ricerca e l'offerta formativa universitaria attraverso la riforma.

Io non credo che questo "teorema" sia dimostrabile. Ma anche solo come "possibile spiegazione" a me non sembra stare in piedi. Quale meccanismo causale hai in mente?

Spero di avere tempo dopo per tornare sui punti 1 e 2. Per ora vorrei chiederti di spiegare meglio la tua storia alla luce di due distinzioni che su questo blog sono state più volte richiamate:

- tremonti/gelmini: ovvvero distinguere i tagli dalla riforma. sui primi mi sembra che ci sia un generale accordo (o meglio un comune disaccordo!), non vedo perché continuare a discuterne e tirarli in ballo per attaccare la seconda, se non per motivi strumentali.

- ricerca/formazione: parli di provvedimenti sulla didattica (riduzione dei corsi) in un discorso sulle spese di R&D. a me crea una certa confusione. di cosa stiamo parlando?

Infine:

 

Quando gli studenti affermano di sentirsi derubati del loro futuro, credo che colgano nel segno.

 

Assolutamente d'accordo. purtroppo mi sembra che facciamo fatica a riconoscere il ladro. Temo che il massimo risultato cui questa mia generazione aspiri sia quello di derubare a sua volta i suoi figli, rivendicando per sè i ladrocini i diritti di chi li ha preceduti. Spero di sbagliarmi, o che questo piano fallisca.

Se penso che si spacca tutto per questa riforma e non un "beh" per il furto dei contributi degli atipici, con placet sindacale...

Gentile Mantovani,

provo a risponderle.
>1) l'Italia spende poco in ricerca, soprattutto le aziende
>2) la produzione scientifica italiana si mantiene su buone posizioni.
>Ne consegue che:
>3) confindustria appoggia la riforma perchè non capiscono una mazza di ricerca e quindi vogliono >affossare la ricerca e l'offerta formativa universitaria attraverso la riforma.
>Io non credo che questo "teorema" sia dimostrabile. Ma anche solo come "possibile spiegazione" a >me non sembra stare in piedi. Quale meccanismo causale hai in mente?


Come spiegato bene da Fausto Di Biase, il termine teorema è improprio. Tuttavia, rimane da capire  perché i mezzi di informazione vicini a Confindustria e al Ministero descrivono l'università italiana come agonizzante (una caricatura della realtà) mentre pongono scarsa attenzione sulla bassa propensione all'innovazione delle imprese. Per competere a livello internazionale, bisognerebbe puntare all'innovazione e sarebbe necessario formare più tecnici e ricercatori. Essendo un ingegnere, mi viene naturale guardare a mio settore. Le facoltà di ingegneria italiane sono tutt'altro che agonizzanti e sfornano ingegneri preparati (nessuna difficoltà a trovare impieghi, anche buoni, all'estero). Dall'esame dei dati, è invece drammatica la scarsità di risorse che le aziende italiane investono in R&S. Questo combacia con la difficoltà di molti laureati in ingegneria a trovare lavori tecnicamente qualificati in Italia: la progettazione innovativa e la ricerca industriale vengono sempre più svolte all'estero.

Mi pongo la seguente domanda: se qualcuno ritenesse che l'Italia ha ormai perso la gara per l'innovazione, estendere la formazione universitaria non diventerebbe un lusso? Inutile coltivare un sistema formativo esteso su tutto il territorio e capace di produrre figure professionalmente qualificate in numero paragonabile a quelle prodotte dai paesi che non riusciamo più ad inseguire. Ho sentito questo discorso dalla bocca di un imprenditore famoso ("Difficilmente i nostri ingegneri potranno rivaleggiare in futuro con i colleghi tedeschi, americani, e probabilmente anche cinesi, in termini di alta tecnologia nei settori dell’informatica, delle biotecnologie e delle nanotecnologie, dei sistemi spaziali, della robotica."), ma riconosco che non tutti potrebbero avere lo stesso grado di consapevolezza.  Tuttavia, privilegiare le lauree triennali riducendo i laureati magistrali (e probabilmente anche i PhD) come una specie di "lusso" è un disegno coerente con un sistema imprenditoriale dalle ambizioni assai limitate (muoversi entro mercati protetti, gestendo ex-monopoli statali nel campo dei trasporti delle telecomunicazioni e dell'energia). Tanto, la tecnologia può sempre essere comprata all'estero. Anche l'enfasi sulla chiusura di corsi di laurea e di sedi universitarie (argomento degnissimo di discussione, ma sulla base di valutazioni meno superficiali) stride con il basso numero di laureati nella popolazione in confronto alle nazioni competitrici. Persino la retorica dell'eccellenza (creare pochi poli di eccellenza) non contraddice la mia ipotesi. Per un paese che arretra sull'innovazione, è più che logico limitare la formazione di qualità ad una cerchia ristretta da cui estrarre la classe dirigente. Per stare a galla, sarebbe urgente sfruttare al meglio le competenze dei nostri laureati su tutto il territorio, piuttosto che creare poche isole di eccellenza facendo decadere il resto del sistema.

 

AGGIUNTA DEL 23/02/2011. Guido Possa sembra avere dato risposta alla mia domanda precedente con le sue dichiarazioni a Radio3:

 

Guido Possa(Milano, 15 gennaio 1937)è un politico italiano. Laureato in ingegneria meccanica nucleare presso il Politecnico di Milano, amico fraterno di Silvio Berlusconi, assieme al quale vendeva a domicilio scope elettriche…”. Inizia così la voce su Wikipedia dedicata all’onorevole Possa, ora presidente della Commissione Cultura del Senato, che l’altro giorno alla trasmissione Tutta la città ne parla” su Radio3, ci spiegava il concetto che il suo amico Silvio B. ci aveva già illustrato con queste semplici parole: perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe del mondo? Nelle parole di Possa: “Vi è in atto un processo di contenimento dello spesa pubblica in tutti i paesi del mondo dunque è necessario tagliare… Bisogna concepire la ricerca come un formidabile processo internazionale in cui il nostro apporto è di qualche percento… Noi siamo un paese che ha limiti e bisogna prendere atto di questi limiti. Non possiamo assolutamente più pensare di essere un paese di serie A in tanti settori perché le ricerche sono condotte con mezzi che non possiamo permetterci.

 

FINE DELL'AGGIUNTA


>Spero di avere tempo dopo per tornare sui punti 1 e 2. Per ora vorrei chiederti di spiegare meglio la >tua storia alla luce di due distinzioni che su questo blog sono state più volte richiamate:
>- tremonti/gelmini: ovvvero distinguere i tagli dalla riforma. sui primi mi sembra che ci sia un >generale accordo (o meglio un comune disaccordo!), non vedo perché continuare a discuterne e >tirarli in ballo per attaccare la seconda, se non per motivi strumentali.


Non credo si tratti di motivi strumentali. Sarebbe ingenuo separare due aspetti che hanno sempre camminato insieme. Non solo i tagli sono stati usati come coltello alla gola per ottenere il consenso dell'accademia (o almeno della CRUI), ma la riforma è stata costantemente condizionata (anche nei contenuti!) dalla necessità di essere a costo negativo. Infatti, ha corso i rischi più grossi quando si è rivelato politicamente impossibile approvarla senza mitigare i tagli. La riforma, il recente Decreto Ministeriale 17 (http://attiministeriali.miur.it/anno-2010/settembre/dm-22092010.aspx) e la Bozza di Programmazione Triennale, evidenziano tutti un disegno di riduzione dell'offerta formativa (sia in termini di sedi che di corsi offerti). Sono interventi del tutto coerenti con i tagli finanziari: meno sedi e meno corsi richiedono (a regime) meno finanziamenti. Anche la parte di riforma relativa al diritto allo studio basato solo sul merito, non dà nessuna garanzia di finanziamento: l'ideale per poter tagliare i fondi senza sforzo. Il Ministro Gelmini afferma di perseguire la meritocrazia: tuttavia il Parere del CUN (http://www.cun.it/media/106292/pa_2010_12_17_001.pdf) sulla Bozza di Programmazione Triennale  è impietoso nell'evidenziare il doppio regime (severo/lassista) usato nei confronti delle università statali e delle università telematiche. Insomma, da diversi indizi sembra che uno scopo non secondario sia la riduzione dell'offerta formativa nel settore statale con un (parziale) rimpiazzo da parte di offerta privata di dubbia qualità (ma con buoni appoggi politici).


>- ricerca/formazione: parli di provvedimenti sulla didattica (riduzione dei corsi) in un discorso sulle >spese di R&D. a me crea una certa confusione. di cosa stiamo parlando?

Mi sembra semplice: se le imprese investissero in R&D avrebbero più bisogno di personale qualificato. Di conseguenza, non dovrebbero essere favorevoli ad una riduzione globale dell'offerta formativa. L'enorme ritardo nella spesa in R&D si correla fin troppo bene con modelli di impresa arretrati (solo innovazione di processo, quando va bene!). Per spesa in R&S delle imprese e personale addetto alla ricerca, i dati OCSE (riportati nel rapporto CERIS-CNR) evidenziano un ritardo enorme (che sia una delle spiegazioni della maglia nera italiana in quanto a crescita del PIL?). Se mi accontento di forza lavoro dequalificata, è meglio ridurre l'accesso  alla formazione universitaria (risparmiano sia lo Stato che le famiglie e non illudiamo le persone di poter aspirare a impieghi di qualità).

Cordialmente

GDN

P.S. Non credo che in questo campo siano possibili dimostrazioni. Tuttavia, a fronte di dati oggettivi è bene cercare di capire le motivazioni dei diversi attori. Le dichiarazioni gelminiane sulle troppe sedi, troppi corsi di laurea e troppi sprechi sono sotto gli occhi di tutti e sono state usate come motivazione fondante della riforma (e applaudite da molti). In realtà, spendiamo poco, produciamo pochi laureati e abbiamo pochi ricercatori, ma questo non è vissuto come un problema dalle imprese. La mia ipotesi di lavoro (non teorema) è che laureati e ricercatori non appaiono necessari e sono visti come un lusso in un paese che ha un modello di sviluppo arretrato (come documentato dalla scarsa spesa in R&D).  L'idea che la formazione sia un lusso circola negli ambienti del centro-destra: rimando alla lettura di Stefano Zecchi e dell'ottima replica di Francesca Coin:

http://www.ilgiornale.it/interni/se_disoccupazione_e_colpa_genitori_snob/28-12-2010/articolo-id=496184-page=0-comments=1

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/29/il-lavoro-artigianale-di-stefano-zecchi/84032/

 

 

 

 

Tuttavia, rimane da capire  perché i mezzi di informazione vicini a Confindustria e al Ministero descrivono l'università italiana come agonizzante (una caricatura della realtà) mentre pongono scarsa attenzione sulla bassa propensione all'innovazione delle imprese. Per competere a livello internazionale, bisognerebbe puntare all'innovazione e sarebbe necessario formare più tecnici e ricercatori. Essendo un ingegnere, mi viene naturale guardare a mio settore. Le facoltà di ingegneria italiane sono tutt'altro che agonizzanti e sfornano ingegneri preparati (nessuna difficoltà a trovare impieghi, anche buoni, all'estero).

 

Questa e' la tipica risposta che offrono i professori, cioe' che non e' vero che i laureati non sono in grado di fare e un lavoro appena laureati e che non c'e' nulla da cambiare. Poi vedi che i neolaureati in ingegneria, sono cosi' preparati che si devono comperare un libro con le fotografie delle macchine da cantiere perche' nessuno gli ha mai spiegato la differenza tra un rullo compressore ed un grader. O scopri alla sessione di Laurea che non sanno che tensione e che frequenza c'e' nelle prese di casa.

E vieni a scoprire da colleghi che a Scienze insegnano ad usare un GIS senza usare il computer. O dei dottorandi ti raccontano di quella volta che per prendere un picnometro da illustrare a lezione si sono presentati con furgone e carrello, perche' pensavono di non riuscire a spostarlo in due, visto che non lo avevano mai avuto in mano prima.

Questa situazione, unita al fatto che moltissimi laureati ci mettono almeno 7 anni a finire un corso 3+2, rende la loro appetibilita' molto scarsa per le aziende, che si prendono in casa gente che non ha bene idea di come si lavori e come funzionino gli strumenti di cui hanno sentito parlare a lezione.

Posso aggiungere che quando mi presentai io la prima volta in cantiere e chiesi se usavano le tecnologie che mi avevano spiegato in Facolta', mi venne risposto che erano le tecnologie degli antichi romani e che erano state abbandonate da secoli. Per ui mi trovai di fronte ad apparecchiature e procedure che non sapevo neanche che esistevano. Tutti i neolaureati italiani che mi arrivarono in cantiere (una ventina) erano nell emie condizioni iniziali. Ma i romeni ed i cecoslovacchi, erano in grado di lavorare senza costringermi ad insegnargli da zero cosa fare e come farlo. Certo, gli italiani avevano una preparazione piu- vasta, ma a me non fregava nulla che sapessero poco di tutto, a me serviva gente che sapesse fare quello che mi serviva. Abbiamo provato universita' italiane differenti, ma le cose non sono mai cambiate. Invece con gli est-europei e con gli inglesi questi problemi non esistevano.

Il colpo di genio che i professori hanno avuto per non cambiare le cose si e' avuto quando hanno stabilito che il "tirocinio formativo" (che dovrebbe servire a dare un "assaggio" del mondo reale agli studenti) lo si puo' fare dentro  laboratori interni all'universita', rendendolo del tutto inutile.

Quindi l'universita' italiana e' in decomposizione, nonostante alcune persone che ne escono siano geniali, perche' la grande massa di laureati prima di essere produttiva e di ripagare lo stipendio che riceve impiega dei mesi a capire come funziona il mondo fuori dall'universita', provocando percio' un abbattimento dei salari di ingresso al mondo del lavoro. E questo e' il fallimento dell'Universita', il cui dovere, nei confronti degli studenti, e' garantire una formazione professionale che li metta in grado di essere produttivi sin dalla laurea.

E' talmente allo sfascio, l'universita' italiana, che la formazione che si riceve lavorando dopo il diploma porta ad essere piu' competenti e produttivi rispetto ad uno che perde 5-7 anni per ottenere una laurea.

E le industrie se ne sono accorte della poca utilita' di un neolaureato, che devono formare per mesi, prima che le ripaghi dello stipendio che riceve. Ma i professori di questo non si interessano, perche' sono decenni che insegnano in un determinato modo e non hanno alcuna intenzione di rimettersi in gioco e cambiare la loro routine.

Quindi i responsabili di questa situazione si difendono citando i "brillanti risultati" dei migliori laureati, dimenticando le tristi prestazioni offerte dalla media dei laureati che poi sono quelli che le imprese si trovano ad assumere e con cui devono lavorare.

Poi, certo le aziende in Italia non investono in ricerca. Al massimo investono in sviluppo dei prodotto. Perche' la ricerca non prevede la sicurezza di ottenere dei risultati. E i nostri ricercatori ben lo sanno e difficilmente sono in grado di garantire un ritorno economico degli investimenti in ricerca. Mentre gli sviluppi di prodotti, non so per quale idiosincrasia, vengono considerati un'attivita' umiliante, per cui vengono spesso snobbati dai nostri ricercatori.

Questa riforma e' fatta male, difficilmente otterra' quello che serve al paese: se anche ci fosse la possibilita' di migliorare la situazione, formando laureati competenti e pronti a lavorare sin dal gionro della laurea, ci penseranno i professori a renderlo impossibile, cosi- come hanno snaturato e reso inutile la riforma del 3+2.

 

 

Ma prima di assumere fate dei colloqui?

Che la distribuzione della preparazione dei laureati sia peggirata negli ultimi anni è un fatto secondo me dovuto al fatto che molti accedono all'Università non per vocazione ma come alternativa alla disoccupazione.

Certo l'Università dovrebbe non concedere una laurea a tutti

 

Ma i romeni ed i cecoslovacchi, erano in grado di lavorare senza costringermi ad insegnargli da zero cosa fare e come farlo. Certo, gli italiani avevano una preparazione piu- vasta, ma a me non fregava nulla che sapessero poco di tutto, a me serviva gente che sapesse fare quello che mi serviva

 

Forse i romeni e cecoslovacchi sono dei super-periti : la preparazione vasta serve a dare la capacità di potere specializzare le conoscenze per potere poi fare lavori diversi

Il colpo di genio che i professori hanno avuto per non cambiare le cose si e' avuto quando hanno stabilito che il "tirocinio formativo" (che dovrebbe servire a dare un "assaggio" del mondo reale agli studenti) lo si puo' fare dentro  laboratori interni all'universita', rendendolo del tutto inutile

 

Io non assumerei un laureato che non ha fatto un "tirocinio formativo" nel campo in cui opero o perlomeno affine.Mi darebbe una garanzia sul suo interesse per il lavoro che gli offro.Penso che nel curriculum i candidati diano informazioni sui tirocini effettuati.Sei poi sicuro che chi pretende questo sia anche disposto ad offrire opportunità di tirocini?

 

la grande massa di laureati prima di essere produttiva e di ripagare lo stipendio che riceve impiega dei mesi

Pensa un po' : il training di un operatore di produzione di semiconduttori , non un laureato ma qualcuno che esegue specifiche scritte , puo durare fino a tre mesi.In questo caso , all'occorrere di crisi cicliche , la C.I.G. ( che mette in frigo le competenze ) è un vantaggio competitivo importante per le aziende rispetto al licenziamento.

E' talmente allo sfascio, l'universita' italiana, che la formazione che si riceve lavorando dopo il diploma porta ad essere piu' competenti e produttivi rispetto ad uno che perde 5-7 anni per ottenere una laurea

Ecco : voi avete bisogno di periti edili , geometri non di laureati.E non commettete l'errore di preferire un laureato scarso ad un bravo diplomato perché tanto il costo non è molto differente.Anzi non assumete neppure un laureato bravo per lavori da diplomato perché per "dare" nel lavoro ci deve essere "challenge". Purtroppo io conosco piccoli imprenditori che assumono laureati spesso scarsi , quando non servono , solo per potere dire di averli.

Poi, certo le aziende in Italia non investono in ricerca. Al massimo investono in sviluppo dei prodotto. Perche' la ricerca non prevede la sicurezza di ottenere dei risultati

 

Questa è bella!E all'estero la dà forse?

Se su cinque programmi di ricerca uno solo ti porta dei risultatti questi devono ripagare anche i costi degli altri quattro.

Se tutti avessero ragionato così non staremmo discutendo su un pc.

 

Poi molti nostri industriali addirittuira preferiscono impegnarsi nelle utilities , dove si stacca un biglietto o si invia una bolletta di importo q.b. da garantire il risultato.( vedi autostrade ).Ma questa è un'altra storia che ci porta O.T.

Mentre gli sviluppi di prodotti, non so per quale idiosincrasia, vengono considerati un'attivita' umiliante, per cui vengono spesso snobbati dai nostri ricercatori.

Sulla sottovalutazione dello sviluppo di prodotto e processo ti do ragione : ciò spesso è dovuto al tentativo di compensare una bassa retribuzione con una attività più appagante.Pagateli di più! ( naturalmente quelli che servono e che sono bravi )

 

 

 


 

 

Gentile Gilberto Bonaga,

grazie per la sua risposta che ho letto con attenzione, ma che mi sembra riflettere una visione unilaterale dei problemi. Di seguito, riporto alcune delle sue considerazioni seguite da alcune mie riflessioni che spero siano utili per chi ci legge.


Questa e' la tipica risposta che offrono i professori, cioe' che non e' vero che i laureati non sono in grado di fare e un lavoro appena laureati e che non c'e' nulla da cambiare.


Certo, gli italiani avevano una preparazione piu- vasta, ma a me non fregava nulla che sapessero poco di tutto, a me serviva gente che sapesse fare quello che mi serviva.


Quindi l'universita' italiana e' in decomposizione, nonostante alcune persone che ne escono siano geniali, perche' la grande massa di laureati prima di essere produttiva e di ripagare lo stipendio che riceve impiega dei mesi a capire come funziona il mondo fuori dall'universita', provocando percio' un abbattimento dei salari di ingresso al mondo del lavoro. E questo e' il fallimento dell'Universita', il cui dovere, nei confronti degli studenti, e' garantire una formazione professionale che li metta in grado di essere produttivi sin dalla laurea.


E' talmente allo sfascio, l'universita' italiana, che la formazione che si riceve lavorando dopo il diploma porta ad essere piu' competenti e produttivi rispetto ad uno che perde 5-7 anni per ottenere una laurea.


E le industrie se ne sono accorte della poca utilita' di un neolaureato, che devono formare per mesi, prima che le ripaghi dello stipendio che riceve. Ma i professori di questo non si interessano, perche' sono decenni che insegnano in un determinato modo e non hanno alcuna intenzione di rimettersi in gioco e cambiare la loro routine.


L'evoluzione della tecnologie e l'instabilità del mondo lavoro rendono assai consigliabile avere una preparazione vasta che permetta di adattarsi agli inevitabili cambiamenti nel corso della propria vita lavorativa. Per quanto riguarda il discorso diplomati/laureati, tutte le statistiche mostrano che dal punto di vista retributivo conviene laurearsi: "The rewards to individuals for tertiary education are on average substantially higher (USD 145 000) than for upper secondary education (USD 68 000)" (OCSE Education at a Glance 2010).  Sfornare laureati "pronti all'uso" è sicuramente una buona cosa (quando possibile) ma non può essere una priorità assoluta perchè richiederebbe dei corsi di laurea troppo specializzati. E' abbastanza ragionevole che sia necessario qualche mese per diventare operativi sul posto di lavoro.

Mi sembra di capire che le sue esperienze con i laureati italiani non siano state positive, ma non credo che si possa generalizzare. Posso basare le mie considerazioni su numerosi tirocini in molte aziende diverse, seguiti da me o da colleghi: di norma le aziende si sono dichiarate soddisfatte o molto soddisfatte (mi riferisco al settore dell'Ingegneria Informatica e dell'Automazione). In molti casi, le aziende hanno anche assunto gli studenti subito dopo la laurea. In generale, i nostri laureati non hanno problemi a trovare lavoro.

Aggiungo che mi piacerebbe  poter credere che un miglioramento della formazione universitaria basti da solo ad aumentare i salari di ingresso. Temo che le dinamiche retributive dipendano da altri fattori, tra cui il tasso di disoccupazione ed il rapporto tra domanda ed offerta per le diverse figure professionali.

Infine, sarebbe ingenuo da parte mia affermare che non c'è nulla da cambiare nell'università. Però, usare stereotipi per etichettare intere categorie non aiuta a progredire. Io e i miei colleghi lavoriamo con impegno per formare dei validi laureati. Questo comporta lavoro, studio ed anche capacità di ascolto. Ascolto nei confronti delle novità della scienza e della tecnologia, ma pure ascolto nei confronti delle esigenze delle imprese: multinazionali, ma anche medie e piccole; imprese che fanno ricerca di punta, ma anche imprese che hanno un profilo meno innovativo e più commerciale. Non abbiamo ricette in tasca e sicuramente non siamo perfetti, ma le condanne sommarie, oltre a non essere meritate, non fanno onore a chi le pronuncia.


Poi, certo le aziende in Italia non investono in ricerca. Al massimo investono in sviluppo dei prodotto. Perche' la ricerca non prevede la sicurezza di ottenere dei risultati. E i nostri ricercatori ben lo sanno e difficilmente sono in grado di garantire un ritorno economico degli investimenti in ricerca.


La ricerca è sicuramente rischiosa, ma necessaria per rimanere competitivi. Limitarsi a ciò che garantisce ritorni economici sicuri espone al rischio di diventare tecnologicamente obsoleti. Per evitare equivoci: ho il massimo rispetto anche per chi investe sullo sviluppo dei prodotti, ma non può essere la ricetta generale.

Questa riforma e' fatta male, difficilmente otterra' quello che serve al paese: se anche ci fosse la possibilita' di migliorare la situazione, formando laureati competenti e pronti a lavorare sin dal gionro della laurea, ci penseranno i professori a renderlo impossibile, cosi- come hanno snaturato e reso inutile la riforma del 3+2.

Tra i miei colleghi, anche chi non ha condiviso il 3+2, ha fatto tutto ciò che poteva per farlo funzionare al meglio. Non mi sembra costruttivo accusare un'intera categoria di boicottaggio, soprattutto perché non è vero. Piuttosto, mi sembra il caso di valorizzare e potenziare le collaborazioni costruttive tra università e aziende che per fortuna già esistono.

Cordialmente

GDN

Intervengo nella discussione fra lei e Gilberto, pur avendo pochi titoli, avendo una formazione diversa, ma mi trovo immerso lavorativamente in un mondo tecnologico e sono spesso e volentieri scambiato per un ingegnere, pur non essendolo.

In Ingegneria esistono settori, tipo informatica, in cui siamo all'avanguardi, o quasi, forse perchè gli strumenti sono di "basso costo" e facile reperibilità.

In Ingegneria meccanica abbiamo delle teste eccezionali, ma poco preparati su strumenti e macchinari nuovi, a ingegneria meccanica a Napoli abbiamo strumenti che, senza scherzi, risalgono al 1970, per carità funzionano, sono addirittura geniali (alcuni inventati dai professori e mai brevettati...), ma il mondo va avanti, è ovvio che senza dei tour in aziende questi ingegneri avranno bisogno di lunghi tirocini.

A tecnologia dei polimeri non avevano mai "resinato" un componente, non avevano mai visto il kevlar, ma ne conoscevano a memoria le caratteristiche, salvo che non lo avevano mai toccato.

Potrei continuare anche sul design meccanico ed automotive, ma mi fermo: il punto è solo questo, c'è un modo per far uscire gli studenti dall'università con un minimo di conoscenze pratiche, oltre che quelle teoriche ? E parliamo di Ingegneria, non di filosofia o sociologia.

Perchè al di là della buona volonta dei professori ( e ce ne è tanta, concordo) le mie esperienze con il mondo universitario della tecnica mi lasciano sempre sorpreso del fatto che c'è un solco fra la pratica e la teoria.

 

Infine, sarebbe ingenuo da parte mia affermare che non c'è nulla da cambiare nell'università. Però, usare stereotipi per etichettare intere categorie non aiuta a progredire. Io e i miei colleghi lavoriamo con impegno per formare dei validi laureati. Questo comporta lavoro, studio ed anche capacità di ascolto. Ascolto nei confronti delle novità della scienza e della tecnologia, ma pure ascolto nei confronti delle esigenze delle imprese: multinazionali, ma anche medie e piccole; imprese che fanno ricerca di punta, ma anche imprese che hanno un profilo meno innovativo e più commerciale. Non abbiamo ricette in tasca e sicuramente non siamo perfetti, ma le condanne sommarie, oltre a non essere meritate, non fanno onore a chi le pronuncia.

 

Infine, sarebbe ingenuo da parte mia affermare che non c'è nulla da cambiare nell'industria italiana. Però, usare stereotipi per etichettare intere categorie non aiuta a progredire. Io e i miei colleghi imprenditori lavoriamo con impegno per soddisfare bisogni dei mercati italiani ed esteri. Questo comporta lavoro, studio ed anche capacità di ascolto. Ascolto nei confronti delle novità della scienza e della tecnologia, ma pure ascolto nei confronti delle esigenze dei clienti: multinazionali, ma anche medie e piccole imprese locali, oltre che privati cittadini; clienti che necessitano del prodotto di punta, ma anche clienti che hanno un profilo meno innovativo e più commerciale, pur pretendendo affidabilità e puntualità. Non abbiamo ricette in tasca e sicuramente non siamo perfetti, ma le condanne sommarie, oltre a non essere meritate, non fanno onore a chi le pronuncia.

:-)

 

 

mi intrometto in questo dialogo con qualche considerazione generale e forse per questo utile

Se il rapporto tra la scienza e la tecnica e` armonioso, lo sviluppo dell'uno moltiplica quello dell'altro.

Uno scollamento troppo grande tra i due termini porta, a seconda del prevalere di questo o di quello, in un caso, al confluire della matematica nella metafisica misticheggiante (senza applicazioni pratiche e, guarda caso, senza innovazioni teoriche); nell'altro caso, a un puro pragmatismo (libero da sovrastrutture teoriche ma proprio per questo incapace di avanzare oltre certi limiti).

Un esempio del primo estremo si verificò alla fine di quel processo di decadenza dello spirito scientifico (iniziato con la morte di Archimede per mano romana, e giunto a maturazione nel V secolo d.C.) che ha accompagnato, guarda caso, quella parabola autodistruttiva che è stata la formazione, l'espansione e infine la crisi catastrofica dell'impero romano.

Un esempio del secondo estremo si trova alla radice stessa della civiltà romana antica, già nella sua prima fase di espansione repubblicana. La relativa superiorità dei romani nella tecnica militare e l'affidamento che essi ponevano nella forza lavoro degli schiavi, dovevano rendere ai loro occhi superflua ogni altra cura speculativa.

Un altro esempio del secondo estremo si trova nella matematica sviluppata dai babilonesi e dagli egiziani nei secoli che hanno preceduto la scoperta degli incommensurabili, avvenuta nel V secolo a.C. ad opera della scuola di Pitagora. I babilonesi e gli egiziani avevano raggiunto, nei calcoli matematici, un livello di tecnicismo relativamente sofisticato, eppure non fu loro la scoperta degli incommensurabili, mancando loro la necessaria dose di spirito speculativo e filosofico.

La società romana antica si distingueva per uno scollamento tra Scienza e Tecnica che, guarda caso, si rispecchiava, specie nella sua fase imperiale, in uno scollamento sociale che alla fine la rese ingovernabile. La sua classe dirigente non sapeva più amministrare la complessità della estensione stessa dell'impero.

Mi sembra opportuno citare le parole che Gianni Micheli dedica a questi aspetti, nella "Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico" di Ludovico Geymonat (primo volume, p.302):

Neanche i romani, malgrado il loro indiscusso spirito pratico, seppero sviluppare a fondo la preziosa eredità degli ingegneri alessandrini. Essi rivelarono senza dubbio grandi capacità nella costruzione di strade, di acquedotti, di fastosi edifici, ma non riuscirono a comprendere l'interesse della vera e propria ingegneria meccanica, né avvertirono l'importanza pratica di ricerche direttamente o indirettamente rivolte alla scoperta di nuove fonti di energia. Il fatto appare tanto più singolare, quando si pensi che proprio al I secolo a.C. risale la massima invensione tecnologica dell'antichità : il mulino idraulico (invenzione [...] sorta, come scrive U. Forti, nell'orbita della civiltà di Alessandria).
[...].
Per quanto riguarda lo scarso interesse dimostrato dai romani verso gli artificiosi congegni esposti negli Pneumatika' di Erone, va inoltre osservato che la via da percorrere, onde giungere ad una loro utilizzazione su vasta scala, non poteva non apparire troppo lunga e difficile a uomini --- come appunto gli ingegneri romani --- direttamente impegnati nelle realizzazioni pratiche immediate. L'abbandono di tale atteggiamento richiederà una profonda trasformazione sociale e culturale, che avrà inizio solo parecchi secoli più tardi.

 

Concordo. Sul rapporto tra scienza e tecnica nell'Ellenismo e nel mondo romano Lucio Russo ha scritto pagine notevoli ("La rivoluzione dimenticata", Feltrinelli). Uno degli aspetti più interessanti è l'oblio in cui caddero le conoscenze scientifiche dell'epoca a causa, secondo Russo, di una trasmissione del sapere finalizzata al solo uso tecnico, che metteva in secondo piano la formazione di persone in grado di capire le basi scientifiche e di replicare la ratio progettuale dei dispositivi tecnologici.

Mi sembra doveroso un commento, visto che sono stato io, nel corso di una corretta e civile seppur accesa discussione con Giovanni Federico, a citare i ben noti interventi di Giavazzi sul Corriere e ad "evocare" FSL.

Sono ben consapevole, come ho peraltro scritto nei miei interventi, che gli articoli di Giavazzi sono stati gia' ampiamente stigmatizzati su questo blog. Se li ho nuovamente citati e' stato per argomentare come il fronte pro riforma Gelmini non solo abbia goduto di uno spazio maggiore sui mezzi di informazione rispetto ai suoi oppositori, ma abbia anche prodotto interventi demagogici e mistificatori della realta' dei fatti.

Per quanto riguarda FSL, ho suggerito il suo nome insieme a quello di Stefano Zapperi quando Giovanni Federico ha lamentato la mancanza di disponibilita' della rete 29 aprile a confrontarsi sui temi della riforma Gelmini. FSL e' un collega vicino alle posizioni della rete 29 aprile che, al pari di Stefano Zapperi, ha prodotto alcune critiche circostanziate della legge Gelmini. Non sono un fanboy (termine vagamente offensivo se riferito a persone adulte) ne' di FSL, che avro' incrociato al piu' in un paio di occasioni, ne' di nessun altro, ma non posso che dispiacermi nell'osservare come, a fronte di un intervento forse eccessivamente aggressivo, FSL sia stato accolto da una serie di insulti francamente fuori luogo se non per chi, come Boldrin, creda nelle virtu' taumaturgiche della rappresaglia per un fattore dieci.

Piu' in generale, per un sito che fa dell'analisi quantitativa il suo cavallo di battaglia, osservo una sorprendente indisponibilita' a confrontarsi puntualmente sui dati della riforma Gelmini (con l'unica meritoria eccezione di Alberto Luisiani). Mi rendo conto che il tempo e' limitato per tutti, ma quando i dati e le analisi puntuali portati dagli oppositori del DdL vengono costantemente bollati come di parte o irrilevanti resta ben poco spazio per una discussione costruttiva. Ed il dibattito rischia di avvitarsi, come negli ultimi due giorni, in un inconcludente scambio di accuse piccate tra accademia e impresa.

 

Non capisco cosa c'entrino i dati di De Nicolao con la riforma. Al massimo dimostrano che spendiamo troppo poco (e già questo è discutibile). Il punto di Giavazzi e della Gelmini è che spendiamo male e che qualsiasi incremento di spesa con le procedure pre-DDL sarebbe sprecato in aumenti del benessere dei docenti (più assunzioni, più promozioni interne). Questo è quanto è accaduto finora (1980-2010), come ho dimostrato in un post. Quindi prima biosgna cambiare le regole e poi si può parlare di aumentare la spesa. Etc etc Ho già chiesto a De Nicolao la sua opinione in proposito: aspetto.

Nel tentativo di fare chiarezza:

la fonte più aggiornata in tema di anagrafe universitaria è il sito http://cercauniversita.cineca.it Da alcune rapide interrogazioni (alla voce "Strutture - ricerca avanzata", dati aggiornati al 05.01.11) si desume che:

 

  • le università statali sono 67 (di cui 8 istituti speciali: 3 scuole superiori - SNS, S. Anna e Pavia - 3 istituti di alta formazione dottorale - SUM, IMT e SISSA - e 2 univ. per stranieri - Perugia e Siena)
  • le università non statali sono 28 (di cui 11 telematiche, ed 1 per stranieri - Reggio Calabria)

 

Totale "università censite dal sito cercauniversità": 95 (che purtroppo si avvicina molto al fatidico 100 di FG).

Dalle interrogazioni sulle università si ricavano anche gli indirizzi (ma solo quelli) delle varie sedi didattiche, che sono notoriamente molte di più, anche se molto diverse tra loro, poiché comprendono sia poli multicorso sia minisedi in cui si gestisce al massimo un corso di laurea magistrale. La qualificazione di "sede didattica" è fornita dagli atenei stessi, nel momento dell'inserimento dei loro corsi nella banca dati ministeriale dell'offerta formativa

 

 

Caro Andrea, grazie delle preziose informazioni.

I tuoi numeri mi stimolano due osservazioni:

1) il Ministro dovrebbe occuparsi dell'efficienza delle universita' statali (il che garantisce anche che quelle non statali, per rimanere sul mercato, si adeguino). O sbaglio?
Altrimenti dovremmo concludere che  la creazione atenei privati (magari telematici e/o irrilevanti sul piano della consistenza numerica o scientifica) condiziona il sistema dell'universita' pubblica ...

2) come osservava GF, l'argomento piu' credibile di Giavazzi  riguarda il fatto che sarebbe antieconomico pretendere di fare alta formazione all'ombra di ogni campanile. Ma allora dovrebbe chiedersi, per esempio, chi (e per quali motivi) ha creato ex-novo l'IMT di Lucca, ovvero un centro di alta formazione a 25 km da Pisa (dove ci sono tre istituzioni universitarie - unipi, SNS, S. Anna) e con Firenze a 50' di auto (due atenei: unifi e SUM).

Insomma: se ci sono sprechi, si dica quali sono. Le speculazioni che poggiano su numeri sballati o poco significativi non portano da nessuna parte.

 

curioser and curioser

la differenza di 6 tra i dati del

(A)
cercauniversita.cineca.it/index.php

e i dati del

(B)
statistica.miur.it/scripts/Infoatenei/AteneiSt.asp

e` data da questo catalogo:

1. Scuola Normale Superiore di Pisa
2. Scuola Superiore di Studi Universitari e Perfezionamento S.Anna di PISA
3. I.U.S.S. - Istituto Universitario di Studi Superiori - PAVIA
4. Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di TRIESTE
5. SUM - Istituto Italiano di SCIENZE UMANE di FIRENZE
6. Scuola IMT - Istituzioni, Mercati, Tecnologie - Alti Studi - LUCCA

questi sei ``atenei'' sono presenti nella lista di (A) ma non sono presenti nella lista di (B)

i primi tre offrono percorsi di formazione integrativi alla laurea triennale: gli allievi devono essere iscritti alla universita` di Pisa (per 1 e 2) o Pavia (per 3);

gli ultimi sono tre scuole di dottorato (in alcuni casi, anche Master)

si vede dunque che, tra le due liste, quella che usa in maniera propria il termine ``ateneo'', nel senso di ``luogo di formazione universitaria che offre lauree triennali'', e non solo dottorato o master, e` quella del miur (61 atenei statali)

 

...curioser and curioser..(?!)

E' una citazione dotta (Alice in Wonderland - che letture da matematico!) o un effetto dell'influenza?
:)

 

Incuriosito come Alice (che crescendo troppo velocemente vedeva sparire i piedi dalla propria vista, metafora che potrebbe applicarsi secondo alcuni al sistema universitario italiano), ho appurato che le sei istituzioni elencate da Fausto di Biase sono i cosiddetti "istituti di istruzione universitaria ad ordinamento speciale" di  cui parla anche la Legge Gelmini (art.2, c. 3: viene loro conferita l'immunità normativa per  quanto riguarda la governance, in pratica possono reggersi in piena autonomia). Gli stessi sono stati esentati  anche dalle regole di riduzione del turn-over con il milleproroghe dell'anno scorso (L. 25/2010, art. 7, c. 4-bis). Si tratta quindi di istituzioni che rientrano a pieno titolo nel sistema universitario italiano, ma godono (appunto) di ordinamento speciale. Tre di essi (SNS, S. Anna e SISSA) sono "storici", mentre gli altri 3 (IMT, IUSS e SUM) sono tutti stati istituiti con decreti ministeriali nel 2005.

Morale della favola: l'incremento del numero degli atenei, diciamo nell'ultimo decennio, è dovuto essenzialmente a due fattori a) l'istituzione di 11 università telematiche; b) l'istituzione di tre nuovi istituti ad ordinamento speciale.

Senza entrare nel merito delle singole istituzioni (molte delle quali hanno sollevato peraltro forti perplessità), risulta quindi che questo incremento, così stigmatizzato da molti commentatori, si deve essenzialmente ad una tendenza a quella diversificazione dell'offerta formativa che viene auspicata proprio dalla maggior parte degli stessi critici, con l'obiettivo di ridurre l'incidenza degli atenei "generalisti" sul totale delle istituzioni universitarie. L'unica altra strada possibile sarebbe quella di far chiudere alcuni atenei "generalisti": prospettiva che peraltro non sembra del tutto aliena dalle intenzioni dell'attuale governo.

Come spesso accade, tuttavia, invece di  perseguire obiettivi politici in maniera chiara e trasparente (e quindi aperta al dibattito), si preferisce promuovere finti bersagli polemici, reputati maggiormente fruibili dalla mediocrazia, alle cui regole si sottomettono anche gli addetti ai lavori, benché esperti di metodo scientifico e dialettico.

 

ho gia` detto altrove quello che penso sull'idea di avere a disposizione una valutazione ``oggettiva e automatica'' (che dovrebbe magicamente moralizzare la vita concorsuale delle nostre universita`, un po' come tangentopoli ha moralizzato la vita concorsuale delle pubbliche amministrazioni)

tuttavia, vorrei intromettermi in questo interessante dibattito sulle proprieta`, che un ``funzionale di valutazione'' Q dovrebbe avere, osservando che

lo scopo dichiarato che questo funzionale di valutazione dovrebbe essere, come minimo, quello di permettere la comparazione ``automatica e oggettiva'' tra diversi candidati; qui per ``oggettivo'' si intende: ``basato su indici bibliometrici''

cerchero` di mostrare che il ricorso a valutazioni soggettive e` inevitabile

rinunciamo per il momento all'idea di introdurre questo o quel funzionale di valutazione, cioe` una funzione che ad ogni possibile ``stato concorsuale'' del candidato associa un numero (funzione che dovrebbe avere la proprieta` che piu` alto e` il numero, migliore e` il candidato)

e accontentiamoci di introdurre una relazione di ordine nell'insieme di tutti i possibili ``stati concorsuali'' di un candidato

del resto, se avessimo a disposizione un funzionale di valutazione soddisfacente avremmo anche una relazione di ordine, ma a priori e` possibile che il nostro sia un mondo in cui esiste una relazione di ordine soddisfacente ma non un funzionale di valutazione soddisfacente

chiediamoci in che modo rappresentare l'insieme dei possibili stati concorsuali dei candidati

supponiamo per semplicita` che ci siano solo due candidati: X e Y

come primo tentativo, saremmo tentati di esprimere lo stato concorsuale del candidato X come un polinomio a coefficienti interi non negativi:

    3x2 + 2x+ 7 x0

con l'intesa che il significato di questa espressione e` che X ha scritto 3 memorie ciascuna delle quali ha 2 citazioni, 2 memorie ciascuna delle quali ha 2 citazioni e 7 memorie ciascuna delle quali ha 0 citazioni

in maniera analoga rappresenteremo, come polinomi nella indeterminata y, lo stato concorsuale del candidato Y

la relazione di ordine che noi cerchiamo, sull'insieme di tutti i polinomi siffatti, dovrebbe avere la proprieta` che i lavori scritti in collaborazione tra X e Y non aiutano uno piu` dell'altro (perche', in caso contrario, avremmo bisogno di valutazioni soggettive, che sono per il momento proibite)

ecco, io sospetto che, nel caso che i candidati siano piu` di due, questa proprieta`, che mi sembra desiderabile, imponga dei vincoli che portano a situazioni assurde, e che si possono risolvere solo con l'intervento di una valutazione soggettiva

ma supponiamo pure che questo mio sospetto sia privo di riscontro; rimane il fatto che queste prime elementari considerazioni ci dicono che non basta introdurre una ``indeterminata'' in corrispondenza di ciascun candidato; a mio avviso e` giocoforza disaggregare i dati contenuti nella prima rappresentazione proposta, e introdurre una indeterminata in corrispondenza di ogni singola memoria scritta dal candidato (memoria che potrebbe essere ottenuta in collaborazione con altri candidati, e di nuovo dovrebbe valere la regola che tali memorie non aiutano uno piu` dell'altro, anche se, a pensarci bene, e` facile immaginare casi in cui questa regola dovrebbe ammettere eccezioni, ed eccoci ripiombati nella necessita` di rinunciare a criteri ``automatici'' )

dunque lo spazio degli stati concorsuali e` il cono del polinomi monici, a coefficienti interi non negativi, nelle indeterminate che corrispondono alle singole memorie dei candidati, come in

    m1 3m20+...

con l'intesa che il significato di questa espressione e` che la memoria m1 ha ricevuto 3 citazioni, la memoria m2 ha ricevuto zero citazioni, ecc

ora a me pare difficile che si possa escogitare un criterio ``automatico'' e ragionevole, per comparare due stati siffatti, e che prescinda dalla comparazione delle singole memorie (cioe`, per restare dentro questo linguaggio algebrico dei polinomi, mi sembra difficile che si possa introdurre una relazione d'ordine in questo spazio senza aver prima introdotto una relazione d'ordine tra le singole indeterminate, cio` che ci riconduce alla necessita` di approntare una valutazione (soggettiva, cioe` fatta da una testa pensante, e non da una macchina))

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capisco l'interesse teorico che anima questa discussione, ma vorrei informare che i  concorsi sono stati aboliti.  La legge Gelmini prevede valutazioni individuali della produttività scientifica dei docenti, separatemente per quelli in servizio e per i concorrenti all'abilitazione nazionale. In ambedue i casi, è necessario stabilire una soglia minima di produttività individuale e quindi non è necessario alcun confronto fra candidati.

Sono d'accordo che fare valutazioni automatiche è complicato e in molti casi inutile, ma non capisco perchè debba essere polinomiale o anche solo continua.

Posso benissimo inventarmi un criterio basato su 5 indici diversi, con soglie minime su 3, inclusione del 10% migliore ed esclusione del 20% peggiore sul 4° ed ordinamento dei superstiti in base al 5°.In cui magari i lavori sono pesati per numero di firme.

Risulta sempre una relazione d'ordine (parziale, gli esclusi son tutti uguali) sulla ennupla dei criteri iniziali, ma non sui polinomi.

Non ho idea se questo influenzi o meno la tua obiezione perchè non ho capito quale sia, ma non è detto che parliamo dello spazio dei polinomi.

Sono d'accordo con l'essenza di quel che dici, ma io non partirei con i polinomi (curiosita' tecnica: perche' proprio un polinomio? Stone-Weiersrtass?), perche' come notato incorporano gia' diverse assunzioni.

Grosso modo: parti direttamente con X = insieme delle sequenze c(k)=(c_1,c_2,...,c_k), k variabile, dove k e' il numero di papers scritti nell'intervallo considerato e c_i e' i numero di citazioni ricevute dal paper i. Definisci qualche operazione algebrica, +, su X e comincia a pensare a proprieta' ragionevoli che un ordine parziale debole R sull'insieme di oggetti c(k)+c'(k') deve avere (denota P il fattore asimmetrico di R: c(k)Pc'(k') iff c(k)Rc'(k') e non viceversa). Il motivo per cui devi aricchire lo spazio originario con qualche operazione e' che altrimenti hai probabilmente troppo poca struttura per tirar fuori qualcosa di interessante.

Ad esempio c(k)+c'(k') potrebe voler dire la sequenza di lunghezza k+k' (c_1,c_2,...,c_k,c'_1,c'_2,...,c'_k'), e una proprieta' da studiare potrebbe essere che se c(k)Rc'(k') allora c(k)+c''(k'')Rc'(k')+c''(k'') per ogni c''(k'') (dico per dire). La DeNicolao-monotonicita' dice che c(k)+c'(k')Rc(k) per ogni c(k),c'(k') (NOTA: R e non P). Michele invece forse sostiene che esiste un sottoinsieme M di X (le 'minchiate') tale per cui c(k)Pc'(k') e c(k)Pc(k)+c'(k') per ogni c(k) in X\M e ogni c'(k') in M.

E' chiara la molteplicita' (e soggettivita') delle proprieta' ragionevoli che R puo' avere, e se ne puo' discutere serenamente senza accapigliarsi e senza insultarsi.

ho gia` detto altrove quello che penso sull'idea di avere a disposizione una valutazione ``oggettiva e automatica'' (che dovrebbe magicamente moralizzare la vita concorsuale delle nostre universita`, un po' come tangentopoli ha moralizzato la vita concorsuale delle pubbliche amministrazioni)

sono daccordo

il resto è troppo complicato per me , comunque stante la premessa che condivido , superfluo.

La sfida sarebbe moralizzare il paese , le valutazioni soggettive sarebbero perfette : purtroppo visto l'andazzo non c'è speranza.

 

post scriptum :

sbaglio 

        3x+ 2x1  + 7 x0

con l'intesa che il significato di questa espressione e` che X ha scritto 3 memorie ciascuna delle quali ha 2 citazioni, 2 memorie ciascuna delle quali ha 2 citazioni e 7 memorie ciascuna delle quali ha 0 citazioni

oppure o

 3x2 + 2x2  + x0

o

 2 memorie ciascuna delle quali ha 1 citazione ?


hai ragione, mi sono sbagliato io, l'esponente indica il numero di citazioni, ma non devi farti impressionare dalla notazione, vorrebbe solo essere un modo efficiente per maneggiare i dati, e per pensare sopra i dati, e non e` detto che sia il migliore

 

un giorno il parlamento approva una legge, che stabilisce che solo chi ha un indice di simpatia superiore a una certa soglia puo` fare il conduttore di telegiornale; ma che cos'`e l'indice di simpatia? e` un indice che misura la densita` di fluido simpatico; ma che cos`e` il fluido simpatico? non pensarci: e`legge: se mandi alla ISC (una societa` specializzata nel settore) un campione del tuo sangue, te lo dicono loro qual'e` il tuo indice di simpatia (un po' come si fa con il crif)

 

 

un giorno il parlamento approva una legge, che stabilisce che solo chi ha un indice di simpatia superiore a una certa soglia puo` fare il conduttore di telegiornale; ma che cos'`e l'indice di simpatia? e` un indice che misura la densita` di fluido simpatico; ma che cos`e` il fluido simpatico? non pensarci: e`legge: se mandi alla ISC (una societa` specializzata nel settore) un campione del tuo sangue, te lo dicono loro qual'e` il tuo indice di simpatia (un po' come si fa con il crif)

 

 

Sempre meglio dell'alternativa italiana: tutti i conduttori si riuniscono e decidono chi è il più simpatico, che risulta sempre essere figlio di uno di loro.

 

 

un giorno il parlamento approva una legge, che stabilisce che solo chi ha un indice di simpatia superiore a una certa soglia puo` fare il conduttore di telegiornale; ma che cos'`e l'indice di simpatia? e` un indice che misura la densita` di fluido simpatico; ma che cos`e` il fluido simpatico? non pensarci: e`legge: se mandi alla ISC (una societa` specializzata nel settore) un campione del tuo sangue, te lo dicono loro qual'e` il tuo indice di simpatia (un po' come si fa con il crif)

 

 

Sempre meglio dell'alternativa italiana: tutti i conduttori si riuniscono e decidono chi è il più simpatico, che risulta sempre essere figlio di uno di loro.

 

sempre?

mio padre era un contadino, figlio di contadini (e non un latifondista, visto che aveva poco piu` di cinque ettari)

(ecco spiegata la mia aria sempliciotta, disarmata, e senza pretese)

i posteri sapranno dire se casi come questo saranno ancora possibili in un prossimo futuro (scommessa: no)

 

 

Ho provato a paragonare le classifiche delle nazioni del 2008 riportate da scimagojr per le citazioni in tutte le aree, in economia, ingegneria, medicina, e nella categoria di chirurgia.

Sono molto contento perché medicina e chirurgia, che sono la mia area e la mia categoria, sono meglio classificate (quinte) delle altre (ottave) e anche perché, caduto dalle nuvole, sono apparentemente illeso.

 

Scrive Marco Mariotti (MM):

 

Caro Michele, al contrario, leggo con molta attenzione quel che scrivi.

 

Temo di no.

Scrive MM:

 

DeNicolao cercava un indice di valutazione individuale

 

FALSO. Il commento in cui GdeN fa l'affermazione imputata si sta occupando, nella parte in questione, non di individui, ma nemmeno di dipartimenti o facoltà o università. No: si sta occupando addirittura di paesi. Tanto per tagliare la testa al toro, faccio cut and paste:

 

Per comodità riporto la classifica:

1. Virgin Islands (British)
2. Andorra
3. Comoros
4. Tonga
5. American Samoa
6. Virgin Islands (U.S.)
7. Cape Verde
8. Haiti
9. Gambia
10. Bermuda
11. Gibraltar
12. Faroe Islands
13. San Marino
14. Switzerland
15. Denmark
16. Mozambique
17. Iceland
18. Tuvalu
19. Samoa
20. Panama
...
È chiaro che così non funziona. Bisogna inserire una soglia minima sul numero di papers o sul numero di citazioni, ma con quale criterio? È chiaro che la classifica dipenderà dalla soglia selezionata.

In effetti, esiste una proprietà che deve essere soddisfatta da ogni "indice di qualità" sensato. Dato un insieme A di articoli (ognuno corredato del suo numero di citazioni), un indice di qualità Q(A) è una formula di calcolo che restituisce un numero reale che misura la qualità dell'insieme A. Per evitare esiti paradossali, la logica impone che un indice di qualità soddisfi il seguente criterio.

Criterio di Ammissibilità. Un indice di qualità è ammissibile se Q(A) ≤ Q(B) ogni qual volta l'insieme A è incluso in B.

 

Scrive MM:

 

i tuoi esempi sui gruppi, scacchisti, eccetera fanno solo confusione in una discussione già difficile, perché l'aggregazione delle valutazioni individuali è un problema ulteriore

 

ERRONEO. È un esempio appropriatissimo, alla luce dell'evidenza precedente. Di paesi parla GdeN, ed a paesi il mio esempio si riferisce. L'aggregazione è complicata? Immaginati se non lo so! È il professor GdeN che propone criteri di ammissibilità così, alla carlona. Mica io. Io ho solo detto e provato che il criterio proposto è un criterio demenziale.

Scrive MM:

 

Tu hai detto che la proprietà è assurda perché 'esclude la medià.

 

FALSO. Io, fin dall'inizio, ho detto, invece:

 

insomma misuri valori estremi o totali, che sono pessimi indicatori della qualità di un insieme perché non tengono in conto l'effetto size, la varianza, le code della distribuzione, eccetera.

In generale tale assioma produce risultati assurdi perché esclude gli indici più ovvi di qualità, come la media, per esempio.

 

Non ho usato il plurale per caso, ma intenzionalmente; ho menzionato altre misure che occorre considerare; ho detto esplicitamente "per esempio". La media (moda, mediana) è un indice interessante per valutare la qualità della produzione scientifica di una persona, gruppo, dipartimento, eccetera. Su questo MM sta beccando una cantonata madornale che, mi auguro, il Promotion & Tenure Committee del posto dove lavora NON vorrà emulare ... di certo non lo fa il RAE ... Ma la media (moda, mediana) non sono di certo una proposta alternativa: sono solo un esempio del perché il criterio di GdeN sia insensato. Ho dato altri esempi, in altri commenti, che MM sembra non voler leggere o cogliere. Dopo li riassumiamo. Ma ora andiamo avanti.

Scrive MM:

 

Tu hai a questo punto hai specificato che non hai mai proposto SOLO la media, ma che la media deve far parte di un (fantomatico) insieme di criteri. (Non hai perso l'occasione per accusarmi di non capire la logica elementare né cosa significa un assioma).

 

FALSO. Io l'ho detto sin dall'inizio. Siccome non sembravi(ate) averlo notato l'ho ripetutto.

Il "fantomatico", poi, tanto fantomatico non è visto che ho anche detto, esplicitamente e fin dall'inizio, che io NON stavo proponendo un criterio alternativo, che infatti io a questi criteri del piffero non ci credo e credo solo alla competizione fra dipartimenti ed università e che il punto del mio commento era un altro. E lo ripeto: a me interessava solo mettere in evidenza che GdeN si era inventato (senza tanto pensarci) un criterio di ammissibilità assurdo che aveva un'unica funzione. Ed era una funzione polemico-politica: non doversi confrontare con i numeri riportati da Roberto Perotti nel terzo capitolo del suo libro e potersi invece divertire con indici che, soddisfando il suo assurdo criterio, gli permettono di giungere al risultato che desidera. Per questa ragione il mio iniziale commento terminava ricordando che, nei procedimenti logici, basta fare ipotesi assurde per poter provare ciò che ci pare. C'era anche l'errore di latino, bastava leggere e fare attenzione.

Per quanto riguarda poi il mio "accusare" mi sembra plateale che l'evidenza riportata qui suggerisce io non abbia poi commesso un sì grave misfatto! Ho ricordato quando mi sembrava il caso di ricordare, e rinnovo l'invito.

Scrive MM

 

Rassegnati: io continuo serenamente a pensare che, per la ricerca individuale, la media sia un indice cattivo e vada escluso.  Per il semplice motivo che se (nel periodo di valutazione) scrivo un paper con 100 citazioni non mi sembra giusto che il mio indice cada se ne scrivo un altro con 50 citazioni, e che starei meglio se non facessi nulla. Non mi sembra un concetto difficile da capire né un'idea strampalata.

 

INCOERENTE.

Io non ho MAI sostenuto che occorra usare solo la media per valutare l'output di una persona o di un dipartimento! Infatti, mi domando da dove questa strana idea venga. Ma la uso, perché è utile ad evidenziare l'incoerenza dell'argomento.

L'esempio di MM sembra suggerire che la monotonicità richiesta da GdeN sia una buona idea.

Peccato che se modifichiamo l'esempio di MM, ed al secondo paper diamo un valore -50 (ossia, è sbagliato, contiene affermazioni false, dati alterati, regressioni confuse) il criterio di GdeN RICHIEDE ED IMPONE che l'insieme A={100} abbia qualità inferiore all'insieme B={100, -50}!! Assurdo? Esatto. E qui ricordo di nuovo ad MM, ed altri, che un assioma non è buono perché funziona in qualche caso ma è buono se non esiste alcun caso in cui l'assioma renda risultati assurdi! È una questione di quantificatori, e di logica, appunto!

Scrive MM:

 

2) Tu dici che a me piace il max, cosa che non è vera. Di nuovo, se scrivo un paper con 100 citazioni e uno con 50 secondo me è meglio che se ne scrivo solo uno con 100, e se ne scrivo due da 100 è meglio che se ne scrivo uno solo. Mi cadono le braccia a dover chiarire queste cose.

 

E poi ancora:

 

Chiarisco che io non ho proposto il max come criterio: quello era solo l'uso da parte di Michele di un noto artificio retorico (attribuire all'interlocutore  una cosa X che non ha detto e poi attaccare X per denigrare l'interlocutore).

 

FALSO due volte, perché, il 4/1/2011, MM era entrato in questa discussione argomentando:

 

Sul punto specifico, personalmente la proprietà proposta da Denicolao mi sembra più che accettabile, mentre la media mi sembra inaccettabile (intesa come indice di qualità).

 

Che altro non è che un peana per il "max" come criterio di valutazione della qualità! Alla faccia dell'esercizio retorico attribuito, falsamente, a me.

E poi, tanto per convincerci che davvero non ha inteso, aggiunge:

 

Comunque, nel contesto di esempi estremi (parti con una cosa geniale e poi solo minchiate), ogni articolo successivo a quello geniale abbassa la media.

 

Appunto! E la media, o la moda, o qualche momento di quel tipo, ci indicherebbe correttamente che questo signore probabilmente NON è il genio che il suo primo pezzo suggeriva! Quindi, se l'abbiamo promosso e gli abbiamo aumentato lo stipendio a suo tempo, non è più il caso di farlo perché sta facendo danno e la sua media, invece di salire, cala. Criterio, btw, che ovunque io abbia avuto modo di partecipare a riunioni dove si discuteva di promozioni, è usato. Non da solo, ma è usato. E lo usano tutti i Promotion and Tenure Committeee che io conosca. Perché? Perché ti interessa sapere DOVE uno sta andando!

Ma non solo, come evidenziato da altri il problema qui è di creare un criterio che misuri qualità in un contesto preciso, ossia quello dell'università. L'assurdo criterio che GdeN suggerisce ed MM ama così tanto implica, per esempio, che:

se A è un dipartimento con 3 persone, ognuna delle quali ha pubblicazioni per un "valore sociale" (misurato come volete, non fa differenza alcuna) di 100, e B è lo stesso dipartimento con 6 persone, le 3 precedenti e 3 nuovi raccomandati ognuno dei quali ha un valore sociale di 0 (o di -10 perché sono i fratellastri del Trota), allora Q(B) DEVE essere maggiore o uguale di Q(A) semplicemente perché B include A! Aggiungendo tre trote, ci spiega il GdeN, la qualità del dipartimento non può diminuire!!!

Ma siamo pazzi?

Nota: se con A intendiamo il ricercatore sino ai 35 anni e con B intendiamo lo stesso ricercatore ai 55 anni, non cambia nulla e vale lo stesso: risultati assurdi!

Ma nonostante le tirate sui matematici e la soggettività (ma per favore!), alcuni lettori sembrano aver colto il punto. L'ha colto Luigi, osservando che, fra max e mean, la seconda offre maggiori incentivi per continuare a produrre, che è ciò che ci interessa. Di nuovo, il problema non è che mean è un buon criterio tutto da solo. Il problema è che il criterio di ammissibilità di GdeN conduce a incentivi folli! E di questo si sta discutendo.

Ed infine, scrive Luca la Rocca

 

Valutare un ricercatore sulla base del numero medio di citazioni lo indurrebbe a pubblicare solo quando ritenesse di fare meglio che in passato: non mi sembra il migliore incentivo possibile. Se invece il ricercatore può scegliere quali pubblicazioni mettere in gioco, allora lo si sta valutando sulla base del numero di citazioni ricevute dal suo articolo migliore: mi sembra più utile ad assegnare un posto nella storia che ad attribuire uno stipendio. All'altro estremo c'è il semplice conteggio delle pubblicazioni (che tiene conto solo della quantità e ignora completamente la qualità). In medio stat virtus? Con tutti i limiti, si intende, che l'uso delle citazioni per misurare l'importanza di un articolo porta con sé.

 

Appunto.

P.S. Tralascio la polemica sull'ideologia. Se MM non vuole capire che GdeN si è inventato il suo criterio solo per evitare di discutere i numeri che infastidiscono la sua tesi, non ci posso fare nulla. Ma così è, e per questa ragione, solo per questa ragione, ho criticato l'assurdo criterio proposto: perché era pretestuoso.

Ed ho davvero chiuso, per parte mia e non senza un certo rammarico, questa discussione.

 

 

 

FALSO. Il commento in cui GdeN fa l'affermazione imputata si sta occupando, nella parte in questione, non di individui, ma nemmeno di dipartimenti o facoltà o università. No: si sta occupando addirittura di paesi. Tanto per tagliare la testa al toro, faccio cut and paste:

 

Se vuoi davvero giocare con le parole e fare il precisino, sbagli anche tu: la parte che tu tronchi nella tua citazione di DeNicolao, nella parte in questione, e':

 

Ho qualche perplessità sull'uso del rapporto citazioni/pubblicazione nella compilazione di classifiche sia a livello individuale che collettivo. Mi spiego attraverso due paradossi:

1. Lo scienziato A scrive 10 articoli che ricevono globalmente 100 citazioni a testa. Lo scienziato B scrive 20 articoli. I primi 10 articoli di B ricevono 100 citazioni a testa mentre i secondi 10 ne ricevono 50 a testa. Se uso come criterio di qualità il rapporto citazioni/pubblicazione A risulta migliore di B pur avendo scritto meno articoli ed avendo ricevuto meno citazioni. Un evidente paradosso, reso ancora più evidente se ipotizziamo che i dieci articoli di A siano scritti in collaborazione con B. In tal caso A è completamente dominato da B perché l'insieme degli articoli di A è un sottoinsieme di quelli di B.

[segue esempio che riporti tu]

 

Gli esempi numerici spiccioli che si sono fatti, a partire da quello che riporto qui sopra, continuando con il mio su Francis Crick, e con un altro di Denicolao che confrontava due coautori, considerano valutazioni individuali. E' in questo senso che intendevo la discussione, e il disaccordo, basato in primo luogo sulle valutazioni individuali. Se non ci si riesce a mettere d'accordo sul significato di un indice individuale, non vedo che beneficio si possa avere a complicare la discussione ulteriormente.

Ti autociti con questa frase:

 

insomma misuri valori estremi o totali, che sono pessimi indicatori della qualità di un insieme perché non tengono in conto l'effetto size, la varianza, le code della distribuzione, eccetera.

In generale tale assioma produce risultati assurdi perché esclude gli indici più ovvi di qualità, come la media, per esempio.

 

Il criterio di monotonicita' proposto e' compatibile con una quantita' enorme di indici, che vuol dire che 'misuri valori estremi o totali'? Mi viene il dubbio che tu proprio non capisca gli aspetti analitici della questione. La mia impressione e' rafforzata dal fatto che piu' sotto dici

 

MM era entrato in questa discussione argomentando:

 

Sul punto specifico, personalmente la proprietà proposta da Denicolao mi sembra più che accettabile, mentre la media mi sembra inaccettabile (intesa come indice di qualità).

 

Che altro non è che un peana per il "max" come criterio di valutazione della qualità! Alla faccia dell'esercizio retorico attribuito, falsamente, a me.

 

Si', penso che tu non abbia capito. Se vuoi approfondire, ti suggerisco il post di Malpassotu e le referenze therein.

Comunque basta: mi stai leggendo solo tu, temo, hai gia' detto (2 volte) che non risponderai, e i lettori a questo punto si saranno gia' fatti un'ottima idea del modo di argomentare e della lucidita' dei vari interlocutori. Lasciamo la questione, per cosi' dire, 'al mercato'. Spero che su questo, almeno saremo d'accordo. Ciao, e al prossimo incontro casuale in aeroporto.

 

ti suggerisco il post di Malpassotu e le referenze therein.

 

Yup. Infatti ... l'hai letto? Sino in fondo, intendo, e senza farti abbagliare dai complimenti?

È proprio vero, la matematica non basta impararla, occorre anche capirla e capire quale usare e quando. Conosci, vero, la storia di quello con il martello per cui ogni problema è un chiodo?

Ciao, ciao. Buon anno.

Sto faticosamente studiando il testo approvato della Legge Gelmini. La mia prima (e forse seconda) impressione è che si tratti di una accozzaglia di buoni propositi, principi ispiratori appesi al nulla, norme confuse  contraddittorie, e in parte ripetitive. Ho anche l'impressione che il nuovo sistema  di reclutamento e promozione disegnato dalla legge rafforzi il localismo. Sono scomparse tutte le, sia pur deboli, disposizioni del DDL che cercavano di contrastare il localismo. Direi che complessivamente il parlamento ha peggiorato il DDLl originario, che, al contrario dei DDL Moratti, era tecnicamente coerente. Tutte queste sono prime impressioni. Sto cercando di scrivere un commento completo per il Notiziario dell'Unione matematica Italiana, del quale vi fornirò il "link" quando il mio commento sarà uscito in forma elettronica.

Mandalo anche a noi, se non ti dispiace. Può apparire in contemporanea.

Questo thread sta diventando infinito e pesantissimo da scaricare. Di fatto, la pagina legata a questo articolo si sta usando più come "forum" su università in generale che per commentare il contenuto dell'articolo, come di costume ed intenzione.

Lungi da noi censurare chiunque, però questo non è molto efficiente.

Suggerirei di lasciar morire questo thread, altrimenti diventa illeggibile.

Chi ha idee/proposte specifiche ed articolate da fare, invii tranquillamente un articolo.

Se c'è domanda per avere un forum continuato e di "buon livello" su università, fateci sapere e vediamo se è fattibile nel sito nuovo che è in fase di avanzata costruzione ...

Rinnovo l'invito ad offrirsi volontari per monitorare l'ANVUR. Ho ricevuto tre volontari sino ad ora, ne servirebbero decine per coprire bene le varie aree. Chi ci sta mi scriva: fatti, non parole.

Per parte mia, mi scuserete ma d'ora in poi dedico l'attenzione a post e dibattiti più recenti, oltre che cercare di scrivere qualcosa di mio. Quello che volevo chiarire, in questa sede, credo proprio (nel bene o nel male) d'averlo chiarito. Mi dispiace se ho pestato qualche callo, ma capita quando la stanza è affollata ...