Una critica al programma di riforma dell'universita'

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Il "Programma riforma università" proposto su questo sito alcune settimane or sono contiene molti suggerimenti condivisibili, anche se il taglio liberista viene in qualche occasione tradito da proposte dirigiste.  Va rilevata l'assenza di idee sulla necessità di cambiare il tipo di governo delle università, oggi del tipo democratico-corporativo, del tutto inefficiente se - come viene suggerito - dovesse gestire una completa autonomia nel reclutamento dei docenti e dei loro livelli di stipendio.

Il ""Programma riforma università"  proposto è molto dettagliato: dopo una introduzione di carattere generale, nel quale si fa una analisi dei problemi universitari, e si tracciano le linee generali sulle quali muoversi, in tre diversi successivi capitoli vengono indicati i provvedimenti auspicabili, divisi per scadenze temporali.  Mi sono addentrato nello studio di questo programma e qui di seguito riporto alcune mie considerazioni, a partire da quanto è scritto nella parte dedicata a tracciare le linee generali di tendenza.

Quale universita'?

Al punto b) viene scritto: "riteniamo inevitabile una diversificazione del sistema universitario, con un decentramento delle lauree di primo livello in college locali ed una concentrazione dell’insegnamento a livello di dottorato di ricerca e della ricerca in un numero relativamente ridotto di sedi". Questo dovrebbe essere molto di più  che un generico auspicio,  ma costituisce - ad avviso di chi scrive - la base indispensabile sulla quale costruire una riforma dell'università;  mi soffermerò su  questo punto.

Nel percorso intrapreso negli anni '60 - il passaggio da una università di élite ad una di massa - si è scelta, ambiziosamente e senza valutarne le implicazioni, la strada di offrire a tutti la stessa formazione superiore. Ne segui' una proliferazione di università e poi addirittura di sedi "distaccate", tra loro "uguali" (o presunte tali) essendo soggette alle stesse leggi, e popolate da studenti non selezionati  e da docenti reclutati nello stesso modo. La perversa idea di dare la stessa istruzione (ciò forse in relazione ad un male inteso concetto di democrazia) a tutti si è riverberata nelle scuole medie superiori. Gli Istituti Tecnici, una volta fiore all'occhiello della istruzione professionale, hanno diminuito le ore spese nei laboratori e sono diventati parodie dei Licei classici e scientifici: questo è quanto si deduce dalla lettura di un rapporto della Commissione Bertagna, voluta, all'epoca, dal Ministro Moratti. E non vi è ragione per dubitarne, viste le conseguenze che, a distanza di molti anni, stiamo verificando: infatti, gli errori nel campo dell'istruzione (così come  stiamo verificando in altri settori chiave di un Paese) si scontano dopo molti anni.  

Abbiamo oggi una massa di giovani sbandati, che hanno fatto degli studi molto superficiali, e che però disprezzano il lavoro "manuale" o "artigianale", contrapposto al lavoro "intellettuale". Genitori che auspicano per i figli il "pezzo di carta", viatico per un "posto" dietro una scrivania, più o meno retribuito. Così è difficile trovare meccanici, tornitori, falegnami, ed i pochi, preziosi   artigiani sono in gran parte vecchi "ad esaurimento", non avendo personale giovane in grado di succedere loro  nel lavoro. Di contro, una massa di giovani disoccupati, molti dei quali non cercano più nemmeno un lavoro.

Parallelamente, le università sono appesantite da una massa di studenti in maggioranza scarsamente formati, ed inadatti al tipo di studio che viene proposto. E' quindi stonata l'affermazione semplicisticamente riportata al punto c) (seguente al b), sopra menzionato) con la quale si richiama la necessità di aumentare il numero degli studenti e di abbreviare i tempi per conseguire il titolo accademico. Anche se è un obbiettivo altamente desiderabile, esso è particolarmente lontano, e difficilmente può essere perseguito nella  realtà attuale.

Il lamento sulla durata degli studi e la scarsità dei laureati è una litania che sentiamo ripetere da più di un decennio, ed ogni tentativo di migliorare la situazione è stato frustrato dai risultati.  Oggi osserviamo addirittura una inversione di tendenza, la diminuzione delle matricole universitarie.

Le cause di quel che accade sono molte e provenienti da lontano.  A puro fine di esemplificazione,  proverò ad enumerarne alcune:       

  • le scuole medie superiori sono carenti, e non operano orientamento e selezione
  • molti studenti non hanno la vocazione per il tipo di insegnamento impartito nelle università, che è (o dovrebbe essere) teorico-formativo. 
  • la didattica universitaria è particolarmente inefficace; si intrecciano consuetudini, mancanza di incentivi per i docenti, strutture ed (dis)organizzazione.
  • molti studenti hanno scarsi  incentivi al conseguimento del titolo di studio.

Ho solo menzionato quello che viene immediatamente alla mente: l'elenco è sicuramente molto più lungo, ed illudersi che la situazione possa cambiare senza rimuovere le molteplici cause - rivoluzionando (quanto meno) il sistema dell'istruzione, dalla scuola media alle università -  è pura utopia.

Concludo osservando che i due punti menzionati nel documento - ai quali viene data poca enfasi - sono tra loro strettamente collegati. Un maggior numero di studenti che chiamiamo per comodità "universitari",  è compatibile esclusivamente con l'esistenza di scuole superiori che non siano "orientate alla ricerca". Lo stesso vale per un abbreviazione dei tempi nei quali si può conseguire la "laurea": oltre ad un miglioramento nella qualità didattica è essenziale che gli allievi siano ragionevolmente motivati ed abbiano una preparazione adatta al tipo di studio che viene proposto.

Le università italiane sono cresciute nella dimensione e nel numero mantenendo (per quanto possibile, o almeno nelle intenzioni) la vocazione originaria, tipica delle università di élites. Docenti formati e selezionati nella ricerca, insegnamento lontano dalle esigenze del singolo studente, poco tempo dedicato alle esercitazioni ed agli aspetti pratici,  e ad i colloqui con gli studenti.

In altre parole non si è voluto (o forse neanche percepito) quello che è il principale nodo da sciogliere per dare un indirizzo all'insegnamento superiore:  se l'insegnamento deve essere orientato essenzialmente a preparare quadri per il lavoro, o produrre e diffondere la cultura necessaria a formare una classe dirigente. 

Nei paesi avanzati il dilemma è risolto con l'istituzione di scuole superiori tecniche e professionali, che operano in parallelo alle università. Negli USA, paese al quale è d'uso riferirsi, le migliaia di università sono per la maggior parte modeste scuole professionali, altre sono volte ad approfondire la cultura generale, senza avere la pretesa di preparare alla ricerca.   Le pochissime, prestigiose università, che si trovano sempre nei primi posti delle classifiche mondiali sono quelle orientate alla ricerca, ed in esse  si forma la classe dirigente del Paese. Esse inoltre accettano solo studenti altamente motivati e con una eccellente preparazione.

Paragonare queste università con quelle del nostro Paese, università che si pretende siano "tuttofare", capaci cioè di insegnare un mestiere nei corsi triennali e nello stesso tempo formare alla ricerca attraverso i corsi di dottorato, è semplicemente una sciocchezza, che indica una tragica scarsezza di idee e di conoscenza dei problemi: la crisi nella quale versa l'università italiana è il risultato della povertà  di idee della classe politica del Paese. 

I professori a tempo parziale

Nel "Programma" menzionato seguono una serie di proposte concrete formulate in tre diversi capitoli, specificati  come "interventi" di breve, medio e lungo periodo. Alcuni mi trovano in pieno accordo: rendere accessibili a tutti  i dati  in possesso del Ministero sui curricula ed attività scientifica dei professori universitari, cercare di attuare al meglio la "valutazione" dei docenti e delle università. Valutazione che gli ultimi avvenimenti - la contestazione in sede giudiziaria dei metodi messi in piedi dall'ANVUR - hanno dimostrato quanto sia difficile da realizzare.  

Il punto che contiene  la proposta di "ridurre drasticamente" gli stipendi  di quei docenti che svolgono la libera professione, mi è poco comprensibile.  A parte il fatto che la riduzione drastica c'è già  (da poco meno di quaranta anni  il docente a "tempo definito" prende uno stipendio decurtato del 40%),  il dibattito sull'attività nelle professioni, durato decenni, e l'esperienza hanno dimostrato che non esiste un assetto razionale sulla carta in grado di soddisfare le mille sfaccettature del problema. L'attuale situazione rappresenta forse il miglior compromesso realizzabile nella realtà attuale. Non esiste infatti un controllo efficace sul lavoro dei docenti: personalmente ho conosciuto docenti a "tempo parziale" che lavorano moltissimo per l'istituzione. Così come ho conosciuto docenti nullafacenti a "tempo pieno".   Come in molti altri casi, la soluzione è quella di creare un ambiente nel quale  sia impossibile lavorare poco e male o addirittura fare svolgere il lavoro da altri.  Alludo al pessimo costume praticato fortunatamente da pochi docenti di farsi sostituire sistematicamente  alle lezioni e non frequentare se non saltuariamente l'università.

Così, la diatriba sul "tempo pieno" dei docenti va avanti da moltissima anni.  Di certo, non si può recidere il cordone che lega l'insegnamento alle professioni; ed il problema non si risolve con nuove regole, ma con la creazione di un ambiente universitario nel quale il controllo effettuato dai colleghi sia efficace e reciproco, guidato dal comune interesse verso l'istituzione.

Il conflitto di interessi nella gestione del personale

Nel punto che segue vi è la proposta di "incentivare" l'assunzione di ricercatori, a scapito della "promozione" dei docenti già in servizio.  Pienamente condivisibile,  la proposta nasce direttamente da uno dei danni prodotti negli ultimi anni dalla autonomia.

Ciascun ateneo è stato libero di scegliere come allocare fondi disponibili: ed essendo chiamati a decidere gli stessi docenti, questi hanno (razionalmente) scelto di impiegare le risorse per promuovere il personale già in servizio, ovvero se stessi. Da qui l'aumento abnorme del numero dei professori di prima fascia avuto nell'ultimo decennio.

Quanto accaduto è un perfetto esempio del conflitto di interessi nel quale si trovano i docenti universitari quando sono chiamati ad "amministrare" il proprio ateneo. Quindi, se è più che giusto "incentivare" l'assunzione di ricercatori, sarebbe opportuno approfittare dell'occasione per discutere sulle implicazioni dell'autonomia degli atenei, e tentare di rimuovere le cause del conflitto di interessi nel quale si trovano coloro che amministrano le università.

Il numero chiuso

Tra le proposte che vengono indicate come da realizzare nel medio periodo - riguardanti  la didattica ed il finanziamento - colpisce una in particolare: "stabilire il numero massimo di studenti per corso di laurea". La lettura lascia interdetti;  moltissime proposte hanno come sottofondo maggiore autonomia, minore dipendenza da vincoli burocratici. Alla luce del tono generale del documento, questo punto è incomprensibile: chi dovrebbe essere, il Ministero a stabilire il numero suddetto, valido, tra l'altro per ogni ateneo? E su quale base? Su quella di un piano quinquennale di laureati in una certa disciplina? E' una proposta, a dir poco incomprensibile, almeno nei termini nella quale è espressa: forse si vuole solo indicare che ciascun corso di laurea dovrebbe prevedere un numero massimo di allievi.

Il valore legale 

Seguono due punti che riguardano la flessibilità dei curricula degli studi e gli esami di abilitazione alle professioni, e sono strettamente interconnessi.

Attualmente, una certa rigidità nei curricula degli studi trae origine dal "valore legale" del titolo di studio. Ed è sbagliato cancellare questa garanzia (che può benissimo essere giudicata insufficiente) senza rivedere profondamente gli esami di abilitazione alle professioni, e - di conseguenza - il ruolo che svolgono in essi  gli ordini professionali. In breve, senza un complessivo riordino del sistema, il tasso di sperimentazione dei curricula degli studi, già elevato in ragione dalla autonomia universitaria,  è da ritenersi più che sufficiente, e forse eccessivo.  Infatti, gli esami di abilitazione alle professioni sono - capricciosamente -  risibili in alcuni casi e severi in altri, senza che tale difformità trovi corrispondenza sulla responsabilità sociale che grava in misura diversa sulle singole professioni. Anche la stessa esistenza degli ordini professionali dovrebbe essere messa in discussione; per fare un esempio classico, è difficile comprendere l'utilità di un ordine dei giornalisti.  Le indicazioni date vanno nella direzione giusta: il problema è molto ampio, ed investe realtà che si trovano fuori dal perimetro  accademico.

Il reclutamento, gli stipendi

Le parti sui finanziamenti e sul reclutamento  contengono  proposte  emblematiche sulla distonia esistente nel documento tra autonomia, dirigismo e governo delle università. "Si propone di autorizzare le università la possibilità di concedere premi ed incentivi monetari ai docenti.....". Ora, una tale marcia verso la liberalizzazione del rapporto di lavoro tra docenti e istituzione,  che verrebbe completata da  quanto espresso  tra le proposte di lungo periodo (liberalizzazione degli stipendi e delle procedure di reclutamento dei docenti)  avrebbe un senso se a decidere su queste materie fosse una amministrazione che rappresenta la proprietà dell'università. Ma quando l'amministrazione non è altro se non una rappresentanza dei docenti, ed è legittimata dal voto, il tutto andrebbe a beneficio dei grandi elettori della nomenklatura in carica. E' quello che avviene già (ad esempio) in una certa misura per i fondi di ricerca, ed è impossibile capire per quale motivo un sistema giudicato "torbido" da tutti i critici dell'università dovrebbe diventare "limpido" se investito della responsabilità di modulare gli stipendi e decidere sulle assunzioni.  

Anche la maggiore libertà degli atenei nel decidere gli ordinamenti (ovvero gli Statuti) oggi compressa dalla legge Gelmini porterebbe a riproporre l'attuale situazione nella quale si perpetuerebbe la autonomia autoreferenziale degli atenei. Ma è proprio giusto aumentare la libertà del sistema senza bilanciarla in qualche modo,  visti i risultati? 

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Le proposte contenute nel documento qui discusso sono interessanti, anche per i molti aspetti che affrontano. Molte delle proposte sono condivisibili; non possiamo tuttavia astenerci da una critica generale, che riguarda la mancanza di coerenza per alcuni fondamentali aspetti.

Le "liberalizzazioni", che peraltro non investono tutti i settori - di tanto in tanto fanno capolino norme dirigiste - non sono accompagnate da proposte che modificano il  governo della università.  Non vi è alcun suggerimento che tenda a modificare il  sistema democratico-corporativo  oggi in vigore negli atenei, secondo il quale il Rettore, ed il gruppo dirigente rispondono unicamente ai propri elettori. Questo aspetto rende del tutto incongruenti le proposte volte ad una "liberalizzazione" di stipendi e reclutamento:  se attuate determinerebbero un peggioramento dell'esistente. E la libertà di scegliersi in futuro nuovi ordinamenti da parte delle università - se ne può essere certi - non farebbe che riproporre l'attuale schema di governo, nel quale i docenti sono anche - per delega dei colleghi - amministratori, che operano molto spesso in conflitto di interessi.

Qualsiasi istituzione deve essere retta con un sistema nel quale esistono governanti, ma anche controllori indipendenti. E' quello che accade in tutte le università USA, pubbliche e private, nelle quali Rettori e Consigli di Amministrazione non sono eletti tra i docenti. Così esiste in quelle università un continuo confronto  tra le esigenze scientifiche e didattiche, delle quali sono portatori i docenti, e quelle di una buona amministrazione: l'efficacia di questo confronto è uno dei motivi del loro successo. 

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Commenti

Ci sono 14 commenti

visto che il clima in questi giorni lo impone ...

Ribadisco la mia critica, affine a quanto avevo già fatto notare in tema di riforma della giustizia.

Le riforme proposte (per ora) in ambito FID/NFA suonano un po' troppo centraliste, quasi dimenticassero che tra i 10 punti c'è il decimo e che non è messo li' per scherzo o come specchietto per le allodole.

In ambito di federalismo, soprattutto vero, l'educazione dalle elementari all'università è prettamente locale (dicasi "statale", che in ambito federale implica il membro, non il livello nazionale) e quindi dovremo assistere ad una rosa di proposte, di attuazioni, di esperimenti. E quindi ad un processo di miglioramento continuo prendendo spunto dai casi migliori.

Credo anch'io che le università, visto il bacino d'utenza, potrebbero essere di responsabilità regionale. Almeno quelle destinate prevalentemente alla didattica.

Fermo restando la possibilità di stabilirne alcune di specializzate a livello nazionale.

  Io sarei molto cauto nel definire l'educazione come questione locale. Se ci riferiamo a scuole professionali, medie o superiori, si deve essere d'accordo. Ma se ci riferiamo a scuole di formazione generica o di università con vocazione alla ricerca, sarebbe opportuno ragionare su scala nazionale. Purtroppo, se si guardano i risultati dei test PISA si scopre che una "regionalizzazione" delle scuole medie e superiori esiste già. E non è motivo del quale rallegrarsi.