Cosa succede alla "quota del lavoro"?

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Aumenta, secondo la relazione annuale della Banca d'Italia.

Il 31 maggio la Banca d'Italia (BdI) ha pubblicato la Relazione Annuale sul 2010, un'analisi sull'economia italiana e internazionale nell'anno precedente. Un amico (gran cosa gli amici attenti per quelli disattenti come me :-)) mi ha fatto cadere l'occhio sulla dinamica recente della quota del lavoro sul PIL al costo dei fattori. Come forse ricorderete io e Antonella Stirati abbiamo dibattuto a distanza su nFA e su economia e politica, rispettivamente, circa la dinamica di questa quota. Ho iniziato io qui, lei ha replicato qui, io ho risposto qui e infine lei è tornata sull'argomento qui. In questo periodo non ho purtroppo il tempo per un ex-Kathedra ben documentato e argomentato e mi limito a un'osservazione ispirata dagli ultimi dati della BdI. Mi riprometto di fare in futuro il post più approfondito, allargando la discussione alla distribuzione secondaria (dopo tassazione e trasferimenti, cioé) dei redditi -- che continuo a ritenere quella rilevante per capire la dinamica della disuguaglianza e del potere d'acquisto delle famiglie.

L'osservazione è questa: calcolando la quota del lavoro sul PIL al costo dei fattori e attribuendo ai lavoratori autonomi il reddito da lavoro dipendente medio (privato e pubblico, quindi) la BdI stima che la fetta di prodotto che va al lavoro è cresciuta 2,6 punti percentuali tra il 2002 e il 2010. La tendenza è uniforme tra i principali macrosettori, con qualche eccezione all'interno del settore servizi (finanza e settore pubblico, essenzialmente). Il dettaglio è disponibile nella Tavola a9.5, parte della quale riporto qui sotto (ogni colonna è un anno diveso: il primo anno è il 2002, l'ultimo il 2010).

quota dei redditi da lavoro, da relazione annuale banca d'italia, maggio 2011

Questo aumento era evidente già nelle figure che io e Antonella avevamo riportato nei rispettivi articoli. Cosa c'è di nuovo, quindi? I dati aggiornati, intanto, che confermano che nell'ultimo decennio non c'è traccia di riduzione della quota di prodotto che va al lavoro, anzi c'è un aumento di oltre due punti e mezzo. Antonella afferma:

Se infatti la redistribuzione del reddito è avvenuta e ha dimensioni rilevanti, ne discendono problemi di equità e coesione sociale, e anche conseguenze macroeconomiche negative per l’andamento dei consumi, e quindi della domanda aggregata e dell’occupazione.

Se applichiamo questa logica (cioé quella della lettera degli economisti) agli anni 2002-2010 dobbiamo concludere che nell'ultimo decennio in Italia i problemi di equità e coesione sociale sono diventati meno gravi e che ci sono state conseguenze positive su consumi, domanda aggregata e occupazione. Sappiamo che non è andata esattamente così, il che suggerisce che l'impianto teorico della lettera degli economisti ha, per lo meno, qualche difficoltà a replicare i fatti che osserviamo.

La seconda cosa che vale la pena sottolineare è che in questi dati vediamo l'effetto della crisi sulla quota dei redditi da lavoro. È un fenomeno noto a chi si occupa professionalmente della questione "variazioni cicliche nella distribuzione funzionale del reddito" (ha anche un nome: labor share is countercyclical) ma tranquillizza vedere come si ripeta ad ogni recessione. Nel 2009 la quota del lavoro riportata dalla BdI è aumentata in pressoché tutti i settori. Nello stesso anno, come sappiamo il PIL italiano si è ridotto di oltre il 5%. Quindi il lavoro ha preso una fetta un po' più grande di una torta considerevolmente più piccola. L'anno successivo (2010) la quota lavoro è di nuovo aumentata nel settore costruzioni (dove la torta ha continuato a rimpicciolirsi e di parecchio) e si è un po' ridotta negli altri settori (dove la torta ha ripreso molto lentamente a ingrandirsi). Questo implica che in Italia la crisi ha colpito i redditi da lavoro meno duramente degli altri tipi di reddito, un fatto che riflette le istituzioni del mercato del lavoro italiano e non la (non) politica economica del governo negli anni della crisi -- ricordate che stiamo parlando di distribuzione primaria.

Non so dire se questo è un bene o un male (dal mio punto di vista è un bene visto che vivo di solo reddito da lavoro), ma di sicuro si tratta di un fatto da tenere a mente quando commentiamo gli effetti della crisi sui lavoratori, le imprese ed il sistema Italia in generale.

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Commenti

Ci sono 18 commenti

 

l'impianto teorico della lettera degli economisti ha, per lo meno, qualche difficoltà a replicare i fatti che osserviamo.

 

A me sembrava che più che l'impianto teorico fosse campata per aria la base empirica della lettera degli economisti. Si parlava ad esempio di fenomeni come i debiti al consumo che compensavano per la perdita di "share" delle retribuzioni. Questi fenomeni non si sono verificati in Italia. Insomma era una storiella di facile presa che non corrispondeva alla realtà italiana. Per questo mi è sembrato strano che gli economisti di NfA invece di smentire la storiella, ed eventualmente raccontare una diversa storia, concentrassero le loro critiche sul "modello teorico". In questo modo la "storiella" priva di base empirica ha continuato a circolare tra i non addetti ai lavori senza essere direttamente contestata.

 

Si parlava ad esempio di fenomeni come i debiti al consumo che compensavano per la perdita di "share" delle retribuzioni. Questi fenomeni non si sono verificati in Italia. Insomma era una storiella di facile presa che non corrispondeva alla realtà italiana.

 

certo, ma posso aggiungere? nella mia ignoranza, non sono mai riuscito a capire nemmeno il nesso logico fra perdita di "share", ove si sia verificato, e l'aumento dell'indebitamento privato.

perchè uno si indebiti, non basta che lo voglia lui ma occorre trovare un prestatore che sia daccordo nel ritenere tale debito sostenibile. non è stata certo una decisone politica il credito facile, anche se col senno di poi la decisone di mantenere bassi i tassi a breve ha influito. in definitiva, la politica ha plaudito senza dubbio i nuovi e lassi criteri di valutazione creditizia, ha cercato di prendersene il merito, ma non li ha certo creati lei.

sono stati gli scafatissimi, fino ad allora, prestatori ad aver sbagliato la misura, senza che lo "share" c'entrasse nulla.

 

La critica e' stata anche empirica, Sandro, vedi sotto la mia risposta a Alberto Mirenghi.

Francamente sono un po' deluso. La Lettera filo-keynesiana dei 250 economisti in questi mesi ha attecchito nel dibattito ed è diventata anche l'interpretazione prevalente di certi partiti (penso al Programma nazionale di riforma del PD pubblicato recentemente) anche perché (secondo me) non è stata sempre criticata in modo efficace. Apprezzo Zanella che si è messo generosamente a disposizione, ma prendere i dati italiani per criticare l'interpretazione di una Lettera che spiegava la crisi mondiale non mi sembra un punto di attacco convincente. Come si vede dalla discussione tra Zanella e la Stirati i dati sulle quote lavoro OCSE sono chiari, e ci dicono che nella grande maggioranza dei casi in un trentennio sono cadute.

Secondo me l'attacco andava portato a livello teorico. Io non sono tanto convinto che, come molti dicono, il modello Keynesiano-Sraffiano che starebbe alla base di quella Lettera sia superiore ai modelli del ciclo economico reale. 

Resta il fatto che oggi abbiamo un PD ricaduto nel gorgo socialdemocratico e marxisti che imperversano sulla Radio del Sole 24 Ore e vengono omaggiati in Bocconi.  Le fasi politiche dipendono da tanti fattori, ma da liberista mi chiedo: non è che abbiamo sbagliato strategia?

 

 

Secondo me l'attacco andava portato a livello teorico.

 

 

Sarà. Mi sembra strano però che si parli  di raffinati "modelli" per sostenere proposte politiche. Non c'è bisogno di conoscere né di capire le leggi di Keplero per usare un calendario.

Infatti il pregio propagandistico della lettera degli economisti era quello di raccontare una storia con qualche aspetto di credibilità, che comunque finiva per essere consolatoria per la maggioranza dei lettori, cioè i lavoratori dipendenti che risultavano vittime dell'ingordigia dei capitalisti. Per un ignorante di economia, come me, l'aspetto meno credibile della storiella è che non si applicava affatto all'Italia e che quindi non poteva dar luogo a conclusioni su che cosa si dovesse fare in Italia. Raccontare una storia su come si è sviluppata la crisi a livello internazionale per poi dedurre qualcosa che di dovrebbe fare in Italia, un paese afflitto da un enorme debito pubblico, mi sembrava abbastanza privo di senso. Il semplice buon senso, senza ricorrere a modelli, ci direbbe che se lo stato è pieno di debiti che gravano sul bilancio con interessi non negligibili, la priorità è spendere il meno possibile per restituire i debiti. Chi propone qualcosa di diverso dovrebbe esprimere un ragionamento semplice comprensibile da chi  non è un economista, e non raccontare una storiella su come è originata la crisi negli SU. Ci sono differenze macroscopiche tra la società italiana e quella degli USA. Non è solo la maggiore o minore consistenza del debito o risparmio privato. Ad esempio in Italia si può bene acquistare una automobile a rate, aumentando il debito privato. Ma a nessuno verrebbe in mente di utilizzare la "equity" (differenza tra valore della casa e capitale residuo sul mutuo) sulla casa per acquistare un'atomobile. La differenza qualitativa dei due debiti così contratti è macroscopica. In un certo senso l'idea di usare la "equity" è più efficiente e probabilmente determina tassi di interesse inferiori, ma ha finito per legare tutto alla "bolla immobiliare". Ma insomma da ignorante: negli USA c'è stato un problema di eccessivo debito privato, in Italia c'è un problema di eccessivo debito pubblico. E' evidente che a problemi diversi si dovrebbero dare soluzioni diverse.

 

non è che abbiamo sbagliato strategia?

Non so, Alberto. Io personalmente non ho una strategia, da economista empirico mi limito a raccogliere dati che possono aiutare a riflettere su questioni teoriche controverse.

Se il punto e' che la lettera fornisce una spiegazione alla crisi per gli USA, i dati che ho raccolto nel mio secondo post sono sufficienti: li' la quota del lavoro, comunque la si misuri, non mostra alcun trend dal 1990 in poi, mentre questi sono i 20 anni in cui l'indebitamento delle famiglie USA e' aumentato piu' rapidamente. In USA tra le due cose la correlazione, if any, pare molto tenue.

E poi la storia della disuguaglianza e' stata gia' confutata empiricamente da Ed Glaeser per US. L'abbiamo sottolineato piu' volte su questo blog, mica possiamo farlo ogni giorno :-)

dal mio punto di vista è un bene visto che vivo di solo reddito da lavoro

sicuro? 

la fetta di reddito che andrebbe al lavoro potrebbe aumentare anche aumentando il numero dei lavoratori del 10% e diminuendo la retribuzione a tutti del 5%.

Tralasciando il cazzeggio ho fatto alcuni conti con le tabelle B.d.I. QUI

https://spreadsheets.google.com/spreadsheet/ccc?key=0AgiWzew6QeBtdDdrVlBRdXRlczdUSGE0M1FUZXN5Qmc&hl=en_US&authkey=CMSb19ID#gid=0f.i.: la retribuzione lorda reale( Tav a9.1, Tav a9.4)/occupato(Tav a9.8) varia dal 2002 al 2010 di -1,4/;-1,1%;+0,4% a seconda del deflatore assunto. (2 daTav a9.4,uno da Eurostat)

la rertribuzione lorda reale/unità standard di lavoro varia nello stesso periodo di +5,0%;+5,4%;+7,0% sempre con i tre deflatori considerati.(stesse tavole di prima tranne Tav a9.8 poichè u.s.l. sono stati calcolati dai dati di Tav a9.1 e a9.2)

Entrambe le serie mostrano performaces molto peggiori nel secondo semiperiodo (2010/2006 che contiene la crisi) rispetto al primo (2006/2002). Per esempio quello relativo ad occupati fisici che nel periodo dà -1,4% nei due semiperiodi dà +1,4%; -2,8%; quello relativo a unità di lavoro che nel periodo dà +5,0% nei due semiperiodi dà +4,3%; +0,7%; considerando il solo venire meno della leva il +0,7% del secondo semiperiodo diverrebbe -1,0% (+3,3% il totale periodo)  

Se la differenza unità fisiche vs standard consistesse solo nalla normalizzazione del tempo lavorato si potrebbe dire che il primo dato ha rilevanza socioeconomica il secodo solo economica. (molti lavoratori avrebbero bisogno di lavorare di più) 

Ma le differenze sono notevoli come emerge dal glossario allegato al rapporto della B.d.I.:

Unità di lavoro: Definizione della contabilità nazionale utilizzata nella misurazione del volume di lavoro complessivamente impiegato nell'attività produttiva svolta all'interno del Paese, ricondotto a quantità omogenee in termini di tempo di lavoro. L'unità di lavoro in unità standard (o «occupati equivalenti») esclude i lavoratori equivalenti in CIG e comprende il contributo dei militari di leva, dei lavoratoriirregolari, degli occupati non dichiarati, degli stranieri non residenti e dei secondi lavori.


 

Allora si puo ricordare per esempio che circa 300 ku.s.l. relative ai militari di leva sono scomparsi dal 2008, che le rilevazioni della forza lavoro non sono omogenee in un periodo "così lungo", anche se probabilmente la differenza maggiore la fanno i cassaintegrati; la validità del dato relativo al numero di lavoratori fisici dipende se nei redditi globali di lavoro dipendente sono o meno compresi gli assegni di C.I.G. Penso non lo dovrebbero essere a meno che i contributi a fronte della C.I.G. non fossero computati nel PIL e fossero come accrued e contati quando dispensati come assegni; oppure se i contributi a fronte C.I.G. fossero computati ne reddito e gli assegni dispensati solo nelle retribuzioni lorde ( contribuzione e decontribuzione che sincronizzerebbe il sistema); questo sistema sarebbe invariante per il PIL. Guardando i rapporti retribuzioni redditi (tav a9.1) non mi pare venga fatto nulla di tutto questo. Mi interessa la tua opinione: certo che noi italiani abbiamo istituti "esclusivi" che di certo non sono contemplati dagli standard di contabilità internazionali tipo SEC.

 

 

 

 

sicuro? 

Osservazione giusta, Aldo. Un motivo in piu' per guardare ai dati micro.

Infatti un altro motivo per cui non sono sicuro e' che ho fatto un inciso da modello superfisso: il livello delle retribuzioni dipende, abbastanza evidentemente, dalle istituzioni del mercato del lavoro.

 

 

la fetta di reddito che andrebbe al lavoro potrebbe aumentare anche aumentando il numero dei lavoratori del 10% e diminuendo la retribuzione a tutti del 5%.

Abbastanza simile a quello che l'altro giorno Martin Wolf accennava su FT essere successo negli ultimi 2 anni per quanto riguarda i principali paesi Europei, tranne significativamente la Spagna.


Ciao Giulio,

Come tu hai già anticipato, trovo giusto che il reddito autonomo non sia assimilabile al reddito da lavoro dipendente e che comunque il governo ha un ruolo  nella redistribuzione delle risorse (anche se nel caso italiano avrei da ridire a tal proposito) ma penso che la questione sia ben più complessa di quella rappresentata. Innanzitutto, dobbiamo considerare che un aumento della quota lavoro non rappresenta automaticamente un segno evidente di redistribuzione a favore di chi vive di reddito da lavoro ma sopratutto, non è detto che ciò sia un chiaro segno di equa distribuzione del reddito.
Il problema andrebbe affrontato analizzando la variazione del salario medio rispetto a rendite e profitti piuttosto che analizzare la relazione tra quota capitale e quota lavoro. Il perché è piuttosto chiaro: LA QUOTA LAVORO PUÒ AUMENTARE INDIPENDENTEMENTE DAL SALARIO MEDIO IN SEGUITO AD UN AUMENTO DI DEL TASSO DI OCCUPAZIONE E QUINDI DEL NUMERO DI LAVORATORI, VICEVERSA, LA QUOTA CAPITALE PUÒ RIDURSI PERCHÉ SI RIDUCE IL NUMERO DI CAPITALISTI E "RENTIER" INDIPENDENTEMENTE DAL VALORE DELLA RENDITA E/O IL PROFITTO MEDIO.
In altre parole si dovrebbe indagare sul valore del salario medio durante tutto il periodo rispetto al profitto medio e/o alla rendita media.
Per far questo basterebbe affrontare il problema nel modo seguente:
La quota di reddito totale è composta dalla quota lavoro (B) e la quota capitale (C); dove il totale nel periodo iniziale è dato da A1=B1+C1.
Nel periodo successivo avremo: A2=B2+C2, ovvero la quota totale sarà data da A=B1+C1=B2+C2.
La quota lavoro è esprimibile anche come B=xw dove w è il salario medio e x indica il numero dei lavoratori, mentre la quota capitale sarà C=yz con z che indica il profitto medio e/o la rendita media da cui ricavo che

w=B/x e z=C/y.

Ne segue che x1w1+y1z1=x2w2+y2z2;

Quello che dobbiamo verificare è che il valore del salario medio rispetto al profitto medio e/o rendita media sia maggiore alla fine del periodo; il che equivale a dire che:

z1/w1>z2/w2,

esprimibile anche come:

C1/y1*x1/B1>C2/y2*x2/B2.

Dai dati della Banca d'Italia risulta evidente che

C1/B1>C2/B2;

perché la disequazione sia valida basterebbe dimostrare che

x1/y1>x2/y2.

Dal tuo grafico n6 risulta che l'incidenza del lavoro autonomo è diminuita, quindi la precedente relazione è valida.
In conclusione: a prima vista sembrerebbe che Giulio avesse ragione e che ci fosse una redistribuzione a favore del reddito da lavoro ma un'ulteriore riflessione è, a mio avviso, necessaria.
Il salario medio è una misura efficace per dimostrare l'aspetto distributivo e soprattutto indicare le cause della debolezza della domanda aggregata? A mio avviso la risposta è negativa.
Chiediamoci che cosa rappresenta il salario oggi. Sicuramente il lavoro del Signor Zanella va a comporre la quota lavoro ma molto spesso anche un CEO di una grande azienda contribuisce alla quota lavoro a meno che la sua retribuzione non sia composta totalmente da stock option. Ne segue che il salario medio è un indice che comprende il salario di Zanella ma anche una buona parte di quello di Marchionne (per la precisione: una parte del suo stipendio è retribuito con azioni FIAT). Generalizzando, si può affermare che oggi alla quota lavoro non contribuisce solo l'impiegato o l'operaio ma anche la retribuzione di soggetti (di tipo manageriale) che sono i proprietari "de facto" del capitale. La presenza di un certo tipo di retribuzioni, considerato il loro valore rispetto ad altre forme di reddito da lavoro può influire sul valore medio del salario in modo rilevante.
Nel capitalismo moderno la SEPARAZIONE TRA PROPRIETÀ E CONTROLLO NELLE AZIENDE HA RESO DEL TUTTO FUORVIANTE LA DEFINIZIONE DI SALARIO E QUOTA LAVORO. Forse in alcuni paesi dove il capitalismo è rimasto di natura familiare (come l'Italia) queste definizione e le relative implicazioni risultano ancora parzialmente valide ma non a livello globale dove la separazione tra proprietà e controllo è una realtà piuttosto diffusa. L'errore sta nel ragionare su termini e concetti antiquati che non hanno più senso.
Ad ogni modo, ritengo che l'asserzione di tipo Keynesiano secondo la quale una iniqua distribuzione del reddito abbia causato una debolezza della domanda aggregata in molti paesi sia valida ed è dimostrabile non attraverso la quota lavoro o il valore del salario medio rispetto al profitto e alla rendita bensì con indicatori della distribuzione del reddito in termini generali quali, ad esempio un coefficiente di Gini, o una curva di Lorenz. In altre parole, basterebbe dimostrare una correlazione significativamente valida tra distribuzione del reddito e domanda aggregata per dimostrare l'effetto depressivo sull'economia. Oltretutto, sono dati facilmente disponibili e di facile elaborazione.